Narrare l’epidemia / Nemesi di Philip Roth

9 Maggio 2020

Era considerato un capolavoro minore, Nemesi, l’ultimo libro di Philip Roth, il romanzo finale-definitivo che sanciva l’addio del grande scrittore alla scena letteraria, senza tuttavia destare troppo clamore. Non si trattava di un testamento, né di un’opera epocale in grado di riformulare la storia della letteratura contemporanea alla stregua del magnifico Pastorale americana. L’ultimo romanzo di Roth fu pubblicato nel 2010, otto anni prima della morte dell’autore: Nemesi era un libretto di appena centottanta pagine, piuttosto cupo, che concludeva il ciclo dei romanzi brevi iniziato con Everyman (2006). Omaggiato dalla critica, amato dagli appassionati dello scrittore, il libro tuttavia apparve come un orpello decorativo da aggiungere all’immensa produzione narrativa di Roth, fu presto offuscato dal bagliore dei ben più celebri capolavori: portava il nome dell’autore-genio, ma non poteva considerarsi certo la sua opera migliore. 

Eppure in questo 2020 funesto, assediato da un male invisibile, Nemesi ritorna in tutta la sua potenza, ci appare un libro profetico. Al centro della narrazione il proliferare di un’epidemia di poliomielite nell’America degli anni ’40: lo scrittore nella sua ultima fatica scelse di concentrarsi proprio sulla fisicità del male e i suoi effetti, mettendo in scena il dramma inenarrabile dell’impotenza umana. L’atto con cui Philip Roth ha concluso la sua luminosa carriera di narratore apparentemente parlava del passato, ma in realtà ci stava descrivendo il futuro.

 

Ritorna alle origini Roth, ambientando la sua ultima storia a Newark, la propria città natale. Così una semi-sconosciuta cittadina del New Jersey diventa il teatro di una lotta senza pari, quella tra l’uomo e il suo destino.  Nel narrare l’avanzare inesorabile dell’epidemia, che fa strage di bambini in un campo giochi estivo, Roth si serve della consueta scrittura asciutta e incalzante che coinvolge il lettore in ciò che appare fin dall’inizio come una battaglia senza scampo, che non lascerà vincitori né vinti. Se in tempi non sospetti la malattia poteva essere letta come metafora, un espediente letterario che consentiva di approfondire il rapporto tra l’uomo e la morte, tra l’uomo e il senso del limite; oggi invece la parola «epidemia» ci balza all’occhio con una rapidità allarmante dissolvendo ogni distanza tra verità e finzione. 

 

Impossibile non affiancare la narrazione al nostro presente; troppe espressioni ritornano, troppe frasi, assonanze, affermazioni già note: «Nel quartiere si sparse la voce che la malattia era stata portata a Weequahic dagli italiani»; «Erano gli spaventosi numeri che certificavano l’avanzata di un’orribile malattia»; «Il bollettino della polio, che veniva trasmesso quotidianamente dalla stazione radiofonica locale»; «Fuggire dalla città che tremava per l’epidemia e risuonava delle sirene delle ambulanze sempre in movimento». Gli scenari che Roth tratteggiava ricostruendo la quotidianità americana in una lontana estate del ’44, sembrano una premonizione netta di quanto sta accadendo ora, nel mondo travolto dall’espandersi irrefrenabile della pandemia di Covid -19.

C’è dapprima lo sconcerto nei confronti di quanto sta accadendo, in seguito la diffidenza, la tensione in continua ascesa, l’insorgere della paura dinnanzi ai primi morti innocenti.

In Nemesi non troviamo la costruzione fantascientifica di uno scenario apocalittico, piuttosto una spietata quanto commovente descrizione del cuore umano. La narrazione si concentra essenzialmente su un unico personaggio, Bucky Cantor, l’animatore del campo giochi di Newark che, esonerato dal servizio militare a causa di un problema alla vista, si ritrova suo malgrado a combattere un altro genere di guerra, assistendo impotente allo sterminio dei suoi piccoli protetti, falciati uno dopo l’altro da una malattia incurabile che li costringe all’immobilità in un polmone d’acciaio e, nella maggior parte dei casi, alla morte.

 

Le domande che si pone Mr Cantor sono le domande di ognuno di noi in questo difficile momento. Leggendo assistiamo smarriti alla sua impotenza, accompagnati dalla voce sicura di un narratore depositario del racconto che conosce perfettamente il finale della storia e prosegue imperterrito, come un destino.

Pagina dopo pagina, mentre la situazione si evolve nelle sue prevedibili conseguenze drammatiche, non possiamo che pervenire a una constatazione amara: in questo momento siamo tutti Mr Cantor, come lui viviamo smarriti, colti di sorpresa, in bilico tra il desiderio di dominare gli eventi e l’inevitabile tendenza ad esserne sopraffatti. Bucky è un giovane forte e intelligente, in pieno vigore fisico, eppure non è in grado di fermare quel nemico invisibile che continua a mietere vittime innocenti: in questa apparente contraddizione il nodo della storia, la lotta impari, la cosiddetta “Nemesi” – la distribuzione del fato – che dà il titolo al romanzo.

Una crudeltà senza senso né scopo, capace di annientare ogni certezza, tale appare la malattia e in tali termini la descrive Roth, senza nulla togliere alla sua ferocia. Secondo gli antichi greci la Nemesi era la giustizia distributrice, che spargeva bene e male a suo piacimento. In questo senso l’epidemia si fa diretta rappresentazione del caso, la tirannia della contingenza, la Nemesi greca ne è il ritratto più fedele e, allo stesso tempo, più atroce.  

 

 

Non mancano gli appelli a un Dio superiore in queste pagine, l’interrogativo chiave della teodicea: «Si Deus est, unde malum?», forse l’unica domanda ossessiva, riproposta sotto diverse interpretazioni, alla fine è solo questa.

Mr Cantor interroga incessantemente una divinità muta, esamina la propria coscienza fino ad uscirne dilaniato. La malattia all’improvviso mette in discussione ogni cosa, l’intero sistema di valori su cui la solida società americana si era sempre fondata, la religione, la rettitudine, i principi spirituali. 

Fanno da sfondo al racconto il suono lugubre delle ambulanze, uno strillo acuto, simile a un grido, un presagio di morte; e il controcanto consolatorio di una melodia nostalgica “I’ll be seeing you” di Billie Holiday, il ritornello straziante cantato da un’intera generazione divisa dalla guerra. «Io ti vedrò,» canta anche Bucky Cantor alla fidanzata Marcia, malgrado l’orrore e l’incertezza che li circonda, “I’ll be seeing you in every lovely summer’s day” risuona malinconica, come una promessa destinata a spezzarsi. Intanto la città di Newark vive sotto l’assedio dell’epidemia, in un luglio afoso, umido quanto una palude infernale. 

 

Se quelle persone avevano ragione, a Newark respirare il soffio della vita era un’attività pericolosa: facevi un respiro profondo e potevi restarci secco. 

 

Le persone, all’improvviso, iniziano a guardarsi con diffidenza, a evitare le strette di mano e a chiedersi con sospetto a chi si fossero avvicinate solo una settimana prima. Iniziano le restrizioni, vengono chiusi i luoghi pubblici, i campi giochi; la gente è spaventata, atterrita da qualunque cosa, si rifiuta persino di mangiare un hot dog bollito in un fast-food. Il contagio descritto da Roth presenta molti parallelismi con la situazione attuale, ma con una differenza non trascurabile: l’epidemia di poliomielite, al contrario del Covid-19, colpiva soprattutto i bambini riducendo molte giovani vite alla paralisi e alla disabilità permanente. È certo uno degli aspetti più strazianti della narrazione, ed è tutto quanto può consolarci facendo un raffronto con i tempi bui che stiamo vivendo. 

Nella parte centrale del libro Roth ci illumina con una riflessione che appare come un bilancio di questi ultimi mesi: i numeri delle vittime del virus sono quanti quelli riportati dalle vittime di una guerra mondiale. L’epidemia, nel senso più vero e stringente del termine, è una guerra di annientamento. 

 

Erano gli spaventosi numeri che certificavano l’avanzata di un’orribile malattia e che, nelle sedici circoscrizioni di Newark, equivalevano ai numeri dei morti, feriti e dispersi della vera guerra. Perché anche quella era una vera guerra, una guerra di annientamento, distruzione, massacro e dannazione, una guerra con tutti i mali della guerra.

 

Si intuisce fin dall’incipit che quanto ci viene raccontato in Nemesi è una lotta senza vincitori, una fuga destinata al fallimento, eppure continuiamo a leggerlo anche per questo motivo: non è compito della letteratura rallegrare o edulcorare il mondo, né tantomeno fornirci inutili palliativi. Dalla buona letteratura ci aspettiamo innanzitutto un’analisi profonda della realtà, un’analisi senza artifici, eppure consolatoria, perché in grado di mostrarci l’umanità nei suoi aspetti più drammatici e resilienti.

Dicono che Nemesi non possa definirsi il testamento di Philip Roth, tuttavia non mi stupisce che sia stato il suo ultimo romanzo: le pagine finali sono poesia pura, riescono a condensare da sole tutta un’esistenza, e nell’ultima breve descrizione prima del punto definitivo viene raffigurato un’istante eterno di giovinezza. Roth conclude con un’immagine forte, con un flashback che sa di vittoria e dissolve d’un lampo l’atmosfera cupa dell’intero romanzo. 

 

E poi lanciò il giavellotto. Quando lo lasciò andare si vide ogni singolo muscolo che si gonfiava. Emise per lo sforzo un urlo strozzato, un suono che esprimeva la sua essenza: il nudo grido di battaglia dell’eccellenza nella contesa. (…) Mentre correva con il giavellotto in alto, mentre allungava il braccio ben dietro il corpo, mentre lo riportava in avanti per rilasciare il giavellotto in alto sopra la spalla – e poi lo rilasciava come un’esplosione –, ci sembrava invincibile.  

 

Mi piace credere che questa scena contenga, in nuce, un’idea di resurrezione, un principio di immortalità. Philip Roth apparentemente non ci offre nessuna risposta, alcuna consolazione, eppure conferisce all’umano tutta la sua straordinaria, inarrestabile forza di reazione.

Il finale non scritto del libro è che un giorno non lontano il vaccino anti-polio venne scoperto, molti bambini furono salvati e la gente col trascorrere degli anni iniziò a pensare alle epidemie come a qualcosa che apparteneva al passato, a un tempo ormai remoto.  

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