20 settembre 1902 / Zavattini e le capre

20 Settembre 2016

-   Massimo ti ricordi qualcosa di Zavattini? Cosa faceva quando era in paese? 

 

A nè che s'vdessa tant   chi eh... m'la arcord ch'l andeva in gir con la so cannetta...

 

- Cerreto è un mucchietto di vecchie vestite di nero con le gengive smodate e scarpe da uomo, più qualcuno che torna dal lavoro in lambretta nascosto dietro il parabrezza…Vado a fare due passi prima di cena e cammino con le nuvole tra i piedi, immaginate il battito del mio bastone sui sassi e una capra...

 

Una terza persona il avrebbe visti entrambi, il bambino e il personaggio famoso, nella stessa scena sul far della sera e dell'autunno, in un paesino di pietra sull'Appennino Tosco Emiliano.

 

 

Due testimonianze che sembrano mondi lontani e che pure si erano incontrati saltuariamente per oltre un trentennio. Nell'immagine malinconica, l'artista usa solo i grigi e il nero per dipingere la realtà di un paese. Dall'altra parte l'immagine altrettanto diretta di un bambino che negli anni 60 stava assaporando  le suggestioni della modernità, che al sabato sera poteva vedere nella sala parrocchiale il cinematografo, forse anche quello di Zavattini.

C'era sempre della gioiosa e rispettosa irriverenza nelle parole di Massimo, il paio di volte che gli avevo rivolto quella domanda. A distanza di tempo la figura di Zavattini gli appariva ancora lunare, estranea al paese e alla sua infanzia,

 

Se ne ebbero a male i Cerretani di quel giudizio di Zavattini, come più tardi di un documentario Rai sul "ritiro" dell'artista nel paese dove venivano ripresi in abito da lavoro, con al fianco i muli da soma e con le donne in grembiule, i capelli raccolti dentro un fazzoletto e ai piedi quelle stesse scarpe da uomo, tutte rigorosamente in "coramm" (cuoio) fatte a mano ruvidamente e sapientemente da Clemente, il calzolaio che aveva sposato la sorella di  Cesare Zavattini, Tina.

Se ne ebbero a male non perché quella non fosse in fondo la realtà ma perché Zavattini non riuscisse ad andare oltre, non riuscisse a vederli lontano da quella dura vita, non riuscisse ad immaginarli nei loro vestiti della festa, nelle loro arguzie e abilità, nelle risa e nei timori, nella loro complessa umanità,

Eppure voleva bene Zavattini a quei montanari: nello stesso documentario lo si vede ad un certo momento elogiare le supposte virtù curative delle "mele tosche", piccoli e aspri pomi, un tempo comuni, che la modernità avrebbe cancellato dalla biodiversità e dagli usi. Oggi si direbbe un tentativo di marketing territoriale, il desiderio di porre l'attenzione su un paese della profonda montagna appenninica.

 

 

Ma l'umanità dei montanari, in fondo come poteva capirla Zavattini, che rimaneva nel cuore, nei modi e nel sentire   un abitante di Luzzara, grosso borgo nella bassa emiliana?

Eppure Zavattini era interessato quasi solo all'umanità.

All'umanità e allo stupore di fronte ad essa... la sua poetica e le sue opere ne sono impregnate e ne costituisce il tratto saliente. La Veritaa, l'ultimo suo lavoro cinematografico e il primo come regista e protagonista,   si conclude con lui che davanti alla cinepresa afferma quasi con furore che «Il pensiero ha bisogno degli ingredienti di tutti per manifestarsi... gli ingredienti mentali di tutti... perché tutti siamo uguali nella grandezza!». Alla fine della sua vita e della sua produzione artistica, non è questo un vero testamento spirituale? Atto di amore e dichiarazione per l'essere umano, al centro della sua intera ispirazione.

 

 

Sarebbe  piaciuta a Zavattini l'umanità di Massimo, cresciuto a lungo con i nonni ne aveva assorbito la memoria – delle parentele, delle relazioni, delle tradizioni – una memoria antica ma filtrata da una grande voglia di vivere, da uno spirito perennemente irrequieto, frenetico nel fare, sempre teso a una battuta, a uno scherzo materiale e con una acuta scaltrezza che era il suo tratto distintivo. Spesso ho pensato che fosse una versione moderna della scaltrezza di Bertoldo uscito dalle pagine di Giulio Cesare Croce. La furbizia come bussola per orientarsi nel mondo e nelle relazioni, mai per nuocere. Una bussola di cui il montanaro ha sempre avuto bisogno per sopravvivere, insieme alla sapienza delle strade, degli animali, delle piante.

  • Vando,   hai mai incontrato Zavattini?
  • Ma sči ma sči... ma pogh, second me al steva anch' tant in cá a scrivre, a leggre...

Scriveva Zavattini nella casa della sorella Tina, pochi metri prima della porta di Vando e nello stesso "casamento" di Cá d'Giambò-Gian Fiore. La camera dove lavoro, tre metri per tre mi va bene, e dovrei finalmente stare seduto al tavolo per otto ore al giorno anziché non fare... mi tengono compagnia la piccola ruota incastrata nella finestra, per cambiare l’aria, e un torrentello... il torrentello fra poco entra nel Secchia e il Secchia dopo una notte in discesa entra con le sue trote e l’acqua stretta e nervosa nell’acqua grande e placida del Po che passa da Luzzara dove sono nato...”

Non si era abituato Vando alla bassa reggiana in cui era andato a vivere e lavorare. Per lui le vie   rimanevano le mulattiere che tutte conosceva e che tutte aveva frequentato nella "sua prima vita", sempre a piedi, con la moto trial solo negli ultimi anni e solo se voleva fare "bottino" – trote, funghi, mirtilli – lontano.   Per lui "casa" era restata tutta la vita Cerreto dove ritornava anche per una sola notte. Una casa che era il paese, il torrente, il bosco, i monti, l'aria più che Cá d'Gianbò.

 

Forse, Zavattini non sarebbe riuscito a cogliere pienamente l'umanità di Vando; non perché timida e sfuggente nel darsi, almeno in un primo momento; non per lo sguardo melanconico sulle cose, oltre ogni sua allegria improvvisa, non per la prudenza nella vita, piuttosto   per il raccoglimento interiore   cercato nella solitudine dei passi – lenti, in salita – per la sfida con l'ambiente e le sue risorse (come cavare porcini ancora al buio, trovati con la sapienza e con il tatto). Prima di essere compresa, quell'umanità   avrebbe dovuto essere condivisa nel silenzio e nella fatica delle mulattiere, nella prima luce radente sui crinali, nel gusto della "predazione"...

La solitudine del cammino praticata come preghiera, sorta di ascesi profana,   e l'istinto predatorio non erano una contraddizione: anche queste sono sempre state qualità della gente di montagna, tra vocazione e bisogno, istinto e necessità, sempre sugli incerti e mutevoli confini della montagna.

 

  • Ora ti scrivo da Cerreto Alpi, Reggio Emilia, a mille metri, tra capre pioggia e speranze... resto qui un mese due tre per finire un certo libretto...

Le capre che Cesare vedeva tutti i giorni dovevano essere quelle che Romano, il padre di Vando, portava al pascolo. Due volte al giorno passava sotto la sua finestra per attraversare il torrente.

Mi piacciono i paesini incassati tra i monti, quattro case la chiesa il camposanto a portata di mano... lo cinge un muricciolo da bambini. Spesso le capre saltano il cancelletto e si sdraiano tra la gramigna sotto il sole bianco della montagna...

 

 

Perché Zavattini le poche volte che parla del Cerreto lo fa sempre attraverso la presenza delle capre? Non parla delle pecore che pure erano migliaia, non delle vacche, degli asini, dei cavalli, dei muli...

Non credo sia stato casuale ma non credo neanche sia stato voluto. Il fatto è che la capra nella realtà e nell'immaginazione,   nei luoghi comuni come per la biologia, è animale dove l'umanità meno ha inciso. Avvezza a pascoli e terreni che altri animali ignorano, facile a rinselvatichire, riottosa alla guida del pastore, esprime tra gli animali da allevamento "il selvatico", resta nell'intimo "natura" prima di ogni "cultura" aggiunta. È insomma l'animale domestico sul quale l'umanità sembra avere meno a che spartire.

Non un caso e nemmeno una volontà le presenze caprine di Zavattini ma l'immaginazione di un pittore (sì era anche pittore Zavattini, oltre che giornalista, poeta, scrittore, fondatore di giornale, uomo di cinema, "co-inventore" del neorealismo)   che coglie l'essenza del luogo. L'eccesso di natura straripante, il forte impatto sulla vita degli uomini, la fatica, spesso l'impotenza del vivere di fronte agli elementi, era questo che percepiva Zavattini sull'Alpe prima di ogni umanità che l'abitava. Era questo che avvertiva durante ogni suo soggiorno... ogni volta prima di andare.

 

Perché arrivava sempre il momento di andare via da quella natura straripante,   per certi versi angosciante.

...un villaggio è nero sotto un cirro, qualcuno sta dicendo non esco, pioverà.

A destra intravidi una grande città che l'ombra stava abbandonando per dar posto   al sole il quale avanzava come da un uscio che si apre adagio... io non voglio morire al mio paese, là tornerò terra mentre in mezzo alle grandi case della città potrei risvegliarmi un mattino.   (In aeroplano)

 

Se penso a mio nonno e a quelli della sua generazione (era quella con cui Zavattini aveva avuto maggiormente a che fare) mi accorgo come la parte di Novecento che ci divide segna in realtà   la separazione di due mondi diversi... di uomini diversi. Posso immaginare qualcosa della loro umanità ma non comprenderla completamente (come l'impossibilità di riprodurre un gusto antico). 

Sparite le capre, sparite le scarpe in "coramm", oggi la vita non si consuma più nelle fatiche dell'Alpe e il luogo sembra un paradiso. Ora, Cesare Zavattini   avrebbe   compreso in "un amen" la nostra umanità   solo che l'avrebbe trovato inevitabilmente diluita, simile ad altre, a molte altre...

 

Eppure, anche oggi in montagna, in autunno (la stagione preferita da Zavattini) arrivano i giorni in cui dover andare... perché si può cercare la solitudine, ci si può intrattenere con la consapevolezza della propria fragilità, ma arriva sempre il momento che difficilmente si riesce a resistere ad entrambe. 

Perché alla lunga la montagna logora, straccia sempre quell'umanità che ci siamo costruiti addosso: restati nudi, chi può, deve andare.

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