Il passaggio

20 Luglio 2012

In una tersa giornata di un’estate lontana, forse trent’anni fa, si partì di buon’ora alla volta del maestoso massiccio del Bernina e delle valli che lo circondano: la bella Engadina a settentrione e la Valtellina a meridione.  In testa avevo da tempo questa affascinante prima esplorazione (molte altre volte sarebbe poi successo negli anni a venire) nei luoghi di gente che aveva fatto la storia della musica, della letteratura e della filosofia. Nel mio immaginario giovanile si trattava però di luoghi mitici dell’entomologia. Sapevo che qui si trovano gli apollo e i loro cugini delle più alte quote, i Parnassius phoebus, due specie di grande interesse per l’appassionato. Sapevo anche che in Engadina volano rare erebie, delle farfallette brune scure con macchie aranciate, di cui esistono decine di specie, molte delle quali si trovano solo sulle Alpi, tutte simili tra di loro e spesso indistinguibili all’occhio inesperto. Infine, quella è la patria di una rara melitea, l’asteria, piccola e quasi invisibile farfalla arancio smorto, che svolazza tra le basse erbe dei passi che portano all’Engadina. Una rarità davvero e difficilissima, mi dicevano gli esperti, da osservare e da reperire.

 

Parnassius phoebus

 

La via per l’Engadina passava dalle sponde del lago di Como e dal passo del Maloja, una parete verticale su cui si inerpica la strada a tornanti mozzafiato. Raggiunto il valico, si è in Engadina: la vista, per chi vi giunga per la prima volta, è idilliaca. Di fronte si ha il primo di una serie di laghi allungati lungo l’asse della valle ad occupare la piana tra il massiccio del Bernina, a sud, e la catena di monti, a settentrione, valicata dai passi il cui nome mi faceva tremare le vene ai polsi: Julier, Albula e, più oltre, Flüela. Qui si trovano le rarità e le specie che cercavamo con grande apprensione, mista ad un certo timore di non trovarle. Vi è una paura davvero ancestrale e incontrollabile che si annida nel cuore di qualsiasi ricercatore di farfalle quando si mette in cammino per i luoghi lontani dove spera di trovare la rara specie. Il timore si trasforma poi, poco a poco, in ansietà di arrivare sul posto. Il viaggio diventa una inutile e futile procedura da superare velocemente al fine di iniziare la ricerca sul campo. Non importa la via, occorre solo arrivare nel minor tempo possibile per potersi lasciare andare a folli corse sui dossi e sui pascoli dietro alla rara specie. Allora, e solo allora, il timore e l’ansietà sono vinti ed esplodono mille energie.

 

In breve raggiungemmo uno dei passi, molto in alto, a 2500 metri, dove cercavamo il febo. E il febo, come si usa tra gentiluomini, non mancò all’appuntamento. Lo vedemmo scendere con il suo garbato e basso volo zigzagante lungo il torrentello, in realtà poco più di un ruscello, che stava a pochi passi da noi, fresco e contornato da milioni di sassifraghe gialle e luminose, il fiore su cui il febo depone le uova per riprodursi. Le sue misteriose larve si ingozzano di queste piantine fiorite che crescono ai bordi dei ruscelli più alti delle Alpi o nelle piccole pozzanghere, formate dai ruscelli stessi, tra il pietrame e la sabbia grigio chiaro che si rivela in primavera, quando si scioglie la neve dei mesi invernali. Come l’apollo è il re dei monti, il febo lo è delle più alte cime alpine: non manca mai nel suo habitat preferito lungo i ruscelli quando si sale oltre i 2000 metri di quota. Eravamo contenti e soddisfatti di aver osservato questa bella farfalla bianca, molto simile all’apollo, ma con macchie nere e rosse più piccole e colore di fondo più intenso. La giornata passò così, su e giù per i dossi più elevati, rincorrendo una erebia bruna o una melitea fulva. Trovammo anche la rara Mellicta asteria, una sorta di frullante, velocissimo e mimetico insetto che non vedi se non hai un occhio addestrato a lungo nel riconoscere le farfalle quando volano basse tra le erbe. Per prenderla, si devono sferrare spesso colpi a caso vicino a dove se ne avverte la rapida presenza; se fallisci non hai una seconda chance, dato che proprio non la si scorge più.

 

Mellicta Asteria

 

 

E così passò pure la seconda giornata, salendo e scendendo dai grandi valichi, bevendo acqua gelida come il ghiaccio e con quel gusto in bocca di neve sciolta che solo sui monti si può provare. La notte precedente si era dormito nel primo albergo fornito di camera decente e fresca trovato lungo la via. La seconda notte decidemmo di salire a metà strada verso il valico, per dormire in una locanda vecchio stile di questo borgo un poco misterioso e sperduto, regno del silenzio e della solitudine, in quella parte di Grigioni ricca di storia. Affreschi di genti locali e di avvenimenti passati da secoli si ammiravano sui muri del municipio, e le case bianche e dal tetto di pietra, fittamente allineate lungo la stretta via, conservavano quel gusto austero di un piccolo popolo che parlava un dialetto romancio. Vi erano fontane di acqua freschissima ovunque, nelle piazzette del borgo e nelle vie, e noi passeggiando ci si divertiva a gustarla ad ogni fontanella che si incontrava. Lo scroscio dell’acqua che si gettava nella vasca di pietra era in fondo l’unico rumore udibile per le vie del borgo dopo il tramonto: qui la gente rientra presto, si diceva, e non sta per le piazzette e le vie come si usa più a sud, da noi, a far venire la notte. Dopo una buona cena nella taverna detta Schwartzer Adler, l’“Aquila nera”, in cui ci gustammo del camoscio al chivé, anaffiandolo con il robusto rosso valtellinese il cui nome, “Inferno”, non è casuale, raggiungemmo la nostra locanda e ci ritirammo nella fresca camera spaziosa affittata per la notte.  La camera, arredata come si trova da quelle parti con mobili solidi in legno intarsiato, dava sul freddo lago incassato tra le montagne e dal color argentato interrotto da ampie chiazze d’ombra nero antracite. Vedevo le luci dell’altra sponda specchiarsi sull’acqua e godevo del silenzio assoluto del luogo, mentre il sonno poco a poco mi avvolgeva.

 

 

La notte silenziosa dei monti era scesa da qualche ora sul villaggio sperduto lungo la via per il valico di confine. I pochi abitanti rinchiusi nelle proprie case erano immersi, come me, in un sonno profondo ed uguale. Mi svegliai improvvisamente, forse per un tuono. Guardai dalla finestra e nel freddo lago ora potevo scorgere il debole riflesso della mezza luna offuscata da grosse nuvole temporalesche e minacciose, dopo una giornata di sole brillante. Il silenzio era profondo, ma interrotto a tratti dal sibilo del vento che si era improvvisamente levato nella notte e dai tuoni in lontananza. Tuttavia, qualcosa di diverso dal solito stava accadendo lungo i primi ripidi tornanti che si scorgevano in basso, a metà della valle. Pareva una carrozza che saliva verso il villaggio, una normale carrozza dell’antico servizio postale di questi luoghi, trainata da quattro cavalli; stupiva, tuttavia, l’ora del passaggio, insolita per qualsiasi postiglione. Qui, infatti, la posta giungeva ancora con i postiglioni ogni due o tre giorni, ci avevano detto, ma io non ci avevo creduto.  Scesi in basso attraverso le scale di legno della locanda e trovai l’oste ancora in piedi a quest’ora tarda. Mi chiese se qualcosa non andava e io gli raccontai ciò che avevo visto in basso, sui tornanti che salivano dalla valle. Lui si precipitò alla finestra, curioso ed allarmato al tempo stesso, avvertendo, evidentemente, qualcosa di strano. Subito vide la carrozza. Mi disse che non ricordava di aver mai osservato un transito a quell’ora tarda. Era, infatti, poco prudente avventurarsi per una via buia e maltenuta quale questa che portava al valico in piena notte. Poco alla volta, ma inesorabilmente, la carrozza si avvicinava al villaggio. Il rumore, dapprima indistinto e frammisto a quello del vento e dei tuoni lontani, si faceva sempre più netto finendo con il destare dal torpore notturno anche altra gente del villaggio; si accesero così le luci di alcune case vicine. L’attesa ora era davvero inquietante. L’amico Piscopo si destò pure lui e ci raggiunse. Salimmo con l’oste alla finestra del piano superiore, nell’attesa ansiosa della carrozza, ora sparita tra le prime case del borgo che ci impedivano la vista sulla via. Fu questione di pochi secondi e ci trovammo di fronte ad uno spettacolo inatteso. La carrozza, superate le prime case, era ormai visibile sulla via centrale del villaggio e se ne scorgevano i dettagli in controluce sul lago illuminato da una luna fosca. Era un mezzo rumoroso e sgangherato e, ci dicemmo, certo risaliva a qualche decennio addietro. Alla guida di quell’infame carro stava un magrissimo ed alto figuro: portava cilindro e mantello scuri da quel che potemmo intuire grazie ai lampioni della via. I suoi movimenti erano rapidi e nervosi, e i colpi di frusta vigorosi e robusti. I cavalli, quattro possenti ronzini neri, ansimavano e sbuffavano affaticati, mentre il fracasso dei loro zoccoli pesanti batteva un ritmo assatanato.  In loro, tuttavia, non v’era segno di ribellione al volere del cocchiere in cilindro e mantella e, pur maltrattati e frustati a sangue, proseguivano a testa alta e decisi la loro corsa verso il valico.  Tutto questo vedemmo quella notte e come noi videro altri montanari svegliati dall’assordante e grottesco passaggio che si stava svolgendo di fronte a noi. La carrozza, intanto, rapidamente e senza il minimo rallentare aveva superato il villaggio. Il rumore si fece sempre più indistinto e, alla fine, la notte riprese il silenzio abituale e proseguì, tranquilla, sino all’alba.

 

Il mattino successivo, in paese, era piuttosto freddo per la stagione in cui si era. La gente a colazione parlava in quel dialetto antico e dallo strano suono latino che io comprendevo in parte, ma del passaggio della carrozza la notte precedente non si diceva nulla, come se non fosse successo o si temesse a parlarne. Ebbi l’impressione che questi signori ne sapessero di più di quel che volevano dare ad intendere. Provai a chiedere all’oste al momento di pagare il conto di cosa si era trattato, ma lui cambiò discorso. Piuttosto, mi chiese dove intendessimo andare oggi a cercare farfalle con i retini che avevamo al nostro fianco. Gli risposi che saremmo saliti al valico e cercato tra i macereti a 2500 metri di quota qualche rara farfalla.  Andai intenzionalmente dal fornaio di fronte a comprare il pane di segala che si vende da quelle parti, dato che avevo ben visto il fornaio, intento a far pane, affacciarsi dalla sua finestra illuminata al passaggio misterioso. Gli chiesi che cosa pensava fosse successo nella notte con tutto quel fracasso. Mi rispose semplicemente che non era accaduto granché e che, sì, si era sentito un rumore piuttosto forte nella notte ma che forse erano stati i tuoni del temporale. Così, sconcertati, salimmo al valico e cacciammo farfalle tutto il giorno. Vedemmo il febo bianco crema e le veloci bolorie aranciate divertirsi nelle radure alpine a suggere dalle viole selvatiche. C’erano ancora le erebie brune e qualche rara asteria. Il cielo tornò a farsi blu e la temperatura salì tanto da rendersi gradevole anche a quelle altitudini. Tornammo a parlare di farfalle e di falene, come se non fosse avvenuto nulla e la carrozza non fosse mai esistita. Anzi, io cominciai a pensare che fosse stato tutto frutto della mia fantasia e del camoscio al chivé, consumato all’osteria la sera precedente, innaffiato con l’ottimo Inferno della Valtellina. Dello strano figuro in cilindro e mantella e della sua sgangherata carrozza dai quattro ronzini neri non si parlò più per oltre trent’anni. Fino ad ora.

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