Lettera dall'India / Tradurranno Kaushik Barua?

30 Dicembre 2017

Kaushik Barua è da anni che ci prova. Mi ha scritto su Facebook quand’è uscita l’edizione indiana del suo romanzo. Non so perché. Magari sperava potessi essere d’aiuto nel farlo conoscere in Italia. Ci siamo scambiati messaggi via email. Il libro cartaceo non mi è mai arrivato. Si è rifatto vivo per l’edizione americana. E me l’ha spedito da Roma a Chennai con un corriere internazionale. Il suo libro è già stato spennellato di lodi ed entusiasmo da alcuni quotidiani indiani perché in effetti è una gran bella lettura.

 

L’altra sera, di ritorno dall’otorinolaringoiatra, mi sono messo a filmare con il telefonino le strade del quartiere di Mylapore, addobbate di luci e lumini per la festa di Deepam che quest’anno coincide con una super-luna, una bolla rossa vicinissima alla terra. È una specie di Natale indù, diciamo così, con tanto di fuochi d’artificio in stile Capodanno che illuminano il cielo di rosso, arancione, giallo e verde.

Il taxi è fermo a un semaforo, accanto a un piccolo tempio. Di fronte alla porta, un rogo di sterpi brucia e mi ricorda il rito pagano cui partecipavo da bambino nel paese dei miei nonni e dove nacque mia madre, Recoaro Terme. 

 

 

Brusare la stria è un incrocio tra l’autodafé delle streghe da parte della Chiesa, avvenuto in massa in queste Prealpi, e un rituale ancora più antico e pre-burocratico, che sacrifica nel fuoco il vecchio anno e inaugura il nuovo. La vecchia strega, incarnata da un’attrice vestita di stracci, arriva dalla montagna e un fantoccio che le somiglia viene gettato nel fuoco dal quale emerge l’anno nuovo. 

Di fronte al tempio di Mylapore, il mio sguardo si perde tra le fiamme del fascio di legname, che si sovrappone al rogo della Stria di Recoaro, il 6 gennaio di alcuni decenni fa. Così, per un istante, sento germinare in me lo stesso stato d’animo di Krantik, il protagonista del romanzo di Barua, consulente indiano che abita a Roma e gironzola come vero flaneur per le strade del centro fingendo d’essere un turista disperso e chiedendo a tutti da che parte è il Colosseo, ma è solo per attaccare bottone, per cercare di penetrare la barriera di solitudine dell’estraneo, lo straniero, l’alieno.

 

Ho sempre amato il senso di solitudine che dà lo sradicamento dalle origini, saltellando per vari continenti gran parte della mia vita, e sono finalmente atterrato in un luogo dove il senso di alienazione mi è garantito, in questo stato del sud dell’India dove si parla una lingua antichissima e complicatissima, con parole lunghe come le onde della Baia del Bengala, piene di consonanti complesse che il mio udito prematuramente avariato fatica a comprendere. Dopo tutti questi anni so dire a malapena “non c’è più acqua,” “come va?,” “benone,” “dove?,” “voglio mangiare,” “no.”

Anche Krantik parla pochissimo l’italiano, e si deve arrangiare nella sua vita romana cercando il dialogo con i coetanei italiani, millennials che parlano inglese, ed è limitando anche lui, quindi, nella profonda scoperta antropologica del suo nuovo nostos

 

 

Krantik è un paranoico e ipocondriaco, sempre ossessionato da qualche presunto sintomo di malattia cronica e mortale. E anch’io posso dire d’avere conosciuto i migliori dentisti, dermatologi, ortopedici, gastro-enterologi, immunologi, oculisti, oftalmologi, oncologi e tuttologi di quella che viene considerata una delle capitali medico-ospedaliere di una super-nazione con un miliardo e quasi 300 milioni di abitanti che da decenni esporta medici in tutto il mondo. L’ascolto ossessivo del proprio corpo e delle sue presunte minacce fa parte integrante di un’introspezione che a volte deborda.

Naturalmente ho già, in precedenza, esplorato tutta la medicina alternativa disponibile, dalle cliniche ayurvediche, all’omeopatia, dai riti di purificazione nei templi, alle processioni a piedi nudi attorno alla montagna sacra per 14 chilometri sotto la pioggia. Krantik mi fa un baffo, ma lo capisco e mi è subito, se non simpatico, almeno familiare. 

 

Krantik viene salvato dalle sue paranoie da Federico, tassista bislacco che ama spaventare i passeggeri con finti tentativi di suicidio al volante. E anche qui, in India, prima della promiscuità tecnologica tra autista e passeggero imposta da Uber e simili, credo che il concetto del tassista o autista di auto-rickshaw con istinti suicidi non sia molto originale: sembrano tutti spinti dal desiderio di accarezzare i paraurti altrui, per mettere fine a quest’incarnazione e ricominciare il giro di samsara che li aspetta dopo l’incidente. 

Invece Krantik diventa amico del tassinaro-finto suicida, come anche di Leonardo, pilota dell’Alitalia disoccupato, e suo padrone di casa al piano superiore, che tanto mi ricorda il mio ex vicino, pilota Alitalia, presso il mio ultimo indirizzo romano. Certo che chiamarlo Leonardo sembra un gesto di pigrizia, ma forse i lettori anglosassoni non colgono l’ovvio riferimento all’aeroporto di Fiumicino, il Leonardo Da Vinci. 

E poi c’è la pazza Chiara, con cui Krantik ha una breve relazione, e si trova coinvolto in un culto stile Fight Club i cui membri prendono le decisioni fondamentali per la loro vita basandosi sui risultati delle partite di cricket che seguono in un pub stile irlandese, in questa rocambolesca incursione nella Roma degli expat che è sotto agli occhi di tutti, ma che pochi hanno raccontato come ha fatto Barua, il quale mi ha scritto d’aver sviluppato la sua voce narrante passando ore e ore nelle communities online tipo Reddit, dove stanno nascendo, così dice, nuove forme di linguaggio e un nuovo sense of humour. 

“Sono convinto che la voce bizzarra di questo romanzo catturi l’apatia della generazione dei millennial, un’apatia che ha contribuito direttamente anche agli immensi mutamenti politici e culturali della nostra epoca.”

 

Così, nel suo sradicamento globale nel quale mi rispecchio pur essendo troppo vecchio per fare il millennial, Krantik rappresenta il globalista o, meglio ancora, il buon vecchio glocal che pensa a Recoaro Terme durante Deepam a Chennai, quel cittadino globale che è diventato oggi il bersaglio vituperato di tanti tribalisti-nazionalisti del nuovo becero spirito dei tempi.

Kaushik Barua, in pieno stile auto-promozionale millennial, mi scrive quindi il suo pitch: “con il suo stile narrativo e il suo tono (uno sfogo disinibito che è pronto ad affrontare ogni istituzione mescolata con la dolorosa auto-coscienza che contraddistingue la Facebook generation) credo che [questo] sia il genere di romanzo letterario sperimentale che penso ti possa piacer recensire.”

 

 

E così eccoci qua. Ha ragione lui. L’ho fatto. Sono cascato nella sua trappola contemporanea. E vi trascrivo, così come me l’ha mandata, la sua pappardella a cui tanti scrittori, io compreso, siamo costretti nel nuovo e-mondo: “Inoltre, scriverò ancora nella stessa direzione stilistica. Di fatto, spingerò i limiti tra narrativa, black comedy e memoir nel mio prossimo libro che parlerà di suicidio e dolore, ispirandomi ad alcune esperienze personali e autobiografiche.”

Dovrei raccontarvi la trama, ma è parecchio marginale, gli intrecci servono a mantenere viva l’attenzione su un punto di vista, su una solitudine e sulla distanza dal mondo variegato di una Roma senza direzione che circonda Krantik.

Chiudo “No direction Rome,” contento di una buona lettura a volte onirica, a volte intima e con scosse doestoevskjiane e che, nel blurb in copertina, l’amica scrittrice Janice Pariat definisce così: “Violentemente divertente, epicamente tragica, la scrittura di Barua è genio tragicomico. Fucking brilliant.”

 

Kaushik Barua, No direction Rome, 2015, Harper Collins-Fourth Estate.

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