Una conversazione con Antoni Muntadas

30 Novembre 2011

Al Centro Reina Sofía di Madrid ha aperto da pochi giorni Entre/Between una retrospettiva del lavoro di Antoni Muntadas che attraverso nove “costellazioni tematiche” offre una lettura complessiva del suo percorso. Maturato nel clima radicale degli anni settanta, il lavoro di Muntadas, nato a Barcelona nel 1942, residente a New York dal 1971 e da molti anni docente al MIT, si configura da subito come un’indagine intorno ai meccanismi discorsivi che danno forma all’esperienza sociale contemporanea. Con forme e media molto diversificati – dai dispositivi tipici dell’arte concettuale (inchieste, libri, archivi, interviste, ecc.) a installazioni, video, progetti nello spazio pubblico e più di recente al web –, l’opera di Muntadas affronta direttamente il potere e le istituzioni che lo rappresentano, prendendo di mira la logica egemonica, la rete di occultamenti, di falsificazioni grazie alle quali esse mantengono la loro credibilità. Come altri artisti a lui affini, ad esempio Daniel Buren e Hans Haacke, l’artista spagnolo sviluppa al tempo stesso una visione critica dell’arte e del suo “sistema, di cui esplora i sottintesi materiali e ideologici (il collezionismo, il mercato, i musei, ecc.), e una verifica critica della realtà contemporanea, i cui aspetti problematici (ad esempio la relazione pubblico/privato, il consumismo, i processi di globalizzazione, l’urbanistica, i mass media, la censura, il capitalismo finanziario) divengono la materia prima di lavori sistematicamente in progress.

 

Quelle di Muntadas più che opere in senso tradizionale sono, come lui stesso ricorda, artefatti, vale a dire dispositivi, “attivatori” in senso antropologico, oggetti e “situazioni” relazionali in cui l'artista presenta gli esiti delle sue ricerche sul campo, organizzati e “montati” così da sollecitare gli spettatori a individuare molteplici e simultanee direttrici di decodifica. Una modalità decostruttiva, questa, ispirata alle metodiche poststrutturaliste, e in particolare ai lavori degli autori che più hanno influito sul percorso di Muntadas (in primis Foucault, Baudrillard e Bourdieu), e che punta costantemente a far emergere quanto è costantemente rimosso, ovvero le matrici ideologiche implicite nei discorsi, nelle situazioni, nelle realtà istituzionali di volta in volta esaminate.

 

Tra i suoi lavori più noti vanno ricordati The File Room (1994-2011), un vasto archivio, ora consultabile on line, di casi storici e attuali di censura, On Translation (1995-2011), un’investigazione in progress sulle implicazioni politiche e antropologiche dei processi di traduzione (esposta, tra altri luoghi, alla Biennale di Venezia del 2005), Between the Frames, realizzato fra il 1982 e il ’93, nato dall’osservazione del sistema dell’arte, del ruolo delle gallerie, dei musei, dei collezionisti e degli altri intermediari fra artista e pubblico o il recente Alphaville e Outros (2011), un’indagine sulle gated communities in Brasile.

 

La scorsa estate Muntadas ha esposto a Roma, alla American Academy, About Academia, un lavoro recente che affronta questioni molto attuali anche nel nostro paese, come la trasformazione in senso manageriale delle università, l’attacco alle facoltà umanistiche, il rapporto incestuoso con le imprese che finanziano la ricerca, la spinta ad “aziendalizzare” l’insegnamento.

 

 

About Academia indaga la relazione tra produzione di conoscenza e potere economico. Come è arrivato a occuparsi di università?

About Academia è nato inizialmente come progetto aperto che ho poi circoscritto a Cambridge, dove tengo al MIT i miei corsi. La città riunisce due università, il Massachusetts Institute of Technology, appunto, e Harvard, e lì avevo la possibilità di entrare in contatto con persone che non provenivano solo dalla cultura umanistica ma anche dall’ambito delle scienze, della fisica, della biologia, ecc.

 

Come è strutturato il lavoro?

Si tratta di una serie di interviste realizzate nel corso di tre anni ponendo sette domande o problematiche, sempre le stesse: accademia/università; valori/potere; pubblico/privato; la catena alumni-donatori-trustees; istituzione/corporation, ovvero come si trasformano le università quando entra in gioco il denaro privato; lo spazio, tema sempre più importante, visto le università americane si stanno espandendo in zone socialmente svantaggiate: Harvard si trasferisce a Houston, la Columbia ad Harlem, tutti processi di gentrification; la città (come cambia in rapporto a questi processi) e, infine, la capacità di autocritica. A ciascuna delle persone coinvolte ho chiesto di spiegare come vede il proprio ruolo e la propria posizione nei confronti dell’istituzione. Le domande implicano la possibilità che venga fuori qualcos’altro, è un tentativo di toccare argomenti di cui non si parla mai apertemente.

 

In che modo viene presentato al pubblico questo materiale?

Attraverso tre videoproiezioni: la prima contiene testi sulla storia dell’istituzione accademica che spaziano dalle enciclopedie a Foucault e Derrida, la seconda le interviste e la terza presenta immagini di architetture.

                                 

È un modo per far emergere di fronte allo spettatore l’“inconscio politico”, una sorta di analisi psico-culturale…

Si tratta di un lavoro corale, come Between the Frames, realizzato a partire dalla voce di molte persone. Dopo molti anni di lavoro sui media alla ricerca di un punto di vista oggettivo, ho finito per accettare un’idea di intersoggettività, rappresentata dalle opinioni di persone diverse intorno agli stessi temi. Nelle proiezioni immagini e testi appaiono come se fossero in dialogo fra loro. Io scompaio, appaiono solo le parole ed è esattamente questo che mi interessava, la parola come domanda.

 

Lo scopo dell’intervista è in qualche modo evocare il fantasma, il non detto, il sostrato ideologico dell’istituzione?

Sì, e perciò la domanda chiave era l’autocritica. Ma prima di arrivare all’autocritica, in una conversazione bisogna seguire dei protocolli. Molti degli intervistati sono famosi, ad esempio Chomsky, il grande paladino della sinistra, una figura che rispetto moltissimo, come Howard Zinn del resto, morto un mese dopo l’intervista… Le idee di queste persone sono note, ma in questo caso l’importante era la loro opinione riguardo all’istituzione: in che modo le università, che si stanno trasformando in vere e proprie corporation, sono coinvolte nei fenomeni di gentrification delle città o in progetti militari? Ci sono legami, non dico nascosti, ma sicuramente poco o per nulla visibili, tra le università e le guerre, un coinvolgimento che ne ha fatto veri e propri dipartimenti di ricerca nel campo delle scienze così come in quello tecnologico, chimico, nucleare ecc. Un fenomeno che si avverte con più chiarezza al MIT.

 

E ad Harvard?

In quel caso sono le aree del diritto e dell’economia le più importanti: la maggior parte dei politici americani ha studiato a Harvard, ad esempio, e anche gran parte dei politici latinoamericani, e questo è un caso interessante, perché significa che l’università funziona come vera e propria catena di formazione per dei leader che poi continueranno a mantenere rapporti con l’Alma Mater. Perciò la relazione tra alumni, donatori e trustees è così importante. Sarebbe troppo parlare di mafia, ma parlerei certamente di gruppi di potere, di pressione.

 

Una specie di massoneria?

In realtà credo che sia più complicato, perché in molti casi la loro è una condotta impeccabile. Per esempio, non me la sentirei di mettere in discussione figure come Zinn, Harvey o Chomsky, persone per cui nutro il massimo rispetto.

 

 

Qual è dunque il rapporto fra l’istituzione accademica e l’istituzione in senso generale, negli Stati Uniti? La trasformazione dell’università in una corporation, la partecipazione ai processi di trasformazione urbana sono fenomeni “ineluttabili” o incontrano resistenza all’interno dell’accademia?

Dipende dai singoli casi. Per esempio Mark Wigley, dean di architettura della Columbia University – una persona molto intelligente, forse la più progressista di tutte, dal punto di vista delle idee, forse perché è il più giovane –, dice che l’università è sempre stata una corporation. Lo dice chiaro e tondo: l’espansione è necessaria perché dobbiamo evolverci. Negli Stati Uniti l’apertura delle università al denaro privato è avvenuto sotto l’amministrazione Reagan. L’ho visto con i miei occhi al MIT: dipartimenti che non sono riusciti a raccogliere fondi e altri che invece sono riusciti a fare fund raising e oggi godono di un’ottima posizione (per esempio il Media Lab) o non dipendono più economicamente dall’università. Questo ha portato a una certa indipendenza, al formarsi di cellule, di piccole roccaforti. Il denaro privato è entrato nelle università e ha finito per fare vita a quel fenomeno che viene sempre più definito in termini di corporation, anche se molte delle persone intervistate fanno fatica ad accettarlo pur avendo tutte un profilo liberal e idee aperte.

 

Il processo di privatizzazione dell’accademia è ormai avviato anche in Italia. Con la cosiddetta riforma Gelmini l’università rischia di abbandonare la sua natura pubblica e di trasformarsi in un’entità completamente diversa, con legami strettissimi con il mondo economico, dove la ricerca umanistica, miopemente ritenuta “improduttiva” , viene sempre più emarginata.

Il fatto è che la politica e l’economia europea si sono ispirate alla politica e all’economia americana, alle sue idee liberiste, all’ideologia del mercato; quando i politici iniziano a parlare di privatizzare, beh, questo è solo un modo per scaricare le responsabilità su chi riesce a garantire un profitto. Negli Stati Uniti l’università è oggi un’impresa a tutti gli effetti.

 

È possibile immaginare la ricerca fuori dall’accademia, dal sistema universitario?

In campo artistico Beuys parlava di free university. Un modello interessante ancora oggi: ci sono miriadi di persone coinvolte in progetti di università aperte, che stanno cercando di dare vita a nuovi spazi, a nuove modalità. Non necessariamente in modo permanente: il workshop come veicolo capace di creare connessioni fra diversi paesi, per esempio. Anche in questo senso mi sembra che il mondo si stia risvegliando. Quel che sta emergendo è l’interrelazione fra i luoghi, nel senso che i fenomeni non possono essere più letti da un punto di vista territoriale ma in termini di scambio, di flusso di informazioni.

 

Sin dagli anni ottanta il suo lavoro si è concentrato sulle istituzioni, da quelle “immateriali”, il linguaggio, il sistema dell’arte, ad esempio, alle strutture di controllo e censura, all’urbanistica e così via. Le istituzioni  sono ancora oggi il centro della sua riflessione?

Direi che in tutto il mio lavoro è presente una critica dell’istituzione, ma non sempre in modo diretto. A volte mi interessano situazioni molto concrete, come ad esempio in Fear/Miedo, un video girato tra il 2003 e il ’05 a Tijuana e San Diego, le due città alla frontiera tra Messico e Stati Uniti. Non mi piaceva l’idea di lavorare su concetti nudi come immigrazione o violenza; mi è sembrato più interessante concentrarmi sulla paura, qualcosa che tutti conosciamo ma che è molto difficile da definire. Una sensazione che oggi viene usata a livello politico e che si differenzia molto da Nord a Sud: implica diverse lingue, diverse economie ecc.

 

 

Come si costruisce dunque politicamente la paura a Tijuana o a San Diego?

A partire da un problema di traduzione, da una differenza di interpretazione che crea una diffidenza, un timore: il timore del Sud verso il Nord è il timore dell’autorità o della repressione, mentre quello del Nord verso il Sud riguarda l’ignoranza, nel senso di ignorare una lingua, una cultura. Un americano che non parla lo spagnolo diffida di un messicano perché non lo conosce. Un ragionamento simile mi ha portato a realizzare un lavoro sullo stesso tema in Marocco, fra Tarifa e Tangeri, Miedo/Jauf, sulla paura tra Europa e mondo arabo

 

Anche il lavoro sulle gated communities in Brasile è in fondo un lavoro sulla paura come collante sociale.

Quando la gente va in Brasile finisce per concentrarsi sulle favelas. Ma io conosco il Brasile dal 1975 e ho visto emergere e attecchire una nuova cultura fra le classi medio-alte: persone che inseguendo l’utopia di vivere in libertà, in mezzo alla natura, un po’ nello stile americano, hanno finito per ripetere il modello medievale delle mura, del completo isolamento, della sicurezza: videocamere di sorveglianza, sistemi computerizzati di entrata e uscita, di identificazione… Da qui è nato Alphaville e outros, un progetto che prende il nome da una una gated community nei dintorni di São Paulo.

 

Si chiama proprio così?

Sì, proprio Alphaville! L’architetto, negli anni sessanta, ha proposto al costruttore un nome: “Alpha, greco, ville, francese, è un nome che tira” deve avergli detto. E alla fine, col tempo si è realizzata la profezia del film di Godard, anche se in modo molto diverso.

 

Che tipo di intervento ha realizzato?

È una decostruzione del film Alphaville con vari inserti: il materiale registrato all’interno delle gated communities, i rendering digitali degli edifici, gli annunci pubblicitari e gli striscioni con cui cercano di vendere questi condomini, una gabbia metallica a scala reale…  Quel che vendono, in pagine e pagine pubblicate sul Journal da Tarde o sull’Estadão è la sicurezza: una sorta di enorme show-room della sicurezza. In questo caso si tratta di una continuazione del discorso sulla paura, ma trasportato al livello della vita quotidiana: la situazione di una classe media che aderisce a un’utopia che finisce per trasformarsi in una situazione assolutamente paranoica, di totale disagio. Oggi ce ne sono dodici. Dodici Alphaville …

 

A São Paulo?

A quaranta minuti dalla città. Il che ovviamente finisce per diventare un incubo, una follia: due ore per andare a lavorare e due per tornare… Come in tutti gli agglomerati urbani, ma molto di più, perché in questo caso non si tratta di un sobborgo, ma di una specie di riserva, di un mondo completamente chiuso. A Tijuana c’è il filo spinato e ci sono le mura: si percepiscono le barriere. Le gated communities vengono invece presentate attraverso striscioni con slogan tipo: «Nuestro objetivo es a sua asegurança» (Il nostro obiettivo è la tua sicurezza) o «La diferencia entre morar y vivir» (La differenza tra abitare e vivere)…

 

Un tema ricorrente nel suo percorso è il potere, in senso economico, sociale, linguistico. C’è una visione di insieme, un “piano di attacco” che lega le diverse tappe?

Mi interessa la ricerca, il commitment: più conosci qualcosa, di più dati e di più informazioni disponi, più il lavoro diventa critico. Non parto mai con un’idea, ma arrivo a delle conclusioni che spero lascino sufficiente libertà perché il pubblico possa trarre le proprie. Lavoro sul potere, sì, ma senza pensare in modo paranoico che siamo tutti controllati e via dicendo; io cerco di rendere visibili le cose che restano invisibili, di far vedere quello che si nasconde dietro le strutture, quello che le circonda. Credo che quando parliamo dell’artista parliamo di questo, di rendere visibili cose che non sono così evidenti e che possono essere viste sotto un’altra luce, in un altro modo. In fondo io non invento niente, sono cose che esistono: piuttosto si tratta di confrontarle, di giustapporle, di organizzarle.

 

È una sorta di montaggio?

Sì, io dico sempre che il lavoro sta nell’editing, nel momento in cui si mettono insieme le cose. Potremmo parlare, a due dimensioni, del collage e potremmo parlare del montaggio come film o come installazione. L’installazione in fondo non è che un collage a tre dimensioni, in cui lasci aperta la lettura, in cui non segui e non determini una linearità: puoi trovare una cosa, poi un’altra. In Alphaville, per esempio, nessuno ti dice che devi guardare prima le pubblicità sui muri e poi il film. C’è un body-editing importante da parte del pubblico, che fa sì che ci sia un’interpretazione diversa per ciascuno. Riguardo all’aspetto critico, alla critica del potere insomma, direi che è importante nel mio lavoro ma che ci sono altre complessità, altre sfumature. Sono i terrains vagues che mi interessano, perché a volte sono meno visibili e intercettano e dischiudono campi interessanti.

 

Anche i media che utilizza sono il risultato di una scelta a posteriori?

Una cosa su cui insisto spesso è che non mi piace generalizzare. Procedo sempre per casi singoli, a seconda del progetto. Non ne inizio mai uno sapendo già quale mezzo utilizzerò, se si tratterà di un libro, di un’installazione o di un film: è il processo stesso che a un certo punto mi porta a deciderlo. I lavori su Tijuana e a San Diego, sul Messico e sugli Stati Uniti, sono televisivi: sono stati trasmessi in televisione a Città del Messico e a Washington, le capitali, come luoghi non visti in cui si muove la frontiera. E lo era anche il lavoro su Tarifa e Tangeri. A volte invece intervengo nello spazio pubblico, in strada, penso a vecchi lavori come The Limousine Project o This is not an Advertisement, e altri che invece rientrano in un progetto specifico di mostra. Io non dipendo da un territorio specifico, penso di essere legato a diversi territori. Una volta Allan Kaprow mi ha detto: il meglio che puoi fare è essere indipendente, non dipendere da una cosa. Se lavori per le gallerie finisci per fare solo lavori per le gallerie.

 

 

Lo spazio, la cornice istituzionale dell’arte è indispensabile perché il  suo lavoro possa funzionare?

Ci sono molti spazi e molti pubblici, e mi interessa lavorare con tutti. Il pubblico del museo non è lo stesso della televisione o della strada, ed è proprio questa diversità a interessarmi. Ogni progetto, quindi, viene pensato in un modo specifico per uno spazio specifico. Questo non vuole dire che realizzo i lavori in base al pubblico, ma di sicuro lo faccio tenendo conto del contesto, sono site specific e anche, cosa di cui invece non si parla, time specific.

 

In che senso?

C’è un elemento importante è la specificità del tempo, del momento in cui appare un lavoro. I film di Michael Moore su Bush sono time specific: se li vedi al di fuori dell’epoca di Bush appaiono datati, ma a loro tempo hanno avuto una forte risonanza politica. Anche Guernica era time specific, e anche le arringhe e i discorsi politici che possono avere luogo in una manifestazione sono time specific. Ci sono urgenze che il tempo si incarica in qualche modo di definire.

 

Cioè la carica politica di un lavoro opera effettivamente solo in un determinato momento e in un determinato luogo? Ma un’opera può sopravvivere alla fine del suo significato politico?

Credo di sì, ma a quel punto viene letta in un altro modo. Nel momento in cui viene creata, la sua carica, la sua urgenza raggiungono il culmine, ma può continuare a funzionare anche dopo. Guernica, per esempio, è un’opera importante.

 

È bella o importante?

Entrambe, credo. Sono importanti sia l’etica che l’estetica. Credo che non si possa parlare mai solo di un lavoro etico. Deve esserci anche l’estetica, devono esserci entrambe. Vediamo attraverso gli occhi, attraverso i sensi: se non c’è questo a motivarci, difficilmente l’opera arriverà al nostro cervello, alle informazioni che abbiamo accumulato. Ma per tornare alla questione del sistema, del frame istituzionale, dagli anni settanta credo di muovermi all’interno di tre ambiti ideali – arte, scienze sociali e sistemi di comunicazione. Sono tre ambiti indipendenti l’uno dall’altro, ma con dei momenti di overlapping, di accavallamento: arte e comunicazione, arte e scienze sociali… E questi merging spaces, questi spazi di mescolanza, sono quelli in cui intervengo.

 

Cosa pensa dell’attivismo degli artisti che intervengono in modo diretto sullo spazio pubblico, sui rapporti sociali? In Sudamerica, per esempio, molti artisti assumono questo ruolo, ma anche Ai Weiwei col suo blog ha mobilitato migliaia di lettori.

Credo che questo fenomeno sia legato alle urgenze di cui parlavo prima. In certi momenti è importante che determinati temi e determinate rivendicazioni vengano portati su un territorio pubblico, in modo da renderli più visibili. Ma come in tutte le cose, credo che non si possa generalizzare. Bisogna considerare progetto per progetto. Dal 1971 alla morte di Franco nel ’76 ho lavorato a Barcellona con il Grup de Treball, un gruppo politico che riuniva musicisti, filmaker, scrittori ecc. e che oggi si inizia a rileggere come un fenomeno importante dell’epoca, come Tucumán Arde in Argentina: progetti che si muovevano all’interno degli spazi culturali. I fenomeni di oggi, credo, devono molto a quelle esperienze, anche se si manifestano e vengono resi visibili secondo modalità diverse. La loro efficacia, invece, è tutto un altro discorso, meriterebbe un discorso a parte. Ma non credo che l’arte debba porsi un problema di efficacia. L’arte deve sempre porsi in termini di necessità.

 

 

Molti parlano oggi di una condizione post-politica, nel senso che la politica non avrebbe più la capacità di incidere sui processi economici, e dunque sulla costituzione "reale" della nostra società. È d’accordo con questa opinione?

Indubbiamente c’è stato un logoramento che riguarda, più che la politica in sé, i personaggi politici. L’Italia è il luogo per eccellenza, l’epicentro di questo fenomeno, ma lo vediamo all’opera anche in Spagna. Non sono un guru né un analista, ma credo che oggi assistiamo al manifestarsi di fenomeni complessi, non definiti, che trasmettono grande sfiducia nei confronti delle istituzioni. Comunque vada, l’importante è che ci sia shaking, che le cose si muovano. L’aspetto complicato, nella panoplia di proposte che sentiamo e leggiamo, è che finiscono per mettere insieme molte cose diverse.

 

Quale tema le appare oggi particolarmente attuale tra quelli toccati dal suo lavoro?

Negli ultimi anni penso il tema della città: la città e l’architettura come filtri attraverso cui studiare lo spazio pubblico. Prendiamo ad esempio le manifestazioni degli indignados alla Puerta del Sol a Madrid e a Barcellona: al di là dell’aspetto ideologico, che non conosco bene, mi sembra ci siano molti elementi sovrapposti. E in questa sovrapposizione c’è un aspetto che mi sembra importante, il recupero dello spazio pubblico, il recupero della piazza. La piazza come agorà, come base, come zoccolo.

 

In direzione opposta alle gated communities, in un certo senso.

Sì, e allo shopping mall, in generale alla società del consumo. A Barcellona, negli anni ottanta, hanno cominciato a realizzare quelle che venivano chiamate plazas duras, piazze rigide: interventi per “riqualificare” gli antichi centri storici attraverso un impiego massiccio di cemento e di arredi urbani inutilizzabili, che di fatto distruggevano lo spazio comune della piazza. Una sorta di purga, di operazione di pulizia, per evitare che i senzatetto occupassero i luoghi pubblici, con panchine sadomasochiste, in cui era impossibile sostare.

 

Questa al Reina Sofía è la prima mostra in cui viene ricostruito il complesso del suo percorso. Cosa cambia per un artista entrando nel “museo”?

Rispetto a questa mostra, che non definirei una retrospettiva ma certamente una large survey, mantengo una certa distanza. Il lavoro lo fa il curatore, nel senso che le opere sono già fatte. Io non mi oppongo, ma preferisco vivere nel presente. Mi concentro su quello che sto facendo o che sto per fare, sui progetti da realizzare.

                           

La dimensione del museo non la interessa, neppure concettualmente?

Non soltanto il museo, ma l’idea di passato. I miei non sono oggetti sono artefatti che possono essere attivati, come si attiva una bomba. La gente li può guardare, può trovarli evocativi, stimolanti o altro, ma io non li espongo per la vanagloria di far capire la mia opera. In questa mostra i lavori dagli anni settanta a oggi sono il background, ma il punto su cui concentro le mie energie e i miei sforzi è il lavoro nuovo.

 

(Una versione più breve di questa intervista è uscita su “il manifesto”)

 

 

 

 

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