Il dubbio che mette in ombra Stoker
Hollywood. Due registi che hanno profondamente innovato il cinema del proprio paese giungono carichi di belle speranze. C’è un film da girare. Nel 1943 il regista era un Alfred Hitchcock poco più che quarantenne, già al sesto lavoro americano in tre anni dal suo arrivo e il film è Shadow of a Doubt (L’ombra del dubbio). Nel 2013 Chan-wook Park gira Stoker, esplicitamente ispirato al film del maestro del brivido. Stoker non è un remake. La sceneggiatura è scritta dall’attore protagonista della serie Prison Break, Wentworth Miller, e la casa di produzione è la Searchlight Picture, la divisione indipendente della 20th Century Fox.
Il fil rouge è la comparsa di uno zio torpido e seduttivo, che spunta dal nulla a stravolgere i pensieri della nipote adolescente. Mentre Stoker punta molto sullo sconvolgimento ormonale, il film di Hitchcock cresce al ritmo stuzzicante de La vedova allegra, che risuona nella mente della nipote Carla, come un tarlo, un indizio, un presentimento. Ne L’ombra del dubbio non c’è morbosità. C’è la malizia di una ragazza intelligente, troppo per la cittadina di provincia in cui vive. C’è un’implicita promessa di evasione dalla monotona retorica di una vita che scorre senza imprevisti, regolata da un religioso senso del bene e del male. Il dubbio di Carla sulla cattiva coscienza dello zio è un dubbio drammatico che sancisce la fine di una speranza, la fine dell’eterna illusione adolescenziale di poter essere salvati.
Da un libro, da un film, da un idolo. Come lo zio Carlo. “Siamo uguali” diceva Carla all’arrivo dello zio, ma lo zio tuona: “Non sei che una ragazzetta ingenua”. Il sodalizio è rotto: l’innocenza di Carla si schianta contro la disillusione e il cinismo dell’uomo per cui il mondo non è altro che un “porcile laido”. L’adolescenza normale di Carla si conclude con un’esperienza di fascinazione e delusione. Settant’anni dopo è la volta di un’altra adolescenza e di un altro sodalizio: quello dello zio Charlie Stoker e della enigmatica India. India non conosce il giovane zio e lo intravede per la prima volta pochi giorni dopo il suo diciottesimo compleanno, al funerale del padre.
Charlie s’installa in casa Stoker e inizia un corteggiamento alla madre di India. Niente di più stereotipato e stucchevole. La giovane vedova è una donna che non si può amare: è di silicone, inetta e terrorizzata all’idea di rimanere sola con la figlia che “detesta essere toccata”. L’interesse vero di Charlie è altrove. È per India che sta arrancando verso il mondo dei grandi su una strada molto diversa da quella di Carla. Niente idoli, piuttosto la ricerca di una catartica liberazione dal senso di colpa. Ci si ritrova formati da cose che non ci appartengono. “Solo quando ce ne rendiamo conto diventiamo liberi”. India e Carla condividono l’ingenuità di una visione mitica del passaggio. Condividono anche la maledizione di sentirsi diverse, perché come i rispettivi zii vedono e sentono ciò che gli altri non hanno i mezzi per esperire. Ma India s’inabissa. Non perché sperimenta il piacere con lo zio, ma perché trae piacere da una complicità criminale.
Chan-wook Park ci aveva già abituati all’irriverenza verso il tabù dell’incesto, ma in questo caso la violazione del divieto per eccellenza non suscita grande scandalo. Lo zio è alla giusta distanza per evocare l’orrore senza metterlo davvero in scena. Un po’ perché in fondo India non lo aveva mai conosciuto e un po’ perché le sue inclinazioni affettuose nei confronti del padre ci avevano fatto presagire qualcosa. “Una bella squadra”, dice la madre, ma lo spettatore sa che c’è molto di più: il padre era per Asia l’unica squadra e, dopo la sua morte, è lei e non la legittima consorte a indossare la veste a lutto. Il compimento fisico di questo amore esclusivo giunge durante un sinuoso duetto con lo zio al pianoforte. India è un’Elettra depotenziata che infine risparmia la madre e conquista la libertà. Una tragedia che non va fino in fondo e che, nel dipanarsi, perde in tensione e in sospensione.
Chan-wook Park giunge a Hollywood e perde potenza. Stoker ha i colori classici dei film asiatici, ma sbiaditi al sole della California. Il cinema coreano è una delicata sfida al rischio del manierismo: Kim Ki-Duk nel suo ultimo film, Pietà, ha perso una battaglia e anche Chan-wook Park, seppur con maggiori meriti, non ne esce trionfante.
Rappresentare magistralmente la violenza e fare poesia superando il tramite dello schermo sono due tra i meriti del cinema coreano. In Stoker la poesia punta tutto sulle immagini e smarrisce il sentimento. La violenza resta intrappolata nella macchina da presa. Non bastano capelli che diventano fili d’erba e spruzzi di sangue su un mazzetto di fiori per fare un ottimo film. I souvenir, anche se giungono dalla lontana Corea del sud, finiscono presto nel dimenticatoio. Pietà era troppo compiaciuto, mancavano le sfumature, mancava la pennellata di insicurezza e pudore a rendere autentica l’indagine sui lati oscuri dell’animo umano. Stoker non fa difetto in questo, ma è una somma di buone qualità. Manca di una tonalità unitaria, di un quid non riducibile a nessuna delle sue caratteristiche che lo spettatore conserva a lungo dopo l’uscita dalla sala.