Mostre, personaggi, fotografie dai margini / Lettera da Londra

27 Maggio 2018

London calling cantavano, nel cuore del punk, i Clash. Londra perde rapidamente il suo statuto di capitale dell’impero economico d’occidente, mentre le grandi finanziarie, temendo il boomerang di Brexit, stanno cominciando a far fagotto, e a scegliere altre ambientazioni per la loro recita. I barboni dormono per strada su materassi improvvisati vicino alle stazioni della metro. Su un marciapiede sconnesso che porta al Barbican Centre, sorride il volto inquieto del bel Travis Alabanza, che interpreta Jordan nella recente versione, dal cast decisamente queer, di Jubilee, in cui Chris Goode rivisita il capolavoro furente di Derek Jarman, a quarantuno anni dalla sua uscita. 

 

Proprio al centro polivalente va in scena una mostra notevolissima Another kind of life. Photography of the Margins. Quattordici fotografi e artisti seguono persone o gruppi che non si conformano, che sfuggono all’imposizione delle regole sociali, che scappano verso la mèta di una impossibile felicità, o dedicano tutte le loro energie a una rappresentazione di sé come un altro. Spiccano gli scatti crudeli in bianco e nero di Walter Pfeiffer che scavano il corpo in mutazione di Carlo Joh, che si assottiglia fino a diventare una vivente linea di Egon Schiele. Igor Palmin scatta memorabili immagini di hippies russi, in fuga verso la Siberia, dove poter vivere in precari carrozzoni il sogno di evasione che nelle città la polizia reprimeva con la massima violenza. Meravigliosa è la presenza di Evelyn, regina travestita di Santiago del Cile, che sembra uscita dalle pagine di Ho paura torero di Pablo Lemebel (uscito in italiano da Marcos y Marcos), celebrata dall’obiettivo di Paz Erazzuriz, acuta nel rappresentare le vicende di una metropoli sotto la dittatura e dopo.

 

 

Boris Mikhailov allestisce crudeli, eppure anche teneri, matrimoni di baroni e homeless in Ucraina; Dayanita Singh, da poco celebrata da una retrospettiva alla Hayward, indaga l’esistenza di un eunuco della comunità degli Hijira, Mona Ahmed, con cui ha avuto lunga consuetudine, mentre Teresa Margolles, celebrata ora a Milano nella bella mostra Ya basta hijos de puta, ossessivamente torna agli spazi orrorifici di Ciudad Juarez, presentando una serie di prostitute transessuali, che danzano, finalmente senza paura, nelle dance hall abbandonate, dopo un ennesimo tentativo di rigenerazione operato dal governo, nella bella serie La pista del baile. Terrorizzanti, nella loro inquietudine, sono anche le icone di persone che sfuggono dall’autorità negli Stati Uniti, rifugiandosi nel cuore delle foreste, in comunità minime, nel sospetto di ogni forma di potere costituito. Nel vicino cinema i poster annunciano a inizio giugno un notevole programma dedicato a Artists and Activists, una retrospettiva del cinema delle femministe americane più radicali, tra anni ’70 e ’80, con film come il breve e magnifico cartoon Desire pie di Lisa Crafts o Hair piece di Ayoka Chenzira. 

 

National Gallery, National Portrait Gallery e Royal Academy, per la prima volta insieme celebrano la visione di acuta di Tacita Dean, che declina nella sua immagine filmica una analisi delle forme dell’arte, allestendo tableaux sulla natura morta, con lavori che non si assocerebbero per solito all’argomento, oppure mette in scena nella forma di miniature elisabettiana una serie di mini-Amleti (memorabile la presenza, nella forma di un santino digitale, di David Warner, che compare anche in un altro lavoro). L’artista dichiara la sua tradizione, mettendo in scena le sue opere a fianco di quadri di Paul Nash, e indagando a lungo la figura di Cy Twombly. 

 

Al Victoria & Albert due mostre trattano memorabilmente di crudeltà e eleganza: Fashioned from Nature indaga su quanto la moda abbia incrudelito su balene, coleotteri, farfalle, uccelli del paradiso, pappagalli per avere elementi di fasto e fascino, arrivando fino ai tentativi di creazione sostenibile di oggi, con uno sguardo a trecentosessanta gradi. Ocean Liners, dal magnifico allestimento, indaga il mondo dei transatlantici, con cui poveri e ricchi si spostavano nel mondo, prima dell’avvento dell’aereo. Trionfale la presenza dell’Art Deco, ma anche pressante la presenza di tutti i domestici che servivano per sostenere lo splendore di questa città galleggiante, in cui le classi erano rigidamente divise dal biglietto, e i poveri di terza classe si accalcavano a vedere la grande descente, quando i beautiful ones scendevano indossando le migliori toilettes di Parigi. A bordo non mancava nemmeno il sacro, tra una strepitosa Madonna dell’Atlantico e un’arca ebraica, che spiega, meglio di mille discorsi, il momento in cui gli ebrei hanno cominciato a lasciare l’Europa negli anni ’30. I transatlantici non erano certo indenni dalla storia, ovviamente: Hitler e Mussolini adoravano comparire a bordo per dimostrare la loro supremazia, molte navi in tempo di guerra vennero riconvertite per il trasporto dei soldati. 

Fuori dal V & A l’Esercito della Salvezza canta e raccoglie elemosine per i poveri: manca solo l’arrivo di Mary Poppins perché la rappresentazione sia perfetta.

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