Cicerone
La Difesa di Celio, la Difesa di Milone, le Filippiche, le Verrine e le Catilinarie, queste sono le orazioni più celebri di Cicerone. La Difesa di Cluenzio invece non gode di altrettanta popolarità. Piaceva parecchio a Quintiliano, per dire, che la cita spesso, ma oggi non è delle più praticate. Eppure offre molti motivi d’interesse, non secondari. Per cercare di delineare l’ingombrante personaggio che dà il titolo a queste note, oratore politico filosofo, partiamo proprio da questa orazione.
La Pro Cluentio è dell’anno sessantasei avanti Cristo, l’anno della pretura di Cicerone. Cluenzio era un personaggio provinciale, accusato di aver avvelenato il suo patrigno Oppianico. Teatro dei fatti era Larino, municipium appartenente al territorio dei Frentani, oggi Molise. Di questi borghi rurali si diceva anche allora, duemila anni fa, un gran bene. Posti sani, abitati da gente sana. Tutta casa e lavoro nei campi. Gente semplice di giusti principi. La provincia (la Provincia) che custodisce con tenacia i valori del passato: modestia, pazienza, frugalità, oculatezza. A proposito di luoghi simili, lontani dalla corruzione e mollezza delle città, e soprattutto di Roma, veniva sulle labbra (anche di Cicerone) un esametro di Ennio: moribus antiquis res stat romana virisque, ossia: lo Stato Romano poggia sui costumi e sugli uomini antichi.
Ebbene, a Larino, le cose non stavano esattamente così. Dato che questo Oppianico, almeno secondo il racconto di Cicerone, si rese protagonista dei seguenti atti: falsificò di sua mano i pubblici registri del municipio; alterò un testamento, ne fece sigillare un altro, falso, mediante una sostituzione di persona; fece uccidere colui a nome del quale il suddetto testamento era stato sigillato originariamente; poi fece uccidere lo zio materno di suo figlio, che era, a sua volta, ridotto in schiavitù; fece proscrivere e assassinare diversi suoi concittadini di Larino; sposò la moglie di una delle sue vittime; (nel complesso si sposò sei volte, Oppianico); eliminò anche una delle sue suocere, una delle sue sei mogli, la moglie del fratello, il fratello e il loro figlio, che non era ancora nato, chiuso nel ventre della madre; fece uccidere anche alcuni dei suoi stessi figli eccetera. Un bel campione di moralità provinciale, non c’è che dire. Se lo Stato Romano poggiava sui costumi di uomini come Oppianico, stava proprio fresco, lo Stato Romano.
Naturalmente noi non sappiamo quanto tale fosca descrizione di Oppianico (ch’era oltretutto già bell’e morto) sia vera e quanto sia invece funzionale alla difesa di Cluenzio, accusato di aver avvelenato un parente simile. Cicerone stesso si vantò, secondo quanto riferisce Quintiliano, di aver buttato fumo negli occhi dei giudici (tenebras effudisse iudicibus) con questi tremendi racconti del passato di Oppianico, che dopo tutto era stato vittima di un avvelenamento. Tecnicamente, quella di Cicerone, fu una grande apoplànesis, un’enorme digressione sulla vita scellerata della vittima e sul suo ambiente degradato, fatta apposta per stornare l’attenzione dai fatti specifici addebitati al suo assistito Cluenzio. A questi si limita a dedicare nemmeno un terzo dell’orazione, introducendolo con la formula significativa: il resto è ben poca cosa (reliqua perpauca sunt).
Ma non è solo per tale gigantesca manovra diversiva che si segnala la Pro Cluentio. Cicerone in essa ribalta completamente il suo punto di vista, rispetto a pochi anni prima. Qui infatti prende per buone le sentenze delle giurie senatorie, che avevano condannato in un precedente processo Oppianico, mentre, per esempio nelle Verrine, si era scagliato più volte contro le giurie senatorie. Dopo le sue rimostranze (o anche in seguito alle sue rimostranze) infatti le giurie divennero miste, composte di cavalieri e senatori, non più solo di senatori come aveva statuito Silla. A chi, nel corso del processo, gli faceva rimarcare la sua piroetta dialettica, Cicerone rispose con un passo rivelatore: si sbaglia di grosso chi pensa di trovare nelle nostre orazioni l’espressione autentica e debitamente certificata del nostro pensiero. Esse dipendono tutte dalle singole cause e dalle circostanze (errat vehementer, si quis in orationibus nostris quas in in iudiciiis habuimus, auctoritates nostras consignatas se habere arbitratur. Omnes enim illae causarum ac temporum sunt. Trad. Fucecchi). E questo è, secondo Emanuele Narducci, l’atto di fondazione dell’etica dell’avvocato.
Credo che si capiscano tante cose, non solo relativamente a Cicerone. Certo, riguardo a lui, si capisce meglio perché, nella Pro Caelio, Catilina, personificazione del male assoluto nelle Catilinarie del 63 a.C., sia divenuto, e siamo appena nel 56 a.C., “un portento, una fusione di opposti” (monstrum… ex contrariis diversisque… conflatum) e addirittura vengano posti in risalto, in lui, in Catilina, “ svariati tratti delle più nobili virtù, benché solo adombrati” (permulta maxumarum non expressa signa sed adumbrata virtutum). Se Catilina frequentava Marco Celio, cliente di Cicerone, ecco che già si registrava in lui un significativo miglioramento rispetto all’immagine abituale.
È l’etica dell’avvocato, bellezza!