Un libro postumo / Friedrich Glauser, Le vacanze di Studer
La letteratura talora presenta opere incompiute non tanto per volontà dell’autore quanto per la sua morte. Libri non finiti, canovacci lasciati nel cassetto e riscoperti da chi successivamente li ha aperti. Qualche volta compaiono al lettore senza modifiche come i Pensieri di Pascal o Bouvard e Pécuchet di Flaubert. Qualche altra invece, utilizzando indicazioni disseminate, qualcuno mette mano al testo, lo completa, lo riordina, si immerge in un’ispirazione non sua. Nel campo musicale è classico l’esempio della Turandot terminata da Franco Alfano in seguito alla morte di Puccini. Nel mondo letterario tra i casi più noti ci sono Hemingway con Festa mobile completata dalla moglie Mary, Kafka con America affidata a Max Brod, e Fenoglio, il cui Il partigiano Johnny fu coltivato dall’editore Einaudi che, oltre ad individuare il titolo, miscelò due stesure incomplete. Celebre è poi il caso di Il mistero di Edwin Drood di Dickens, che morì prima di aver svelato chi fosse l'assassino. Più autori si sono cimentati nella conclusione sfornando almeno 200 finali diversi. Fruttero e Lucentini diedero alle stampe anche un libro, La verità sul caso D., in cui hanno immaginato i più famosi investigatori intenti ad indagare ciascuno con il proprio metodo su questa sparizione.
Allo svizzero Friedrich Glauser è capitata questa sorte: ha lasciato alla morte, avvenuta in Italia a Nervi nel 1938, una serie di appunti che sono stati ora ordinati e completati nel romanzo Le vacanze di Studer (Casagrande, 2020). Chi si è preso quest’incarico, Andrea Fazioli, ha messo mano a carte disordinate, ne ha estratto il senso, ha proseguito la narrazione con la sua scrittura. “La scommessa era (…) di costruire un congegno narrativo nel quale collocare gli inediti attraverso uno scambio continuo con lo spirito di Glauser (…) immergendosi nell’intimità dei personaggi, nei loro dolori, approfondire l’anima di un luogo, oltre a quella di un personaggio”. Glauser peraltro non aveva soltanto scritto una parte del romanzo per poi abbandonarlo, ma aveva addirittura accumulato più inizi tra loro non omogenei, quasi alternativi. Fazioli si è confrontato con questa realtà, arrivando a sistemare i frammenti, impostando uno sviluppo con un inizio, uno svolgimento e una fine. Il “coautore” ha però creato due filoni narrativi, uno coerente nella narrazione, l’altro quasi un controcanto sull’attuale sforzo ricostruttivo, con l’interpello anche di contemporanei quali ad esempio l’editore.
L’ambiente è quello degli anni venti, per la precisione il 1921, in una torrida estate; il luogo è il Monte Verità, collina nei pressi del comune di Ascona nel Canton Ticino, dove in quel periodo si radunava una comunità eterogenea di persone accomunate da ideali e aspirazioni varie, utopisti, vegetariani, naturisti, teosofici. Un luogo, sovraccarico di futuro, di significati e di misteri che dava spazio a realtà diverse. Coesistevano i contadini e le persone locali con gli intellettuali ospitati dai benestanti, il mondo degli artisti per i quali Glauser provava fascino, come dimostra la presenza nel romanzo ricostruito di una pittrice realmente esistita, Marianne Werefkin, una cui opera offre la copertina al romanzo. Nel contempo albergava in lui perplessità per il loro allontanarsi dalla realtà, quella realtà con cui nella sua vita avventurosa ha lottato e in cui si è immerso. In quel mondo sfaccettato compare il corpo assassinato di una giovane donna, non troppo misteriosa e presto identificata. Ballerina per vocazione, domestica per necessità, con una sorella gemella e una figlia affidata ad una famiglia volenterosa. Studer indaga, scava nella vita di un barone donnaiolo che aveva dato lavoro alla giovane e forse era stato il suo amante, e incontra il marito della morta che compare a un tratto non dissipando i molti segreti.
I filoni narrativi di cui si parlava, quello iniziato da Glauser e quello completato da Fazioli, si intrecciano per giungere alla conclusione di un’idea di poliziesco cui il primo non giunse, ma che si legge ora provenire dalla penna del secondo.
Comunque la si valuti, l’operazione editoriale è sicuramente ardita e consegna al lettore una narrazione non semplice da dipanare. Essa mostra le trame di Glauser, peraltro scarse e presenti solo in 6 capitoletti, e i ben 25 completamenti di Fazioli, con 2 capitoli di riflessioni autentiche di Glauser tratte da altri scritti. Comunque sia, essa consente però di ritornare a un autore che, sulla scia di qualche sparuto precedente (ad esempio Carl Albert Loosli, L’inganno del diavolo, Dado, 2018) ha ispirato gli autori svizzero-tedeschi successivi, tra tutti e su tutti Friedrich Dürrenmatt e Max Frisch.
Gli scritti di Glauser, in generale, mostrano un’Europa cupa “come una landa grigia, senza sole, senza scintillio di grandezza”. E rompono inaspettatamente il manifesto pubblicitario della Svizzera ovattata, opulenta, disinfettata e mondana penetrandone i segreti e le insicurezze. Come ha notato un odierno autore svizzero, Martin Suter, Glauser ha cercato di penetrare i segreti del paese utilizzando “il giallo come un piede di porco” (tra tutti Come è piccolo il mondo, Sellerio, 2011).
In effetti in Glauser e nei suoi epigoni svizzero-tedeschi esiste un’ispirazione comune diffusa: il giallo è un veicolo di conoscenza, è “problematico” in quanto rompe lo schema classico dominato da regole precostituite, in cui niente e nessuno può interferire nelle indagini. Matura invece la convinzione che il poliziesco consenta di trasmettere diversi messaggi: quello politico in cui si denuncia una società corrotta con istituzioni fonti di disordine, quello morale nel cercare di capire le ragioni del criminale, quello epistemologico per il ruolo assegnato al figlio degenere del positivismo trionfante, il “caso”. Così Glauser risponde nel 1937 ad alcune domande sui canoni del poliziesco mettendo in secondo piano il piacere dello svelamento dei misteri attraverso schemi enigmistici.
Pone invece in posizione decisiva la casualità della vita, l’effetto dell’atmosfera che deve circondare gli attori, l’impegno del protagonista nella lotta contro il destino che disegna avvenimenti non controllabili dalla ragione ed è in grado di distruggere i calcoli dell’assassino e del detective. Quel destino che “non risparmia le sofferenze, ma concede solo una proroga e un’unica fine”. È lo “zufall” tanto caro a Dürrenmatt, lo ‘gnommero’ su cui si articolano le meditazioni di Gadda, quell’evento che demolisce la cieca fiducia nella razionalità e si fa beffa del giallo tradizionale. In questa prospettiva il delitto assume i contorni di una metafora caratterizzata dal pessimismo: manca una conclusione rassicurante perché il delitto non turba l’ordine in quanto l’ordine non esiste. “L’assassino è un uomo come gli altri, che venga scoperto in fin dei conti non è importante. Non voglio sospiri di sollievo né colpi di scena. La storia non deve per forza avere una fine, la storia cessa. È un frammento di vita, ma la vita continua, illogica, avvincente, triste e grottesca nel contempo” (Capitolo “Studer im Suden”, p. 57, tratto da Il sergente Studer indaga, Sellerio, 2008).
Il nostro è stato definito il Simenon svizzero e il suo commissario Studer avvicinabile a Maigret per metodo e finalità. Indubbiamente sono presenti affinità, ma emerge una differenza profonda: dietro Maigret esistono sì persone infelici, ma anche una famiglia, una moglie premurosa, collaboratori devoti, il tutto con banali quanto primordiali compensazioni come il cibo, farmaco antico contro i turbamenti. Dietro Studer invece si profila un mondo tragico, con personaggi ribelli, scontenti, estranei alla società, non integrabili. Con questo mondo fa i conti questo personaggio grigio, razionale, calmo, impacciato, debole fisicamente, che si imbatte in modesti casi accaduti in modesti villaggi, inseriti in uno scenario che denota l’incombenza della crisi, come efficacemente rappresentato nel film del 1939 Il sergente di polizia Studer. Tenta in ogni modo di connettere la giustizia al lato umano, convinto della necessità che le regole sociali non siano schiacciate. Arriva dalle classi popolari, la sua dimensione è lontana da quella culturale e ancora di più da quella dominata dai ricchi benestanti. È incardinato nella realtà e non vi sfugge, “è perennemente alla ricerca della verità, non di un crimine specifico ma di quella nascosta, silenziosa, vietata, pericolosa che riguarda una società intera e le cerchie che contano nella seriosa e borghese Svizzera con le sue solide istituzioni. [...]” (Von Matt, La Svizzera degli scrittori, Dado, 2008). Viene così alla luce la caratteristica struttura del potere: una fitta trama chiusa, un rigido intreccio di rappresentanti e persone influenti, dai sindaci fino ai parlamentari, ai consiglieri di banca, agli alti ufficiali, molto spesso con accumulo degli incarichi e numerosi vincoli reciproci e reciproche buone parole.
Accanto all’estrema finzione, cioè il giallo, la produzione di Glauser presenta l’estrema verità, cioè l’autobiografia. Esiste un filo rosso tra vita e produzione, tra l’io di Glauser e la sua creatura Studer ed è lui stesso a portare nei libri la propria esistenza. Egli guida il lettore nei percorsi della sua vita e scosta il velo mettendo a nudo una realtà cruda e insopportabile. Come Studer indaga nei delitti per trovarne la ragione, così Glauser cerca la spiegazione della sua vita. Cerca di capire perché un uomo “possa regalare se stesso alla droga’’, perché “cerchi giustificazioni alla assuefazione alla droga ma questo concretamente è una porcheria perché rovina la vita” (Morfina, Sellerio, 1995). O renda ragione del fatto che “le notti più dure sono quelle dell’infanzia, quando non si riesce a dormire e invece di una madre siede al bordo del letto la paura” (Oltre il muro, Sellerio, 1993). Glauser è un drogato di genio, vittima della morfina e irredimibile, uscito forse troppo presto da galere e manicomio in cui veniva rinchiuso, come nella nota clinica bernese Waldau che ospitò anche Walser (drammatico è il documentario di C. Kuhn del 2011 che lo presenta protagonista). Fu un simpatico suonatore di tamburo che interpretò i drammi di Kokoscha, girovagò in Europa svolgendo i mestieri più diversi, da operaio nelle miniere di carbone a mercenario nella legione straniera, da lavapiatti negli alberghi a giardiniere.
È stato uno spietato e lucido cronista delle proprie esperienze fissandole con forza sulla carta, da Gourrama (Sellerio 1990) sull’esperienza nella legione straniera a Dada, Ascona e altri ricordi (Sellerio, 1991, su cui ha scritto su doppiozero Paola Del Zoppo). Nella sua anima devastata sopravvive la memoria che costituisce la bussola della sua scrittura. La dimenticanza, che a volte salva chi ha sofferto troppo, non cancella in lui neppure gli anni più lontani. Registra la vita con la precisione di un osservatore che non cede all'autocommiserazione, anche se il dolore provato avrebbe potuto renderlo guardingo. Non mostra severità verso gli altri, ma è sorretto dal disincanto rispetto alla crudezza della condizione umana. “La sola cosa durevole che conserviamo della nostra giovinezza sono le immagini. D’ un tratto le vediamo con chiarezza quasi accecante, incomparabilmente limpide e distinte, e tramite quelle immagini rivivono le sensazioni di un tempo. Allora è possibile che torni alla mente l’evento legato a un’immagine, e resta il ricordo del timore impaziente che avevamo provato a quel tempo. È dolce e amaro, come un forte caffè turco.”
L’opera di Glauser è il classico esempio di ‘long seller’ per dirla con Manganelli, cioè “quando l’autore che fa un giro di pista nessuno gli fa caso, dopo trenta, quarant’anni fa un secondo giro e tutti lo guardano con il fiato sospeso. I best seller sono invece soltanto fulminei ectoplasmi senza passato”.