Epica e fotografia

15 Settembre 2015

È in uscita da DeriveApprodi il volume Etica e fotografia. Potere, ideologia, violenza dell’immagine fotografica, a cura di Raffaella Perna e Ilaria Schiaffini, che raccoglie gli atti del convegno omonimo tenutosi lo scorso novembre all’Università di Roma «La Sapienza» e comprende interventi di Andrea Cortellessa, Antonello Frongia, Adolfo Mignemi, Lucia Miodini, Federica Muzzarelli, Raffaella Perna, Antonello Ricci, Ilaria Schiaffini e Michele Smargiassi. Anticipiamo qui il saggio di Andrea Cortellessa sul lavoro di Giorgio Falco e Sabrina Ragucci.

 

 

Cosa sia l’epica nel mondo moderno, e perché tanta nostalgia essa continui a ispirarci, non è facile dire. Com’è ben noto, Hegel nell’Estetica definisce «moderna epopea borghese» il romanzo del suo tempo, il novel brevettato nell’Inghilterra del diciottesimo secolo. Ma una simile definizione allude più a una distanza, da un modello remotissimo avvertito come irraggiungibile, che a un’effettiva vicinanza. È in termini funzionali insomma, per il ruolo cioè che svolge nella formazione dell’individuo moderno, che il romanzo realista si può definire un’epopea. Mentre, sotto molti altri punti di vista, esso si colloca perfettamente ai suoi antipodi: storia di individui che proprio nella singolarità delle proprie vicende si distinguono, pur prendendovi parte, da un contesto sociale nel quale invece, nell’epica antica, tanto il personaggio che l’autore – se questo termine ha un senso, riferendoci come facciamo a un’epoca che precede la stessa scrittura – erano perfettamente fusi[1]. Se oggi come ai tempi di Hegel si parla ancora di epica, dunque, si dovrà essere consapevoli di impiegare una metafora. A mio modo di vedere, a definire i confini di questa metafora – onde evitare che si possa applicare a tutto e al contrario di tutto, perdendo così di qualsiasi utilità – devono rientrare un certo numero di parametri: il riferimento all’oralità, quello alla collettività e quello alla fondazione originaria di una forma di vita sociale.

 

Nel 2004, all’apparizione tardiva di Giorgio Falco (classe 1967) con Pausa caffè (nella collana – decisiva per la nostra narrativa degli Anni Zero – «Indicativo presente», diretta da Giulio Mozzi per l’editore Sironi), Aldo Nove lo presentava come «l’attuale poeta epico del mondo del lavoro precario»[2]. La costellazione di frammenti, ossessivamente iterati, che descriveva l’alienazione dei lavoratori in una grande azienda di telefonia, parcellizzava le voci dei singoli personaggi – tutti ugualmente fungibili nella macina sempreuguale di un tempo senza tempo – dando vita a una coralità che però appariva capovolta, rispetto al modello epico originario: in luogo della totalità tradizionale il mondo di Pausa caffè è quello della più disgregata frammentazione sociale, della frammentazione emotiva di ciascuno di noi, della frammentazione del tempo e dello spazio: la sua tecnica narrativa non poteva che essere quella del frammento[3]. Né si poteva propriamente parlare di coro, perché ogni singola tessera di quel mosaico era rigidamente monologica. «Epica» si poteva bensì definire, invece, la spersonalizzazione dello sguardo, il suo affilarsi sul metallo luccicante di un’estraneità individuale che non esclude, anzi, la partecipazione sociale: quella che un maestro di Falco come Elio Pagliarani aveva per tempo definito pietà oggettiva[4]. Lo sguardo di Falco, allora come oggi, si concentra catatonico su oggetti, appunto, che – immotivatamente isolati dal contesto – d’improvviso assurgono a epifanie, allucinate quanto inappellabili, di una connotazione intrinsecamente morale: allorché viene davvero da pensare al “noi” che risuona, implacabile, in certi celebri incisi della Ragazza CarlaÈ nostro questo cielo d’acciaio che non finge / Eden e non concede smarrimenti, / è nostro ed è morale il cielo / che non promette scampo dalla terra, / proprio perché sulla terra non c’è / scampo da noi nella vita»)[5].

 

Davvero senza scampo appare il secondo libro di Falco, quello che segna la sua definitiva maturazione: L’ubicazione del bene, uscito da Einaudi Stile Libero nel 2009. Un libro che inventa anzitutto una forma: nella quale i frammenti della rappresentazione modulare non necessitano più della labile connettività di Pausa caffè, ma hanno invece il coraggio di accamparsi nel loro desolato isolamento; perfettamente isotropico al disseminarsi delle unità abitative nella condizione suburbana che in urbanistica è stata definita sprawl. Non si possono chiamare propriamente “racconti”, i frammenti dell’Ubicazione del bene, perché in nessuno di essi è possibile ravvisare unità di senso autonome (come invece è lecito fare nello spin-off pubblicato nel 2010 dall’editore palermitano :duepunti, col titolo La compagnia del corpo); ma nel loro insieme questi frammenti disegnano, con spietata precisione, quello che Michele Smargiassi ha definito «il male oscuro dell’hinterland del benessere», ossia la «depressione clinica» dalla quale è affetta la «questione settentrionale»[6].

 

L’hinterland di un benessere così vicino ma anche così lontano, se è vero che l’altra grande invenzione dell’Ubicazione del bene è di carattere geografico: la contrada immaginaria, ma più vera del vero, di Cortesforza, a sud di Milano, nella quale sono ambientati tutti i frammenti[7]. E che non è che un nome del mondo in cui viviamo. «Cortesforza è qualsiasi luogo»[8]: un universo chiuso, fatto unicamente di non-luoghi (svincoli autostradali, centri commerciali, rotatorie, residence a schiera) e che non prevede alcuna via di fuga, non conosce nessun esterno[9]. Il mondo di Falco, per dirla con Peter Sloterdijk, è davvero «dentro il capitale»[10]: totalmente avvolto da una pellicola di merci e prezzi, incapace di percepirsi – e dunque valutarsi – da una qualsiasi prospettiva esterna: «esiste solo il presente dei piccoli gesti amplificati dallo spazio limitato ma potenzialmente mobile, infinito»[11]. A un certo punto uno dei personaggi, per procacciarsi un cliente, gli «promette il mondo», ma «alla prima fattura il cliente ha capito che il mondo non esiste»[12]. Proprio così ha descritto la forma di vita nostra contemporanea Jean-Luc Nancy, «la fine del mondo»: la cessazione di ciò che per le generazioni precedenti alla nostra era «un ordine composto e completo all’interno o dall’interno del quale trovare uno spazio, un soggiorno e segni per orientarsi»[13]. Non c’è più un fuori, un esterno rispetto alla «recinzione», ma non c’è più nemmeno un dentro: se è vero che il senso dell’abitare non può che darsi, appunto, in relazione a un esterno. Senza parere, insomma, in questi anni Giorgio Falco sta scrivendo davvero quello che tante volte ha raccontato la fantascienza. Appunto la fine del mondo. La differenza è che stavolta, però, non è ambientata nel futuro.

 

I «beni» del titolo, che impiega un linguaggio gelidamente burocratico (da «frasario catastale», precisa Smargiassi), sono quelli immobiliari in cui i personaggi infelicemente conducono la propria esistenza; ma in cui molti di questi personaggi, altresì, commerciano. I beni, da tempo sostituitisi a un bene irrintracciabile nonché ormai impossibile da definire, sono l’unico orizzonte di senso e di valore di questi personaggi. Divenuto rapidamente inservibile il tema del precariato – usurpato negli anni immediatamente successivi a Pausa caffè da narrazioni consolatorie e autocommiseratorie che impiegano forme letterarie del tutto tradizionali per trattare forme di vita che non si rifanno ad alcuna tradizione[14] – Falco è infatti passato a quell’altra e più sottile, e ben più difficilmente tipizzabile, alienazione che affligge il cosiddetto “popolo delle partite Iva”: i lavoratori che con amara ironia si definiscono «autonomi», cioè, essendo in realtà i più dipendenti di tutti – in quanto è da loro stessi che dipendono.

 

Il più lancinante di questi spezzoni di vita offesa s’intitola Oscar. La voce narrante è appunto quella d’un agente di qualche commercio, il quale passa il suo tempo libero in compagnia di colleghi che sono in realtà suoi competitors. Anziché sbranarsi in prima persona, però, hanno trovato il modo di trasportare questa loro aggressività, appena dissimulata, sfidandosi in appositi tornei di «pesci siamesi combattenti». Oscar si chiama appunto il nuovo portabandiera di cui mena vanto l’io narrante, che alla fine del combattimento – ospite della villetta del collega Stefanato – ne festeggia l’esito a modo suo:

Si chiama Oscar. Un po’ caro, ma un ottimo investimento.

È nero e blu, ha la coda a raggiera come quella di un pavone, la testa macchiata di giallo, gli occhi neri. L’ho provato a casa, nella vasca da bagno, una sequenza di combattimenti contro tre pesci rossi. Li ha ammazzati, certo, contro i pesci rossi non c’è confronto, ma la sua furia agonistica iniziale mi fa sperare, in combattimenti di trenta minuti è fondamentale partire subito all’attacco.

Eccolo, bellissimo, finalmente Oscar, contro i pesci siamesi combattenti di Stefanato, Bovisio e Montesi, eccolo fortissimo nell’increspatura dell’acqua, Oscar aggancia e morde come una ventosa le bocche degli altri, le pinne, le branchie, Oscar s’inabissa poi risale, la violenza ha il sottile risucchio dell’acqua. Peccato l’acquario sia grande, cinquecento litri lordi sono troppi per il mio Oscar, in un acquario da cinquantacinque litri farebbe una strage, qui i feriti si nascondono nelle cavità oscure del paesaggio.

Stefanato, Bovisio e Montesi raccolgono i loro pesci col retino, li rimettono feriti nelle vaschette. Il mio Oscar rifiata appoggiato a un corallo, lo premio con mangime a base di gamberetti, muove la bocca agitando le pinne, gli occhi puntati sulla superficie. Arrotolo le maniche della camicia, lo prendo vittorioso con la mano destra e gli regalo il riposo provvisorio della sua vaschetta.

Stasera ho il carisma di un nuovo dirigente. Bevo mezzo bicchiere di vino con lentezza, vado al cesso del piano di sopra, piscio nel lavandino, in modo che il getto finisca proprio sul miscelatore.

 

 

Dopo di che, l’io narrante rientra nella piccola sfera concentrica che, all’interno del mondo dentro il capitale, ballardianamente è rappresentata dalla sua automobile:

Chiudo la mia portiera sbatacchiandola sul resto della carrozzeria con un abbraccio forte, amorevole, un tonfo avvolgente serra il mondo fuori. Metto la vaschetta di Oscar nell’intimità laterale del cruscotto. Oscar, dopo una breve sosta di ambientamento, si agita ancora, scambia se stesso per un altro pesce, gli infiniti pesci moltiplicati nella vaschetta, i riflessi del mio parabrezza.[15]

 

Il tenore allegorico di questa clausola è lancinante. Ma parla con ancora maggiore precisione un inciso che, nello stesso Oscar, s’era letto in precedenza:

Abbiamo chiuso le schede di valutazione dei nostri collaboratori. Per la prima volta ci siamo anche autovalutati. L’autovalutazione è un momento importante. È come una fotografia: ci guardiamo allo specchio e diciamo quello che non si vede.[16]

 

Scissi, come detto, nella propria coscienza di sfruttatori e schiavi di se stessi, questi personaggi non possono avere chiarezza di sé se non attraverso il filtro speculare di una riproduzione fotografica. Après coup, diciamo. Senza questa mediazione, essi «soffrono, ma non hanno le prove della loro sofferenza»[17]; guardano a se stessi cercando di decodificare nella propria immagine quello che Walter Benjamin definiva «inconscio ottico»[18]: con quello che, ricordando il celebre apologo di Michelangelo Antonioni sulla fotografia, Philippe Dubois ha definito «effetto Blow up»[19]. Del resto lo stesso Falco ha fatto suo il motto di uno dei suoi «fotografi preferiti», Garry Winogrand: «I photograph to see what the world looks like in photographs»[20].

 

Proprio la fotografia è sempre immanente ai testi di Falco: ancorché materialmente, in un primo momento, essa non venga convocata all’interno dei suoi testi, né da essi venga fatta oggetto di ekphrasis. E anzi più che della fotografia in quanto testo iconico sarà il caso di parlare, a proposito dei testi di Falco, dell’atto fotografico, per dirla appunto con Dubois: ossia di quell’insieme di pratiche che ci consentono di parlare della fotografia come processualità nonché, al tempo stesso, come di una «vera categoria del pensiero, assolutamente singolare e che introduce ad un rapporto specifico con i segni, col tempo, lo spazio, il reale, il soggetto, con l’essere e con il fare»[21]. Un pensiero fotografico, o diciamo pure un’etica della fotografia, risulta dunque sin dal principio il presupposto sotteso all’immaginazione narrativa di Falco. Sicché la sua stessa scrittura, nell’Ubicazione del bene, si è potuta leggere come una messa in serie di «inquadrature», relativamente autonome l’una dall’altra[22]; più ravvicinato il parallelo – confermato spesso dallo stesso Falco nelle proprie interviste – con le pratiche «algide e rigorose fino all’estremo» dei New Topographics: quel movimento che intendeva applicare al man-altered landscape (questo il titolo della prima loro mostra, tenutasi a New York nel gennaio del 1975) il medesimo rigore che un maestro come Ansel Adams aveva riservato alla wilderness. Una «chirurgica precisione» in grado di «dare risalto e forza ai dettagli più insignificanti e quotidiani (gli spazi retrostanti alle abitazioni, le sedie abbandonate, le auto parcheggiate, le tettoie arrugginite, ecc.)»[23]: come avviene, appunto, anche nella prosa dell’Ubicazione del bene. Sempre nell’intervista che ho già avuto modo di citare, Falco ha applicato alla propria scrittura la categoria di dislocated perspective usata da Armitage e Tydeman a proposito appunto dei New Topographics:

una prospettiva slogata, per così dire. La ricerca è il tentativo di scalfire le convenzioni abitudinarie di chi guarda – o legge – davanti a un soggetto familiare e desolante.

Per esempio, la celebre fotografia di Eggleston, quella del triciclo. Se guardiamo bene, se vediamo davvero, notiamo che il punto di vista del fotografo è quello di un insetto. Il triciclo è mostruoso. Il triciclo di un bambino non è innocente. Ecco, questa visione è anche politica, e mi interessa. La struttura stessa del mio libro, oltre che una scelta stilistica, è politica.[24]

 

In quello che è a tutti gli effetti il primo romanzo scritto da Falco, La gemella H, uscito da Einaudi Stile Libero a febbraio 2014 e che finalmente ha fatto conoscere l’autore a un pubblico relativamente ampio, questa intenzionalità politica delle sue scelte di stile si associa al tentativo di allargare a dismisura il fuoco della percezione narrativa. Tanto nel tempo che nello spazio: affondando le sue radici nel trauma della Grande Guerra, per poi svilupparsi nella Germania nazista e approdare nella Riviera romagnola del dopoguerra, per arrivare sino ai giorni nostri. Dal presente accelerato delle tangenziali lombarde al passato ritardato del borgo bavarese di Bockburg (altrettanto immaginario, e altrettanto vero, di Cortesforza), sono molte le linee di continuità come pure, non meno significative, le cesure (a partire, come accennavo, dalla scelta della forma-romanzo: che, seppure congegnato per lunghe sequenze, non presenta più la struttura modulare di Pausa caffè).

 

Lo scenario resta dominato dalle cose. Dagli oggetti, freddi e inanimati, sui quali proiettiamo i nostri desideri; e dietro i quali nascondiamo le nostre colpe. Le merci, nel cui eloquente silenzio si aggirano gli umani, sono stavolta quelle della prima grande ondata consumistica: quella illustrata dalla grafica anni Venti di Franz Joseph Lenhart e dall’«Uomo di Lenhart», la figura – sola, anonima, assente – che vi si ripete seriale, modulare, “conformista” come l’Italia fascista che vi si riconosce; quella allegorizzata dai primi nastri autostradali, costruiti nella Germania anni Trenta, sui quali sfreccia il piccoloborghese Hans Hinner. Che nella sua ansia di “sorpasso” elabora, senza confessarlo neppure a se stesso, il proprio progetto di scalata sociale: farà di «Mutter», il giornaletto di provincia di cui è redattore, il megafono propagandistico di un certo «politico di Monaco»[25]. E davvero Hans Hinner è il tipico esponente di quella piccola borghesia piena di insoddisfazioni, e violenza repressa, che costituì il blocco di manovra del movimento nazista. Ma il vero mistero è nella sua discendenza. Nelle gemelle Hilde e Helga, cioè: che si spartiscono il tessuto della narrazione, soggetto e oggetto alternati della focalizzazione, ma che si spartiscono anche l’eredità della sua colpa. Se Helga la fa sua in concreto, realizzando l’intuizione paterna di proseguire il totalitarismo, dopo la catastrofe bellica, nell’«orrore a bassa intensità» (come l’ha chiamato Emanuele Trevi)[26] dell’imprenditoria turistica sulla Riviera romagnola (perché «il turismo tranquillizza tutti, persino in tempo di guerra»)[27] e proseguendo la gestione dell’Hotel Sand da lui fondato, di questa colpa è Hilde la testimone. Una testimone che resta tuttavia, sino alla fine, sempre silenziosa.

 

Come nella pagina lancinante in cui assiste a una «domenica tedesca» qualunque: la domenica in cui i vicini di casa, gli ebrei Kaumann, vengono brutalizzati ed espropriati di tutti i propri averi dalle SS[28]. Averi di cui saranno proprio gli Hinner ad appropriarsi, gettando così le basi del loro benessere a venire. In quel benessere postbellico, fatto di silenzi e omissioni e decorato da «quadri mediocri, stampe, incisioni, banali dipinti di paesaggio e fotografie di parenti dall’aria familiare»[29], capiamo che ha ragione Hans Hinner: quando si dice convinto che, a dispetto delle apparenze, è «il suo mondo […] quello che ha vinto»[30]. Davvero quei parenti, che sorridono spenti dal grigio di quelle foto sul muro, «potrebbero essere gli avi di tutti»[31]. Tanto è tabù, la morte che nel mondo della Gemella H «non arriva, o meglio, è ovunque»[32], e tanto è repressa la coscienza di Hilde, che noi ci rendiamo conto del fatto che lei l’abbia percepita, quella morte diffusa, solo leggendo il tema scolastico nel quale racconta, come se niente fosse, la giornata particolare che ha sbirciato tra le tendine della finestra di casa.

 

 

È proprio come nella fotografia dell’Ubicazione del bene: «ci guardiamo allo specchio e diciamo quello che non si vede». Non è un caso che, dopo essere stata inibita nella scrittura dalla reazione violenta della madre, Hilde tenti in un unico modo di manifestare all’esterno, quella propria coscienza conculcata, appunto per mezzo della fotografia. Se la tinta dominante della scrittura di Falco (nonché della fotografia in copertina, opera di Sabrina Ragucci) è stavolta il grigio – come «grigia», nel senso della «zona» di Primo Levi, è la coscienza di Hilde – viene da pensare alle tinte opache, all’occultamento parziale del senso in un film come Il nastro bianco di Michael Haneke; o, ancor meglio, all’espressione assente degli «uomini comuni del XX secolo» ritratti da August Sander: sotto il suo occhio impassibile scorrono tanto i giovani nazisti che le vittime designate, i loro coetanei zingari od omosessuali. Diceva Benjamin, nel ’31, che quei lavori di Sander «da un momento all’altro […] potrebbero assumere un’imprevista attualità»[33]. Appunto nel ’33, giusto assieme alle gemelle H, nasce il regime nazista: che quel corpo sociale, e quel sistema di coordinate prossemiche e fisiognomiche, trascinerà a un immenso e catastrofico Come-volevasi-dimostrare. Anche Hilde Hinner, dopo un fuggevole flirt con un ragazzo di Monaco che vorrebbe proseguire appunto il lavoro di Sander[34], progetta forse qualcosa del genere: non riuscendo in alcun modo a prendere la parola («Non parlavamo mai di Hitler quando c’era Hitler e vivevamo nella nazione di Hitler: vogliamo parlare di Hitler adesso, al mare?»[35]; «finora ho solo finto, con mio padre, mia sorella, con tutti, mi chiedono una vita normale, parlano solo del presente e della costruzione del futuro, tacciono sul passato, da dove veniamo»[36]), decide di dedicarsi a sua volta alla fotografia: con la Polaroid scatta ritratti dei clienti, in gran maggioranza tedeschi, che invadono la Riviera in spirito non così diverso da quello col quale le stesse persone, magari, l’avevano invasa pochi anni prima, in tempo di guerra. Dopo le prime foto con «sorriso turistico» d’ordinanza, i volti dei clienti ricadono nel lattescente grigiore della loro vita reale. Protestano, «noi non siamo così»; ma Hilde consegna loro la prima foto, quella “giusta” – e «tiene il resto per sé, da archiviare»[37]. Come in un casellario giudiziario personale.

 

Compagno da sempre di Sabrina Ragucci – con la quale sin dal principio, a partire dai primi anni Novanta, condivide gli accurati e quasi indiziari “sopralluoghi” che per entrambi rappresentano la primissima fase del proprio lavoro[38] – solo negli ultimi anni Falco ha preso a collaborare con lei anche nella fase essoterica, diciamo, del proprio lavoro: materialmente associando alle sue immagini, cioè, la propria scrittura. Il primo lavoro in comune dei due è stato il racconto Lo sguardo giù dal basso siamo noi, incluso in un volume intitolato semplicemente Racconti (insieme a testi di Michele Mari e Giulio Mozzi) e pubblicato nel 2010 dal Comune di Riva del Garda: dove le “inquadrature” (scritte e iconiche) del percorso che va sino al Castello di Drena sono filtrate dal parabrezza dell’auto a bordo della quale si svolge il viaggio. È seguito due anni dopo un libro d’artista pubblicato da Micamera col titolo The Collared Dove Sound, nel quale è compreso il racconto di Falco Se avessimo mangiato il dolce. Qui il progetto si presenta ulteriormente articolato dal riferimento a una fonte sonora, il verso – «un triplice urlo, duro e nasale», lo definisce Ragucci nella nota che conclude il volume – della tortora dal collare orientale, volatile diffuso nell’area a sud di Milano dove si situa Cortesforza; e dove, anche in questo caso, è ambientata la storia di Falco.

 

Quello che al momento è l’ultimo episodio di questa collaborazione segna anche il punto più avanzato dell’interazione fra i due artisti. Il testo verbale di Falco, in Condominio Oltremare – il volume che ho pubblicato a settembre 2014 nella collana fuoriformato delL’orma editore, che per la prima volta fa giungere nelle librerie “generaliste” questo tipo di testualità – non figura più separato dalle immagini di Ragucci (come in The Collared Dove Sound), né scorre al loro fianco in modo casuale (come in Lo sguardo giù dal basso siamo noi), ma è concertato dai due autori in ogni suo dettaglio di impaginazione. Graficamente durchkomponiert, per dirla in termini musicali, come forse sono stati, in precedenza, solo i testi di W.G. Sebald: la cui grande fortuna – a partire dall’edizione inglese di Die Ausgewanderten, uscita nel 1996 – senz’altro si può considerare decisiva, nella ritornante sinergia di scrittura letteraria e immagine fotografica. Al modo di quelli di Sebald, appunto, la scommessa è stata quella di realizzare un testo perfettamente insubordinato, come mi piace definire quelli che nella letteratura critica internazionale è invalso definire iconotesti: nei quali la scrittura non si presenta, cioè, quale didascalia dell’immagine, né viceversa l’immagine può essere considerata mera illustrazione del testo[39]. Da questo punto di vista, l’archetipo più alto può essere rintracciato in Bruges-la-Morte di Georges Rodenbach, pubblicato nel 1892, per poi codificarsi nei due straordinari libri firmati da André Breton nel 1928 e nel 1937, Nadja e L’Amour fou. Questo tipo di struttura, hanno scritto Jan Baetens e Hilde van Gelder, «sostituisce alla logica identitaria dei referenti (si mettono in rapporto un testo e una fotografia perché si suppone abbiano in comune lo stesso referente) una logica di luogo (testo e immagine mescolano le loro rappresentazioni dividendosi lo stesso spazio nel libro)»[40]. Non è dunque un caso che così spesso l’iconotesto sia intimamente legato a un territorio, non importa se urbano (in Rodenbach o appunto in Breton), extraurbano (per lo più in Sebald) o (come quasi sempre in Falco-Ragucci) peri-urbano, diciamo: in ogni caso lo spazio percorso è tracciato dalla memoria e dall’immaginazione, e “marcato” (in senso segnaletico) dalla relazione dinamica fra parole e immagini.

 

La presenza radiante dell’immagine raddoppia il senso del luogo verbale, dialettizzando in esso la compresenza – che è alla base della poetica surrealista – di un senso manifesto e di (almeno) un senso latente, destinato magari a rivelarsi (ma mai esaurendosi definitivamente) soltanto molto più avanti, nel corso del testo. L’inconscio ottico di Benjamin (non a caso, negli anni della Piccola storia della fotografia, assai attento a quello che combinavano i surrealisti) si fa, così, principio di composizione testuale. Ma è altresì vero che le immagini convocate nell’iconotesto si comportano come quelle che nelle arti della memoria medievali e rinascimentali, rifacendosi all’antico testo di retorica Ad Herennium, venivano definite immagini agenti, e che si strutturavano appunto come «serie di loci o luoghi»[41]. Di qui la sensazione che lo spazio iconotestuale sia gremito di indizi, che la superficie della sua pagina sia gremita di segni ulteriori, oltre a quelli verbali e iconici in essa manifesti: una specie di pedale enigmatico, un sottofondo di tensione che amplifica a dismisura, di ciascun dettaglio, la valenza allegorica. (Non a caso proprio Sottofondo italiano ha intitolato Falco la sua ultima prova, il saggio-memoir uscito a maggio 2015 nella nuova collana «Solaris» dell’editore Laterza.)[42]

 

«Qui non c’è il cimitero»[43]: è l’incipit di Condominio Oltremare. Il che non sorprende: se il cimitero, come luogo di comunicazione fra i vivi e i morti, è un preciso segno di civilizzazione umana[44], esso non può che brillare per la sua assenza dal non-luogo turistico del Lido delle Nazioni, la cui localizzazione insiste sulla stessa riviera romagnola della Gemella H. Il che non toglie (anzi!) che la morte, come ci ha insegnato appunto La gemella H, sia «ovunque». Dopo ventisette anni di assenza, ormai quarantacinquenne, una volta persi i suoi genitori l’io narrante decide di tornare nei luoghi delle sue villeggiature infantili e adolescenziali per mettere in vendita quella casa. In quell’inverno fuoristagione è lui l’unico inquilino che si aggiri in questi luoghi. La morte che scopre è quella delle piccole consuetudini, delle piccole assiderate comunità di milanesi che si frequentavano solo un mese dell’anno: specchio di una più vasta morte, la fine di ogni forma di comunità «ovunque», appunto. E ovunque si trovano disseminati, infatti, i segni di tale morte. Delle paludi bonificate dagli «uomini delle berline nere», fra i quali Michele Sindona, che a cavallo del Sessanta si sono impossessati di tutti i terreni edificabili al Lido delle Nazioni, impiantandovi l’attività turistica nella quale – proprio come gli Hinner qualche anno prima – hanno potuto riciclare beni di oscura provenienza, con tecnicismo ingegneristico si dice che sono state tombate[45]. Più avanti l’io narrante vede sulla sabbia della battigia quella che sulle prime gli appare una boa e che si rivela poi essere, invece, «un delfino di tre metri» dalla «coda molto lunga»; infine si rende conto che «non è una coda ma un piccolo delfino morto neonato, rimasto imprigionato nella madre in un parto fuori stagione»[46]. Poco dopo si ricorda della madre che una volta, d’estate, assisté a un’immane moria di pesci spiaggiati: «milioni di pesci sulla battigia, così tanti che gli uomini, per afferrarne a brancate, appoggiavano i piedi su altri pesci, quelli ancora vivi strabuzzavano gli occhi […] La puzza era fortissima a riva, i clienti dentro gli stabilimenti balneari fingevano che tutto fosse normale, immergevano i croissant nei cappuccini […] Era una bella giornata di sole, cosa che aggravava la puzza di pesce, qualche anziano ha chiesto ai bagnini di pulire la spiaggia, i bagnini ripetevano che era una cosa troppo grande, hanno aperto gli ombrelloni per i clienti, spinto i pedalò che nel tragitto si facevano largo tra i pesci morti. Non è vero quello che stiamo vedendo, mi pare di sognare, ha detto un vecchio, am par ad sugnar»[47].

 

Contrariamente a una tradizione di lunghissimo periodo, lo sguardo rivolto al mare dall’io narrante di Falco non incontra l’apertura alla vita, sia pure con le sue inquietudini e i suoi turbamenti; non è l’«aprico» di Calvino[48]. Il mare non fronteggia una forma di vita aperta; è bensì una lastra grigia, d’ardesia, che carcera lo sguardo e opprime la mente: la lapide di una tomba. Oltremare è come dire oltre morte: è lo stato d’animo di chi contempla la morte di una comunità, da tempo avvenuta, da una condizione a sua volta postuma. Ancora una volta viene in mente Pagliarani, il leit-motiv del poema La ballata di Rudi che proprio da quel paesaggio prende le mosse (e che a sua volta descrive la morte di una comunità): «Ma dobbiamo continuare / come se / non avesse senso pensare / che s’appassisca il mare»[49]. Ma la situazione narrativa di Condominio Oltremare ricorda più da vicino quella di uno dei più magistrali racconti di fantasmi di Henry James, The Jolly Corner, pubblicato nel 1908 (e in italiano tradotto, di volta in volta, come L’angolo felice o L’inquilino fantasma)[50]: come l’io narrante di Falco il protagonista di James, Spencer Brydon (che al momento della scrittura ha più o meno l’età dell’autore ed è rimasto a sua volta solo al mondo, proprio come quello del Condominio Oltremare), dopo trent’anni di residenza all’estero torna nella casa dove è cresciuto, da lui soprannominata appunto the jolly corner, per rivederla un’ultima prima che venga demolita per far posto a un lussuoso edificio di appartamenti. Ma quel luogo che ricordava felice, ora che lo visita nottetempo, d’un tratto gli si rivela estraneo, inquietante, come fosse abitato da uno spettro. Solo alla fine capirà che lo spettro venuto a infestare questo luogo, in realtà, altri non è che lui stesso. Lo spettro di colui che avrebbe potuto essere, nella propria vita, e non ha saputo, o voluto, essere.

 

 

L’episodio più doloroso di questa insistita teoria di apparizioni funeree provvede a riconnettere il tema del lutto a quello della fotografia: secondo il paradigma dell’«è stato» della Camera chiara barthiana[51]. Quella dell’edicolante del Lido delle Nazioni, situato proprio vicino al Condominio Oltremare, è presenza abituale nei ricordi estivi dell’io narrante; così come le notizie di incidenti stradali mortali, frequenti sulla strada Romea che attraversa il Lido:

Questa strada – secondo una statistica che calcola il rapporto tra lunghezza, numero di incidenti per chilometro, numero di morti per incidente e numero di morti al chilometro – è la più pericolosa d’Italia. Così capitava che almeno una volta alla settimana, l’edicolante esponesse nella civetta la fotografia ingigantita di una persona deceduta in un incidente stradale. Pubblicare le fotografie dei morti causati da incidenti stradali era usanza di molti giornali, ma a un certo punto i quotidiani nazionali […] hanno smesso di riportare le fotografie dei morti perfino nelle pagine delle edizioni locali […]. Nel corso degli anni, l’edicolante aveva esposto decine, centinaia di fotografie, un piccolo, personale camposanto condiviso con i cosiddetti villeggianti, i quali – in bermuda e canottiera e pareo, o molto spesso soltanto in costume, con una papera gonfiabile sottobraccio, un paio di pinne sotto un’ascella – restavano attoniti davanti alle civette mortuarie, soprattutto qualora la vittima dell’incidente stradale fosse un turista […].Mio padre aveva richiesto all’edicolante – per una trentina di estati più o meno lunghe, visto che durante gli anni della pensione i miei genitori si trasferivano al mare per tre mesi – le civette con le fotografie delle vittime degli incidenti stradali. Oltre a due case che nessuno vuole, è questa parata di morti l’eredità dei miei genitori. Una lunga serie di fotografie che attraversano tre decenni di anonima esistenza italiana.

 

Ereditando questo museo effimero, l’io narrante comincia ad accarezzare fantasie di catalogazione à la Sander, che visivamente assomigliano piuttosto a certe installazioni di Christian Boltanski:

Le civette sono in ordine cronologico a partire dagli anni Settanta del Novecento, le fotografie rappresentavano una ricognizione tra coloro che morivano negli incidenti stradali in una delle zone più turistiche d’Italia e quindi d’Europa; il taglio dei capelli, corti davanti e ai lati, più lunghi di dietro, come si usava a metà degli anni Ottanta; la presenza o meno di un riporto, di un parrucchino, delle basette, dei baffi, della barba; il tipo di montatura degli occhiali; spesso erano morte persone che nelle fotografie delle civette indossavano dolcevita o maglioni pesanti, le donne avevano capelli cotonati, forse un rossetto vivace o un lucidalabbra, che le fotografie in bianco e nero occultavano. Nella penombra di questa cantina sono circondato dalle immagini dei defunti, alcuni morti da ragazzi, miei coetanei di trent’anni fa, a bordo di un motorino. Le vittime erano ritratte nell’immagine della fototessera, della carta di identità o della patente, che era quasi sempre la fotografia ufficiale delle civette e della raccolta di mio padre. Erano seri come impone la regola di un documento, gli sguardi a metà tra noia disperata e claustrofobia da baracchino, tanto che quasi mai le immagini delle civette diventavano le fotografie esposte sulle tombe: per i familiari, le migliori erano quelle con le vittime sorridenti.

 

Anche in questo caso dunque, come nelle foto scattate con la Polaroid da Hilde all’Hotel Sand, lo sguardo grigio di chi ha sviluppato una coscienza mette a disagio chi quella coscienza non ha coltivato. È lo stesso sguardo che si riconosce nel

culto laico dell’edicolante, il farsi immagine di morte tra le creme solari, le onde, i ritornelli. Prima che le locandine finissero nell’inceneritore o, più recentemente, nella raccolta differenziata della carta, mio padre le aveva archiviate e sepolte nella cantina del Condominio Oltremare. Ecco perché, durante le sue ferie a Lido delle Nazioni, comprava sempre due quotidiani: nazionale e provinciale. Forse aveva un accordo con l’edicolante, che conservava la civetta in cambio del doppio acquisto. Ignoravo – penso appoggiato con una mano sopra la mensola dopo un lieve giramento di testa, circondato da immagini di morti, nella cantina di un palazzo disabitato, lungo la costa adriatica italiana, dove i miei genitori, ora defunti, mi hanno portato fino ai diciotto anni – l’esistenza della raccolta di mio padre, che si può considerare consapevole e non dettata dal caso, poiché ha escluso le immagini che nelle civette ritraevano soltanto le auto accartocciate, che sostituivano le fotografie delle vittime.[52]

 

Viene in mente uno degli ultimi testi di Sebald, Camposanto (in italiano tradotto solo in parte col titolo Le Alpi nel mare). In visita in Corsica, lo scrittore tedesco racconta il rapporto degli isolani con i loro defunti, per poi descrivere il Memorial Grove: un cimitero virtuale, elettronico, fatto di mere immagini. E infine concludere: «prima o poi, anche questo virtual cemetery svanirà nell’etere e l’intero passato si dissolverà in una massa uniforme, irriconoscibile e muta. E muovendo da un presente immemore verso un futuro che l’intelligenza di nessun individuo riuscirà più a comprendere, alla fine anche noi lasceremo la vita, senza provare alcun bisogno di restarvi ancora per qualche istante almeno, o di potervi se mai fare ritorno»[53].

 

Ma Condominio Oltremare non resta un episodio isolato, e terminale, nella parabola di Giorgio Falco e Sabrina Ragucci. I quali – al modo di molti artisti, più forse che di molti scrittori, contemporanei – concepiscono al contrario ognuno di questi episodi come addendo di un insieme: in cui la circolazione di senso complessiva è maggiore di quella delle sue parti. Nella fattispecie, l’uscita in rapida successione della Gemella H e di Condominio Oltremare risponde a un caso, se è vero che i due libri concludono percorsi di elaborazione lunghi e complessi; ma i due testi, letti appunto di seguito, compongono una successione significativa. Per restare in ambito fotografico, anzi, l’uno rappresenta lo “sviluppo” dell’altro; sicché, più che a una successione, siamo di fronte a un processo.

 

Come scorporando, o de-componendo, l’insieme testuale pubblicato dalL’orma, Condominio Oltremare s’è intitolata, dopo l’uscita del libro, anche una mostra delle immagini di Sabrina Ragucci (dal 6 novembre all’8 dicembre 2014 nell’ambito del Riccione TTV Festival): in occasione della quale Giorgio Falco ha dato lettura dei testi ad esse connessi nonché, appunto, di quelli della Gemella H. Ma quel che più conta, conoscendo la loro poetica “localizzata”, è appunto il luogo in cui questa mostra s’è tenuta: Villa Mussolini (negli anni Trenta, sul Lungomare di Riccione, era questa la residenza estiva di Rachele Mussolini, moglie del Duce; da qualche tempo la modesta villetta liberty è stata adattata a spazio espositivo multimediale). In apparenza nulla, in Condominio Oltremare, fa riferimento a quel fascismo che malgrado le apparenze, come sostiene Hans Hinner nella Gemella H, «ha vinto». Malgrado le apparenze, appunto. È invece proprio questo il sottofondo al quale si riferisce quello che ho definito il suo pedale enigmatico. Il sottinteso, il sottotesto di cui tratta invece esplicitamente Sottofondo italiano (l’unico testo di Falco in cui, al momento, chi dice “io” s’identifichi direttamente con l’autore): «Nonostante le scritte rosse sui muri, che leggevo come un rosario dal finestrino dell’autobus, ero circondato dal fascismo»[54]. Nulla vi fa riferimento, dicevo, nel testo di Condominio Oltremare – se non un dettaglio. Dissimulato a perfezione, come la lettera nascosta di Poe, poiché collocato in piena luce: nel titolo. Come hanno raccontato gli autori a Villa Musolini, l’Oltremare del titolo allude infatti a quella che veniva chiamata nel 1943-44, a Roma, la «Pensione Oltremare»: tre appartamenti siti all’ultimo piano dello stabile di Via Principe Amedeo 2, nel quartiere Esquilino, dove per nove mesi la famigerata Banda Koch, prima di concludere la sua fosca traiettoria a Milano, a Villa Fossati, torturò centinaia di antifascisti (come Pilo Alberelli, poi trucidato alle Fosse Ardeatine)[55].

 

Delle tre condizioni dell’epica contemporanea proposte all’inizio, il lavoro recente di Giorgio Falco con Sabrina Ragucci mi pare ne realizzi due: il riferimento alla collettività storica, in luogo del destino individuale, e quello alle condizioni originarie di tale forma di vita sociale. Ma la loro, da quest’ultimo punto di vista, è un’epica rovesciata. Non è infatti, come quella dell’epica arcaica, il racconto di fondazione della società che appartiene al nostro passato. È la storia, invece, di come quella forma di vita, entro cui siamo nati e abbiamo vissuto, sia morta; e, insieme, di come sia iniziata, da qualche parte nel tempo che si estende sino al nostro presente, la forma di vita che ci toccherà in sorte nel tempo a venire.

 

 

Il libro:

Etica e fotografia, Potere, ideologia, violenza dell’immagine fotografica, a cura di Raffaella Perna e Ilaria Schiaffini

 

Leggi anche su doppiozero la recensione di Arturo Mazzarella su Condominio Oltremare

 

 

[1] Per uno sguardo su questi temi recente e assai comprensivo, oltre che concettualmente del tutto contemporaneo, si veda Guido Mazzoni, Teoria del romanzo, Bologna, il Mulino, 2012. Sintomatico del “desiderio epico” della nostra epoca è l’assai fortunato, ma alquanto confuso e del tutto fuorviante, Wu Ming, New Italian Epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Torino, Einaudi, 2009.

[2] Aldo Nove, Un’epica pausa caffè tra guardie giurate e baristi innamorati, «Tutolibri», 8 maggio 2004. Per un’introduzione all’opera narrativa di Giorgio Falco, con sussidi bibliografici, rinvio al capitolo che lo riguarda nell’antologia da me curata La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero (1999-2014), Roma, L’orma, 2014, pp. 437-65.

[3] È sintomatico dell’evoluzione della poetica di Falco che egli sia tornato di recente a descrivere questi ambienti, e questo periodo della sua vita, in tutt’altra forma e con tutt’altro tono: in Sottofondo italiano, Roma-Bari, Laterza, 2015.

[4] Elio Pagliarani, La pietà oggettiva, in Id., Lezione di fisica [1964], in Id., Tutte le poesie. 1946-2005, a cura di Andrea Cortellessa, Milano, Garzanti, 2006, pp. 167-9. Il titolo La pietà oggettiva ha preso anche un’antologia delle poesie di Pagliarani curata da Plinio Perilli per la Fondazione Piazzolla nel 1997.

[5] Elio Pagliarani, La ragazza Carla [1960], in Id., Tutte le poesie, cit., p. 137. Giorgio Falco su Pagliarani: in Ma dobbiamo continuare. 73 per Elio Pagliarani a un anno dalla morte, a cura di Andrea Cortellessa, Savigliano, Aragno, 2013, p. 56 («[…] Guardavo dal finestrino del treno case, alberghi indecisi se essere pensioni oppure hotel, dalle insegne con i nomi di donna, edifici compatti nel tamponare la visuale verso il mare: è tutto un Rimini nord, scriveva in Pagliarani Elio del ’90. Per me è diventato più che un modo di dire. Lo ripeto quando mi smarrisco negli svincoli o sbaglio una stazione o perdo qualcosa nello zaino, e frugo a due mani, per cercare»). Pagliarani Elio è la “voce” scritta dall’autore per l’Autodizionario degli scrittori italiani curato da Felice Piemontese, Milano, Leonardo, 1990; si legge ora in Id., Tutte le poesie, cit., pp. 461-3.

[6] Michele Smargiassi, Quel bene perduto che corrode Milano, «la Repubblica», 19 maggio 2009.

[7] In un’importante intervista rilasciata a Maddalena Graziano nell’aprile 2010 sul sito «Stephen Dedalus» (e oggi non più consultabile), Falco precisava ulteriormente l’ubicazione di Cortesforza: «in un luogo topografico molto preciso, diciotto chilometri a sud ovest di Milano, sulla direttrice del Naviglio Grande».

[8] Giorgio Falco, Alba, in Id., L’ubicazione del bene, Torino, Einaudi, 2009, p. 102.

[9] «Bolle d’immanenza», ha definito simili spazi Marc Auge, il fortunato teorico dei «non luoghi»: cfr. per esempio Disneyland e altri nonluoghi [1997], traduzione di Alfredo Salsano, Torino, Bollati Boringhieri, 1999 («Il non-luogo […] è il contrario del luogo, uno spazio in cui colui che lo attraversa non può leggere nulla né della sua identità (del suo rapporto con se stesso), né dei suoi rapporti con gli altri o, più in generale, dei rapporti tra gli uni e gli altri, né a fortiori della loro storia comune»: p. 75).

[10] Cfr. Peter Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale [2005], a cura di Gianluca Bonaiuti, traduzione di Silvia Rodeschini, Roma, Meltemi, 2006.

[11] Giorgio Falco, Alba, cit., p. 109.

[12] Id., Oscar, ivi, p. 54.

[13] Jean-Luc Nancy, Il senso del mondo [1997], a cura di Federico Ferrari, Milano, Lanfranchi, 1997, p. 13.

[14] Rinvio ad Andrea Cortellessa-Aldo Nove, Le isole, la campana. La lingua del precariato, «alfabeta2», 2, settembre 2010, pp. 31-2.

[15] Giorgio Falco, Oscar, cit., pp. 59-60.

[16] Ivi, p. 57.

[17] Ancora dalla citata intervista a Maddalena Graziano.

[18] Cfr. Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia [1931], in Id., Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di Andrea Pinotti e Antonio Somaini, Torino, Einaudi, 2012, pp. 229-30.

[19] «la rivelazione svela una cosa diversa da quella che la latenza ci aveva fatto credere, qualcosa che non avevamo visto e che necessariamente è stata lì»: Philippe Dubois, L’atto fotografico [1983], a cura di Bernardo Valli, Urbino, Quattroventi, 1996, p. 162.

[20] Ancora dalla citata intervista a Maddalena Graziano.

[21] Philippe Dubois, L’atto fotografico, cit., p. 60.

[22] Franco Tomasi, Immagini della metropoli padana ne L’ubicazione del bene di Giorgio Falco, in La geografia del racconto. Sguardi interdisciplinari sul paesaggio urbano nella narrativa italiana contemporanea, a cura sua e di Davide Papotti, Bruxelles, Peter Lang, 2014, p. 94n.

[23] Ivi, p. 96.

[24] Sempre dalla citata intervista a Maddalena Graziano.

[25] Cfr. Giorgio Falco, La gemella H, Torino, Einaudi, 2014, pp. 56 sgg.

[26] Emanuele Trevi, I frutti laboriosi di un piccolo peccato, «Corriere della Sera», 2 marzo 2014.

[27] Giorgio Falco, La gemella H, cit., p. 126.

[28] Cfr. ivi, pp. 65 sgg.

[29] Ivi, p. 124.

[30] Ivi, p. 322.

[31] Ivi, p. 124.

[32] Ivi, p. 283.

[33] Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia, ed. cit., p. 240. Cfr. Augusto Somaini, Un atlante su cui esercitarsi. Walter Benjamin interprete di Menschen des 20. Jahrhunderts di August Sander, «Engramma», 100, settembre-ottobre 2012 (http://www.engramma.it/eOS2/index.php?id_articolo=1135). Un’edizione italiana recente degli Uomini del ventesimo secolo, con introduzione di Alfred Döblin, è stata proposta nel 2012 da Abscondita, nella traduzione di Angelica Tizzo.

[34] Cfr. Giorgio Falco, La gemella H, cit., p. 286.

[35] Ivi, p. 276.

[36] Ivi, p. 311.

[37] Ivi, p. 295.

[38] Inserisce il lavoro di Ragucci nell’Attualità del documentario William Guerrieri, in Luogo e identità nella fotografia italiana contemporanea, a cura di Roberta Valtorta, Torino, Einaudi, 2013, pp. 244-5.

[39] Cfr. Michele Cometa, Fototesti. Per una tipologia dell’iconotesto in letteratura, in La fotografia. Oggetto teorico e pratica sociale, a cura di Isabella Pezzini, Roma, Nuova Cultura, 2011, pp. 63-101; per un discorso sull’insubordinazione rinvio al mio Tennis neurale. Tra letteratura e fotografia, in Arte in Italia dopo la fotografia: 1850-2000, Catalogo della mostra a cura di Maria Vittora Marini Clarelli e Maria Antonella Fusco, Roma, Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea, 21 dicembre 2011-4 marzo 2012, Milano, Electa, 2011, pp. 34-59.

[40] Jan Baetens-Hilde van Gelder, Petite poétique de la photographie mise en roman (1970-1990), in Photographic and Romanesque, numero monografico a cura di Daniele Meaux di «Etudes romanesques», X (2006), pp. 265-6 (cit. in Silvia Albertazzi, Il nulla, quasi. Foto di famiglia e istantanee amatoriali nella letteratura contemporanea, Firenze, Le Lettere, 2010, p. 125).

[41] Frances A. Yates, L’arte della memoria [1966], con uno scritto di Ernst H. Gombrich, traduzione di Albano Biondi, Torino, Einaudi, 1993, p. 4.

[42] «Il sottofondo scava nell’intimo di ognuno di noi, per trasportarci in superficie, nel sottofondo commerciale così invasivo da non farci sentire il destino comune, il senso di prigionia di una nuova stagione ritmata dai jingle, dalle promozioni. Barattiamo il silenzio che precede la lotta con una ninna nanna. Eppure crediamo ancora di governare la superficie ininterrotta, che invece ci compone […], e il sottofondo dominante, che pensavamo relegato in secondo piano, diventa la vita»: Giorgio Falco, Sottofondo italiano, cit., p. 3.

[43] Giorgio Falco-Sabrina Ragucci, Condominio Oltremare, Roma, L’orma, 2014, p. 11.

[44] Cfr. Robert P. Harrison, Il dominio dei morti [2003], con un contributo di Andrea Zanzotto, traduzione di Pietro Meneghelli, Roma, Fazi, 2004.

[45] Ivi, p. 21

[46] Ivi, p. 121.

[47] Ivi, pp. 122-5.

[48] Cfr. Italo Calvino, Dall’opaco [1971], in Id., Sotto il sole giaguaro [1986], ora in Id., Romanzi e racconti, edizione diretta da Claudio Milanini, vol. III, Racconti sparsi e altri scritti d’invenzione, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, 1994, pp. 89-101.

[49] Elio Pagliarani, La ballata di Rudi [1995], in Id., Tutte le poesie, cit., p. 336.

[50] Lo si legge ora nella bella edizione bilingue a cura di Alide Cagidemetrio: L’angolo bello, Venezia, Marsilio, 2011.

[51] Cfr. Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, traduzione di Renzo Guidieri, Torino, Einaudi, 1980, p. 78.

[52] Giorgio Falco-Sabrina Ragucci, Condominio Oltremare, cit., pp. 104-7.

[53] W.G. Sebald, Camposanto, in Id., Le Alpi nel mare [2003], traduzione di Ada Vigliani, Milano, Adelphi, 2011, pp. 50-1.

[54] Giorgio Falco, Sottofondo italiano, cit., p. 11.

[55] Cfr. Massimiliano Griner, La «banda Koch». Il reparto speciale di polizia 1943-44, presentazione di Mimmo Franzinelli, Torino, Bollati Boringhieri, 2000; in particolare sulla sede della banda cfr. http://www.lalottacontinua.it/Gruppi-di-lavoro2/Progetto-Memoria/La-Storia-Negata/Koch-e-la-Pensione-Oltremare. È tuttora, questo, un luogo pressoché dimenticato nelle pieghe della città (a differenza del non lontano carcere di Via Tasso, a partire dal 1955 divenuto sede del Museo Storico della Liberazione), che attualmente ospita alcuni piccoli alberghi e la sede di produzione di Radio Radicale. Finalmente il 25 aprile 2012, sul marciapiede antistante l’ingresso (dopo un lungo contenzioso con la giunta Alemanno, ma anche col condominio dello stabile…), l’ANPI è stata autorizzata a collocare una targa commemorativa.

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