Speciale
Sotto il segno di Hiroshima / Tokyo, 1964
Chi si ricorda oggi di Yoshinori Sakai? Era il 10 ottobre 1964 e al Kokuritsu Kasumigaoka Rikujō Kyogijō, lo Stadio nazionale olimpico di Tokyo, si svolgeva la cerimonia di apertura delle XVIII Olimpiadi. A portare nell’ultima frazione la torcia olimpica che avrebbe acceso al tripode dello stadio la fiamma olimpica, toccò proprio a lui, a Yoshinori Sakai che aveva compiuto diciannove anni il precedente 6 agosto e che diciannove anni prima era nato a Hiroshima un’ora dopo lo scoppio della bomba atomica. Tutto questo aveva un significato in un certo modo sacrale. Il Giappone era il primo paese asiatico a ospitare un’Olimpiade e lo faceva finalmente dopo che già nel 1938 aveva dovuto rinunciare all’organizzazione dell’edizione prevista nel 1940, a causa delle pressioni internazionali conseguenti all’invasione della Cina da parte dell’esercito nipponico. Nel 1940 le Olimpiadi comunque non si erano tenute né a Tokyo né ad Helsinki, che ne aveva preso il posto, e dai giochi del 1948, a Londra, i giapponesi, come i tedeschi, sui quali pesava l’infamia di aver scatenato il secondo conflitto mondiale, ne furono esclusi. Vennero però riammessi dal CIO nel 1950 e due anni dopo gareggiarono ad Helsinki. Nel 1955 presentarono addirittura la candidatura per ospitare i giochi che gli vennero assegnati per la XVIII edizione, quella del 1964, dopo aver avuto la meglio sulle candidature concorrenti di Detroit, Vienna e Bruxelles.
Che il Giappone nel dopoguerra fosse un’altra nazione rispetto a quella, tradizionalista, misteriosa e un po’ incomprensibile di cui l’Occidente ne conservava memoria, gli inviati alle Olimpiadi di Tokyo lo capirono in fretta. Il trattato di pace con gli Stati Uniti che, dopo la resa nipponica, l’indomani di Hiroshima e Nagasaki, di fatto avevano preso il paese sotto il loro comando militare e politico, fu ratificato solo nel 1952 e solo da quel momento il Giappone riacquisì la sua piena sovranità. Ma bastò poco più di un decennio al Paese del Sol Levante, per l’appunto, a risollevarsi rilanciando un’economia tutta basata su un frenetico sviluppo industriale e un progresso tecnologico che lasciava stupefatti per l’efficienza. A partire dalla bellezza e modernità degli impianti olimpici, in particolare lo Yoyogi National Gymnasium, il palazzetto del nuoto e dei giochi acquatici, costruita nel quartiere di Shibuya, e il villaggio olimpico, immerso nel verde.
La cerimonia di apertura, e tutto il resto della manifestazione, vennero trasmessi per la prima volta in Mondovisione. Spirito tradizionalista e avveniristica spettacolarità si combinarono in un effetto sinestetico: al rullo assordante di diecimila tamburi si unirono le evoluzioni acrobatiche di una pattuglia aeronautica a tracciare con scie di fumo i cinque cerchi, mentre nello stadio si espandeva l’essenza di crisantemo, fiore simbolo del Giappone.
Ma rispetto al calore popolare e partecipato di Roma 1960, quattro anni dopo a Tokyo la cornice di pubblico, per quanto numericamente imponente, apparve più fredda e distaccata, quasi una quinta doverosa a un evento non percepito davvero fino in fondo come proprio. Anzi, in qualche caso sentito come un’invadenza quasi ostile. Accadde per esempio nella finale del judo, disciplina ammessa per la prima volta nel programma olimpico, proprio in omaggio al paese ospitante che ne è la culla. Per i giapponesi “l’arte sottile” è una sorta di religione e altissime erano le aspettative di successo completo in tutte e quattro le categorie di peso. Dopo aver visto salire sull’asta più alta la bandiera col Sol Levante nelle categorie dei pesi leggeri, medi e massimi, il palazzetto del Nippon Budokan ammutolì quando nella categoria regina, quella open, Akio Kaminaga, una sorta di eroe nazionale, venne atterrato e soverchiato dall’olandese Anton Geesink, che era alto due metri e pesava trenta kg più dell’avversario. Il popolo giapponese sprofondò nello sconforto collettivo, e si sfiorò qualcosa di analogo al Maracanazo dei Mondiali di calcio del 1950, quando il Brasile perse in casa la finale contro l’Uruguay. Per fortuna l’onta subita dall’orgoglio nazionale venne riscattata dalla vittoria nella pallavolo, altro sport esordiente alle Olimpiadi, dove la rappresentativa femminile, reclutata con metodi e allenamenti a dir poco coercitivi tra le operaie di una fabbrica tessile, arrivò a conquistare la medaglia d’oro.
Tra le 93 nazioni presenti non c’era il Sudafrica, espulso dal Cio per stigmatizzare le discriminazioni razziali che venivano applicate in quel paese anche nello sport, ma era presente lo Zambia, cui venne formalmente riconosciuta l’indipendenza proprio nel giorno di apertura dei Giochi e i cui atleti, durante la cerimonia inaugurale, danzarono e cantarono come se fosse la loro festa. Non fu una buona notizia invece quella che, alla fine delle Olimpiadi di Tokyo, venne riconfermato ai vertici del Cio, con una spregiudicata interpretazione dei regolamenti olimpici, l’americano Avery Brundage, già padre-padrone della politica sportiva internazionale fin dal 1952. Rimase in carica addirittura fino al 1972 e diede il peggio di sé, con il suo ottuso autoritarismo oscurantista, ai Giochi Olimpici di Città del Messico, scossi dalle proteste studentesche soffocate nel sangue e dalla clamorosa protesta antisegregazionista di Tommie Smith e John Carlos, sul podio dei 200 m.