Napoli. Morte di un museo
Sono state molte le inaugurazioni del Madre. La prima, nel giugno del 2005, aveva aperto le sale di Palazzo Donnaregina per mostrare alla città e al mondo, da sempre interlocutore privilegiato del museo, come l’avventura transitoria delle installazioni a piazza Plebiscito, le numerose incursioni del contemporaneo al museo archeologico e a Capodimonte, i progetti degli Annali delle Arti avessero trovato finalmente domicilio stabile, arché e cominciamento, nel recinto saldo del museo. Poi è stata aperta la collezione permanente, frutto in comodato di una paziente tessitura di rapporti internazionali, si è dato l’avvio all’attività delle mostre – quella di Kounellis, con la riproposizione dei cavalli dell’Attico, fu un esordio spettacolare – quindi sono stati inaugurati gli spazi della project room, molto vivace e per alcuni versi esemplare, e ancora la biblioteca, la mediateca, i laboratori didattici.
Insomma, nel giro di qualche anno, di molte mostre e, non c’è dubbio, di tanti finanziamenti, il Madre, punto di arrivo e di nuova partenza della politica culturale promossa da Antonio Bassolino, sembrava aver conquistato appieno il suo statuto di museo, un’istituzione pubblica che conserva produce e comunica l’arte e il suo racconto, facendosene garante, creando le condizioni perché le pratiche artistiche siano prima di tutto pratiche di conoscenza e occasioni di nuova socialità. Un progetto ambizioso, interpretato magari con poca pazienza e forse senza troppo pensare al futuro – infelice la scelta di non dotarsi di un personale stabile, fatta eccezione per il direttore, Eduardo Cicelyn - che oggi, di fronte ai mutamenti dello scenario politico e alle aggressioni di uno spoil system intransigente, rischia di venire inesorabilmente travolto. Le dimissioni del Consiglio di Amministrazione, indisponibile ad accogliere i duri cambiamenti statutari proposti dalla Regione Campania, che di fatto concentra ogni potere nelle proprie mani, nominando non solo Cda e Direttore ma anche, indirettamente, il neonato “Comitato Consultivo per l’arte e la cultura”, il taglio drammatico dei finanziamenti, unico esito certo in un estenuante gioco di accuse e controaccuse tra museo e Regione; il malessere crescente dei prestatori, molti dei quali nelle ultime settimane hanno manifestato l’intenzione di revocare l’affidamento al Museo delle proprie opere, essendo venute meno le condizioni di fiducia e di sicurezza che lo avevano reso possibile, sono i progressivi segnali di un processo di decomposizione micidiale.
Così, come per tappe si era andato definendo il profilo di successo internazionale del Madre, ora è per successive amputazioni che il corpo, per nulla mistico, del museo viene ridotto ad una spoglia, un fantasma senza pace che ostinatamente mette in scena l’infinito braccio di ferro fra Cicelyn e i nuovi amministratori della Regione. Una partita in cui rischia di perdere tutta la città, che nel museo aveva trovato la risposta istituzionale a quella diffusa attenzione all’arte contemporanea che da oltre cinquant’anni segna, grazie anche alla presenza di figure carismatiche – una per tutte, Lucio Amelio – l’orizzonte culturale di Napoli. E mentre le stanze, amorevolmente restaurate da Alvaro Siza, si riempiono di polvere, le porte si chiudono e gli spazi si restringono per mancanza di cura e di risorse, le voci, pur numerose, che si erano levate a difesa del museo si vanno affievolendo, per scoramento o per ignavia, come se difendere un’istituzione fosse un’opportunità da valutare e non un obbligo civile. Così, mentre qualcuno si gode gli ultimi scampoli di Madrenalina, dj set per notti insonni al capezzale del museo, i più restano in attesa, dietro le transenne che non hanno mai lasciato via Settembrini, di veder caricare sui camion le casse con cui potranno tornare al privato degli atelier e dei depositi opere che sono state troppo brevemente pubbliche. Sempre che, ed è questa l’ultima, paradossale speranza, si trovino i soldi per assicurarne il trasporto…