Una Cinquecento alla conquista della Sila
“Mia madre aveva una Fiat Cinquecento gialla. Adesso non c’è più e non so nemmeno se ne facciano ancora. Lei era alta, bella e forte quando usciva da quella macchina piccola piccola. Ogni volta che la guidava pareva avesse affrontato una tempesta in mare.”
Nelle pagine di ringraziamento, a corredo del romanzo, l’autrice Enrica Ferrara scrive che l’incipit di Mia madre aveva una Cinquecento gialla (Fazi Editore, 2024) “è comparso a intermittenza nel baluginio del Mare d’Irlanda”, dietro al finestrino del treno costiero che corre lungo la baia di Dublino.
Quel mare lontano, che ispira l’inizio del racconto, tornerà in filigrana, nel finale della storia, ricongiungendo i piani di una narrazione che procede lungo il crinale della finzione letteraria sconfinando nella verità storica, o forse è quest’ultima che la invade, indirizzandone risvolti e letture.
“Scrivere la verità non è facile, soprattutto se si è stati costretti a tacerla da sempre” aggiunge l’autrice, spiegando come il libro sia venuto alla luce dopo anni di incubazione e lasciando intendere le complessità del maneggiare una materia calda, fragile, personale.
La voce che esordisce nel romanzo tratteggiando l’immagine della madre e della sua utilitaria colorata è Gina, che all’inizio degli anni Ottanta ha dieci anni e vive con la famiglia – madre, padre e sorella – nella Napoli patinata dell’alta borghesia, tra scuole private e salotti buoni del capoluogo campano.
Questo fino all’estate del 1980, quando suo padre, direttore del Banco di Napoli e tra le prime file della Democrazia Cristiana, svanisce nel nulla, mentre su tutti i giornali compare la sua faccia e accanto al suo nome, Mario Carafa, si srotola l’elenco delle accuse pendenti: riciclaggio di fondi pubblici, truffa aggravata, associazione a delinquere…
Il piccolo mondo di Gina comincia a franare, a scuola i compagni le fanno un vuoto intorno, in cui galleggiano sguardi furtivi, risatine, parole bisbigliate, gli amici di famiglia si negano al telefono e la madre continua a guidare la sua Cinquecento, ma sembra perdere via via un po’ della sua forza, mentre si ritrova sola, impotente, disperata, arrabbiata.
La prima volta che in quella nebbia compare una spiegazione arriva dalla madre e insieme arriva anche la prima delle nuove parole che servono a scrivere quella realtà capovolta: “«Vogliono fare di papà un capro espiatorio». Quando mamma pronunciò quella parola mi distrassi dall’orribile ipotesi che mio padre potesse essere un ladro. Adoravo le parole nuove. E questa era lunga, esotica. E soprattutto aveva dentro la parola spia che era meglio, molto meglio, della parola ladro”.
Dopo questa ne verranno altre: terroristi, brigatisti, braccio armato, società fantasma. Sono parole pesanti, colossi impenetrabili, enigmi da decifrare, con cui familiarizzare per cavarne fuori una qualche risposta.
Gina, che sogna di fare la scrittrice, le memorizza, le scompone, le ricostruisce. Durante una lunghissima estate calabrese le scrive sulla sabbia, se ne appropria, e queste diventano il lessico di un vocabolario allargato, le mette in fila, una dopo l’altra, lo scheletro di una storia che non conosce e che la contiene, insieme a misteriosi racconti di omicidi, tradimenti, attentati, mafia, bombe e paura.
Le parole riflettono l’ambiguità di una realtà mutevole e sfuggente, come “Latitante”, termine che in Gina evoca l’immagine di un eroe immortalato di profilo, in un atto di fuga, “quella di uno che si mette di lato e, così facendo, compie azioni grandiose”, e spalanca una dimensione decisamente più eroica di quella che emerge dalle parole scritte in lettere piccole sul vocabolario, che tratteggiano la figura di un uomo assente, colpevole, che fugge e si nasconde, che manca e non si assume le sue responsabilità.
Gina cerca la verità come una rabdomante, dissotterra pezzi di una piccola storia famigliare che va letta in controluce, davanti alla storia di una nazione, quella degli anni Ottanta, piena di buchi, strappi, ellissi, aporie, di “anni di grande violenza, nelle cose e nelle parole”, con “la lingua opaca dei politici democristiani che faceva da schermo costante alla verità”.
La ricerca di una verità nascosta, dissimulata, doppia, è alla base di una storia che da questa duplicità è pervasa sin dall’inizio: “questo romanzo è opera di finzione, ma prende spunto da una vicenda realmente accaduta che ha al centro la storia di mio padre” si legge nella nota al testo, è “il frutto di un intreccio tra realtà e finzione in cui, per parafrasare quanto scrive Leonardo Sciascia, la “verità” potrebbe essere stata «generata dalla letteratura»”.
E il nome dell’autrice si ribalta, nel romanzo, nell’alter ego creato per Gina (Enrica Coffey), un altro doppio, la copertura per viaggiare in incognito sulle tracce del padre.
Sono viaggi che sembrano fughe o inseguimenti, costellano la storia e disseminano la vita di una bambina, quasi preadolescente, di segreti, pericolo e avventura.
“Con quel volo per la Sardegna, non avevamo solo accorciato la distanza fra un continente e un’isola, avevamo fatto molto di più. Eravamo saltate nel mondo della finzione, così, con uno schiocco di dita…”, pensa Gina, mentre cerca di rimettere insieme i pezzi della sua vita vecchia e accarezza la promessa di una vita nuova, tutta da inventare.
Così, l’aspirante scrittrice si trova precipitata dentro un romanzo noir, un giallo politico, una rocambolesca storia di viaggi sotto falso nome, azzardi e raggiri: “Betta e io, durante il mese in Sardegna, eravamo diventate quei personaggi di carta e di luce e avevamo capito che non ci voleva proprio niente a saltare di là. Dall’altra parte del confine che separa realtà e finzione”.
Gina fatica a mantenere il segreto, mostra tutto il disagio che prova nel dover proteggere chi ama attraverso l’inganno, le bugie, desidera disperatamente qualcuno con cui condividere una verità che non sa maneggiare e dalla quale si sente soverchiata.
Il bisogno di dipanare quel groviglio di parole e contraddizioni la accompagnerà lungo l’intero arco narrativo che, rispettando la costante del doppio, si biforca sin dall’inizio in due linee temporali: il racconto di Gina a dieci anni, che cerca di sopravvivere alle improvvise deflagrazioni nella sua vita e alla spaccatura scavata dall’assenza del padre, e quello di Gina sette anni dopo, quasi adulta, che lo incontra di nuovo e prova a ricollegare i punti, a dar conto della storia del padre e della propria senza di lui. E talvolta i racconti, entrambi in prima persona, entrambi al passato, si sovrappongono, quando il discorso con il padre innesca analessi e ricostruzioni di una memoria ferita e disseminata di buchi.
Mario Carafa per le figlie è “Papaone”, figura gigantesca tanto nella presenza quanto nella mancanza, mitizzato prima e dopo la sua fuga. Assente ben prima della latitanza, così assiduamente impegnato con la politica, le cene istituzionali, il lavoro, e costantemente presente dopo, nell’angoscia dell’incertezza, pensiero fisso che si muove alla cieca e non trova indirizzo né riposo.
Il padre è un vuoto, un mistero, un punto di domanda che si allarga in ogni direzione: “mi resi conto che ero andata a cercarlo per fare chiarezza e invece capivo sempre meno – pensa Gina nel 1987, quando decide di rivedere il padre dopo anni –. Desideravo, più di ogni altra cosa, fare luce. Avrei voluto che mi spiegasse una volta per tutte le ragioni per cui la vita che conoscevo fino al 1980 era stata rivoltata come un guanto, accartocciata e gettata via. Questa Gina di ora era emersa dalle macerie di una famiglia squassata da un terremoto politico di cui non si conosceva l’epicentro. Dovevo venirne a capo, arrivare al cuore del problema”.
Il problema che la interroga è un mistero politico più grande di lei, ma al cospetto di quell’uomo inafferrabile e lontano, la domanda che le si fa spazio dentro riguarda la perdita del padre e il suo esistere, crescere, diventare adulta dentro questo vuoto.
Per Gina il padre è uno dei cardini fondamentali nella costruzione della realtà: un uomo forte, solido, sicuro, dalle certezze granitiche e dalle rigide convinzioni, una figura mitica, eroica, positiva. Nel momento questa narrazione vacilla, vacilla anche l’universo di senso sui cui, ancora bambina, ha iniziato a edificare la sua storia e la sua identità, e tutte le contraddizioni e il dolore accumulato negli anni tornano a chiedere il conto, quando finalmente arriva l’occasione di un confronto con lui: “l’adulta gli teneva il gioco ma la bambina strillava dentro di me. Non si rendeva conto della voragine che la sua assenza aveva scavato nella mia vita? Quegli anni di attesa, a immaginarlo in fuga, morto in un burrone; anni di orrore, a sentirmi in colpa, odiare me stessa, odiare mia madre che non ci aveva permesso di seguirlo; anni di dubbio, a chiedermi se la donna che stavo diventando sarebbe stata la stessa che lui avrebbe aiutato a crescere” […] “la verità è che non mi sentivo degna del suo amore, degna di una spiegazione. Avevo paura che l’avrei perso di nuovo, come se le mie azioni veramente avessero un peso nella sua vita.”
Pare questo, dunque, il vero fulcro della narrazione, di questo romanzo di formazione che, sostenuto da una realtà storica all’altezza dell’invenzione letteraria, del genere conserva una certa epicità del racconto, una forte prossimità allo sguardo di chi racconta e un’evoluzione del punto di vista che si estende a mano a mano che la protagonista conquista discorsi e parole per leggere il mondo, sé stessa e la sua storia.
Il romanzo circoscrive un periodo limitato della vita di Gina, durante il quale lei deve misurarsi con le prime relazioni extra familiari e con i grandi concetti di amicizia, fiducia, verità, vissuti nella dimensione assoluta e dicotomica che questi assumono tra l’infanzia la pre-adolescenza; fa conoscenza con nuovi aspetti del femminile, con cambiamenti ed evoluzioni che seminano domande e desideri.
Il già delicato processo di costruzione della propria identità è destabilizzato da scosse violente e letterali detonazioni (il terremoto dell’Irpinia, che frantuma le finestre del loro appartamento e fa tremare ogni cosa, la sparatoria in una masseria, la bomba nel vano ascensore…), dirottato dalla doppia vita con nomi esotici e false identità e ostacolato dalla figura ingombrante del padre, portatore di una verità che improvvisamente cede senza lasciare appigli.
Nella linea narrativa che la vede, diciassettenne, raccogliere il racconto e le confessioni del padre, Gina prende coscienza della debolezza, della paura e della fragilità di quell’uomo così imponente e massiccio (“non era un uomo forte, lui. Non lo era mai stato…”). Ridimensionando la figura paterna, toccandone con dolore i limiti, gli errori, la fallibilità, Gina può finalmente abbandonare il mito del padre per riprendere possesso della sua storia.
E in questo gioco di equilibri e dicotomie riacquista forza e valore la figura della madre, colorata, tenace e affidabile come la sua Cinquecento gialla.
Se l’incipit del libro immortala in un’istantanea la madre con la sua Cinquecento, il secondo capitolo comincia così: “Mio padre aveva un Alfetta blu, che è la macchina dei camorristi, almeno secondo mamma”. L’Alfetta di “papaone” alle bambine sembra spaziale, con i sedili lisci e saponosi, i finestrini elettrici, il grande pannello di controllo e le cinque marce.
Il binomio Cinquecento–Alfetta riflette esplicitamente quello tra madre-padre, ma se all’inizio della storia Gina pare completamente sedotta dal fascino della comodità, della velocità, della potenza e del rigido controllo dell’Alfetta e di suo padre, finendo per credere davvero che la madre avesse una marcia in meno, come la sua utilitaria, l’evoluzione che il personaggio vive lungo il romanzo la porterà a ribaltare la sua visione.
L’immagine della Cinquecento che conquista la Sila, nella seconda parte del romanzo, è allegoria manifesta della forza e della resilienza di un femminile a cui non serve una marcia in più, che alla corsa sfrenata e solitaria contrappone l’avanzare insieme, e trova il modo restare, anche quando si deve andare via.