Architettura come paesaggio / Il Crematorio di Aalst

5 Marzo 2022

Uno dei paradossi dell’architettura del paesaggio sta nel fatto che i progetti di maggior successo sono anche quelli che saranno meno visibili. Laddove un sito accoglie le persone in modo apparentemente “naturale”, le difficoltà e gli interventi che hanno portato a questo risultato lasciano il posto a una realtà che viene accettata come tale. Mentre l’oggetto architettonico esibirà sempre l’artificialità del gesto a cui è dovuto (l’architettura porta con sé l’iscrizione: “I am a Monument”), ciò che si impone come risultato dell’architettura del paesaggio tenderà a far dimenticare l’intervento stesso. Una delle conseguenze di questa differenza (all’interno delle discipline di progetto) è proprio la non comprensione dell’architettura del paesaggio in quanto tale, l’idea che ciò che avviene intorno agli edifici, o negli interstizi, rappresenterebbe in definitiva soltanto il riempimento meccanico di spazi soprannumerari.

 

 

Il progetto del Crematorio di Aalst, in Belgio, inaugurato nel 2019, è particolarmente istruttivo a questo proposito. Senza minimizzare in alcun modo il ruolo fondamentale dell’architettura, cioè la struttura “dura” del suddetto Crematorio, progettata dallo studio olandese Kaan Architecten, vorremmo concentrarci sull’attività esemplare dell’architettura del paesaggio in questo contesto. Non che l’imponente costrutto realizzato dagli architetti giocando, fra l’altro, con la figura del quadrato, non fosse di grande interesse. Questo edificio dedicato alla morte appare anzi esemplare, poiché riesce con la sua purezza a trasformare la morte contemporanea in uno spettacolo che utilizza tutti i mezzi del design per fare dimenticare di cosa si tratti. L’ultimo saluto e la cerimonia della cremazione avvengono in un ambiente ex-territoriale che, estetizzando il rito terminale, lo trasforma in un rituale che assomiglia a quanto può succedere in un ristorante o in un museo. 

 

 

Il punto di partenza del progetto era assai complicato: da un lato, il Crematorio è ubicato in un ambiente pianeggiante vicino a importanti infrastrutture ed edifici industriali, una realtà che doveva restare invisibile nella zona pensata come nuova casa dei morti. D’altro lato, perché l’architettura elegante e di grande qualità realizzata da Kaan Architecten apparve da subito come l’espressione di un rapporto radicalmente nuovo con la morte. Conferendo all’architettura del Crematorio una forma scultorea, creando un’atmosfera insolita al suo interno, lontana dalla cupa tradizione dei luoghi di sepoltura, favorendo l’apertura e la generosità spaziale, integrando nel complesso una caffetteria che ricorda piuttosto un museo di arte moderna e utilizzando un design minimalista, l’architettura indica un modo diverso di “vivere” la morte. Grazie al complesso di Kaan Architecten, la morte si annuncia, in altre parole, come un fenomeno che rivendica una sua estetica specifica, mentre il sito circostante era inizialmente una brulla e desolata landa.

 

 

La prima cosa che spicca se si visita il complesso di Aalst è il fatto che la sorprendente varietà del paesaggio creato ex novo sia contenuta in un unico grande insieme. Erik Dhont e i suoi collaboratori hanno disegnato un vasto temenos postmoderno, un territorio sacro (in senso religioso, ma non solo) che si discosta dal paesaggio circostante. Questa separazione, realizzata grazie a una pendenza di quasi cinque metri di altezza, annulla difatti l’esteriorità e costituisce, nel contempo, un nuovo centro declinato in vari micro-centri. Mentre all’interno di questo centro generale tutto è segnato dal tema essenziale della morte, svariati spazi accuratamente progettati rappresentano altri centri. Il visitatore ha, in altre parole, la possibilità di passare attraverso l’edificio-centro (e lo spazio in cui assiste alla cerimonia), ma può anche accedere a un sottospazio particolare (che servirà da centro, poiché è lì che il suo caro defunto sarà deposto), oppure troverà le tracce dell’estinto ai bordi di un vasto stagno (in questo caso, il centro è simboleggiato da un microcosmo paesaggistico). La radicale de-contestualizzazione resa possibile grazie alla separazione fisica dal recinto principale funziona così come una condizione di possibilità per una diversa esperienza della morte. Non è più la morte brutta, lurida, biologica, unheimlich, ma una morte che, per quanto terribile, non esclude la possibilità di essere iscritta nel contesto di una forma di dialogo con la natura. 

 

 

Il vasto hortus conclusus che abbraccia letteralmente i visitatori è da intendersi in un senso antropologico e psicologico: entrando qui, le persone sono invitate a lasciarsi alle spalle il mondo esterno per privilegiare l’introspezione. O meglio: favorire, guidati da interventi paesaggistici sapientemente orchestrati, un atteggiamento che combini la difficoltà della vicinanza al defunto con il libero gioco dell’immaginazione reso possibile da un paesaggio progettato ad arte.

Tutto questo diventa più chiaro durante una breve passeggiata sul sito. Cominciamo con il parcheggio. Il fatto di non lasciare l’auto fuori dal recinto e di entrare nello spazio sacro può sembrare a prima vista sorprendente. Tuttavia, ha senso, poiché l’incontro tra l’esterno e l’interno in questa specie di limbo è destinato a toccare il visitatore appena arrivato e anche più tardi, quando se ne va. È qui che si manifesta l’antagonismo estremo tra i due mondi antitetici; ed è qui che avviene il passaggio dall’uno all’altro, un passaggio molto reale, visto quanto realmente è all’opera in un crematorio. Oltre alla sua funzione di zona-soglia non marcata, il parcheggio ci ricorda comunque che non siamo in un mondo idilliaco o “fantasy”.

 

Una volta attraversato l’edificio, il visitatore si trova di fronte a due sfere distinte. Può scegliere tra il paesaggio delle “tablettes” (piattaforme verdi) o quello del grande bacino o “stagno”. Ci sono quindi diverse topografie all’interno di questo stesso “mondo”. Il primo, quello delle piattaforme, è decisamente architettonico. Situato leggermente in alto, e composto da piccole elevazioni coperte di verde, ricorda il linguaggio delle fortificazioni. Il risultato è una composizione astratta e ben delineata. Un giro attraverso questa topografia scultorea rivela una struttura varia, ma nello stesso tempo seriale. Allacciandosi alla tradizione dell’ubicazione dei morti nei cimiteri moderni con le loro nicchie ma semplificando il gesto geometrico, le piattaforme assicurano una presenza assolutamente discreta del defunto. Una breve passeggiata basta ai famigliari per ritrovare, dopo alcuni passi, la traccia del defunto.

 

 

Poiché la collocazione delle ceneri disturba l’equilibrio naturale della vegetazione, una nuova semina rimetterà le cose in equilibrio. Il defunto arriva (metonimicamente), prende il suo posto, si integra, si mescola con la vegetazione, scompare quasi, ma ciò che resta è il fatto che abbia trovato il suo luogo terminale. Per la cultura europea, e più precisamente per quella belga, per la quale è essenziale sapere dove si finisce quando verrà meno la propria vita, questa semplificazione rappresenta già di per sé una piccola rivoluzione. Invece di rivendicare un posto per l’eternità, il defunto si ritrova nella terra-matrice che l’ha generato. L’operazione di semina in questa parte del parco si riferisce anche alla logica ciclica della natura stessa. Alla freddezza di una stele e alla serialità cimiteriale, questa serie di isolette oppone un insieme vivo che integra la morte in un ecosistema. Mentre in passato la morte imponeva spese assurde (anche in termini di energia), questa soluzione rispetta sia il defunto che la natura. Le piattaforme rappresentano un paesaggio in evoluzione che non obbedisce più alla forma definitiva e astratta del design funerario abituale. Le piccole isole evolvono e con loro i defunti. La temporalità è, in questo contesto, un aspetto importante: di visita in visita, di anno in anno, la piattaforma cambia, senza perdere la propria potenza espressiva. Per creare questa architettura di isole verdi, i materiali costruttivi sono stati recuperati direttamente dal sito, ciò che sottolinea ancora una volta l’idea di natura come ciclo e rigenerazione.

 

Il non addetto ai lavori ignora ovviamente le difficoltà che si celano dietro un simile, semplice progetto “verde”. Il team di Erik Dhont ha realizzato in questo caso una operazione di grande complessità che comportava, una volta elaborate le piattaforme, la loro modellizzazione in argilla, seguita dalla scansione (Cfr. Erik Dhont. Landscape Architects. Works 1999-2020, Hatje Cantz, Stoccarda 2021). Il rendering digitale è stato poi utilizzato come base per tradurre la forma in 3D sul terreno, in seguito un addetto ha tradotto il progetto sul terreno, compiendo il passaggio dall’astrazione alla concretezza. La precisione estrema di questo atto (e dell’intero processo) non rappresenta un lusso manierista: al contrario, testimonia la cura maniacale che caratterizza l’intero progetto.

 

 

Il secondo spazio creato ad arte è quello dello stagno, cioè un bacino artificiale di grandi dimensioni. Realizzare un lago ex novo è un gesto emblematico che ricorda sia la storica arte dei giardini che la tradizione più recente dell’architettura del paesaggio. Il laghetto, legato a doppio filo all’idea e alla presenza della morte, si è trasformato rapidamente da un luogo sterile di tipo terrain vague in un ecosistema vivente. L’acqua piovana raccolta dal nuovo edificio è stata utilizzata per riempirlo, un’azione che ha richiesto ben tre anni. Lo stagno, ora quasi completamente autosufficiente, attira gli uccelli migratori. Coloro che hanno scelto di riposare qui (oppure i loro famigliari) hanno deciso in fin dei conti di rimescolarsi con la natura. I morti fanno ormai parte dello stagno, sono lo stagno, e la loro presenza biochimica è probabilmente più duratura di quella di monumenti che prima o poi cadono in rovina. 

Esiste, infine, una terza zona verde integrata nell’insieme del sistema-crematorio, la “Valle”. Si tratta di una topografia leggermente collinare (siamo pur sempre in Belgio) creata da zero nell’asse della caffetteria. Questo nuovo paesaggio – ancora una volta un artefatto – non è concepito per i piedi, bensì per gli occhi. All’interno dell’edificio, guardando attraverso la vetrata, si scopre un piccolo mondo in miniatura con le sue forme, le sue pieghe, la sua vegetazione, il suo gioco di luci e ombre. Lo sguardo non si stanca mai mentre percorre questo piccolo universo di grande biodiversità che, proprio perché inaccessibile a piedi, prende le sembianze di uno spazio infinito. Una caratteristica importante di questa “valle” senza uso immediato è il senso di vuoto. Mentre altrove, nella sfera delle piattaforme e dello stagno, ci si concentrerebbe probabilmente su un punto (quello della persona cara defunta), qui ci si può dedicare alla meditazione all’insegna del tutto. 

 

Tali modalità paesaggistiche sono messe a disposizione dei visitatori senza alcun diktat. Pensiamo all’organizzazione militaresca che caratterizza tantissimi luoghi di sepoltura tradizionali con le loro divisioni in piazze, zone, reparti, ecc. Qui, al contrario, tutto è a disposizione del visitatore, e lo è in modo ciclico, poiché la fine della passeggiata dipende unicamente dalla volontà del visitatore. 

Erik Dhont non è l’unico ad aver dedicato tanto impegno a un luogo di morte. Vengono in mente i capolavori di Eric Miralles, a Igualada, in Catalogna, oppure il cimitero di Fürstenwalde, a Coira, realizzato da Dieter Kienast. Sia nei Grigioni, nel caso di Kienast, sia vicino a Barcellona, nel caso di Miralles, la natura esistente è stata di enorme aiuto per elaborare spazi inconsueti adatti al culto della morte. Ad Aalst, invece, Erik Dhont ha dovuto lavorare partendo da una tabula rasa. Diversamente dai suoi colleghi, il suo atto iniziale era plastico, e non paesaggistico. Dhont ha dovuto scavare, rimuovere, modellare, assemblare, e tutto ciò tenendo conto del lavoro degli architetti. Alla fine, ha rispettato, ma anche valorizzato e arricchito il lato architettonico. Basta mettersi al centro dell’edificio e guardare fuori per scoprire come l’insieme culmini nella vista del paesaggio sorto dal nulla quale un ultimo orizzonte. 

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