Speciale
I raiders autorizzati del mare
Oltre alla separazione incerta tra pirateria e pacifico commercio di uno statuto ambiguo per eccellenza, segnalato anche dal duplice nome non del tutto sovrapponibile nel significato, vive il pirata/corsaro. Nella prima accezione si tratta di predoni che, pur utilizzando navi e muovendosi sul mare per i loro assalti ai vascelli commerciali o alle città portuali, sono di fatto equiparabili ai banditi di terra. Tuttavia nel corso della storia, fin dall’epoca medievale sul Mediterraneo, alcuni tra i più capaci tra questi ricevono dai governi una patente da corsa per assalire i nemici con raid bellici. Uno dei più temuti fu Khayr al-Din, figlio di un rinnegato greco, che fin da giovane apprese insieme al fratello l’arte familiare della pirateria. Le sue prede furono da subito soprattutto i galeoni spagnoli in transito dalla Sicilia e la sua area di influenza si allargò a tutto il Mediterraneo occidentale, quando dalla piccola isola di Gerbe riuscì addirittura a prendere Algeri nel 1516 facendone la base di lancio per feroci scorrerie. Il pirata si trasforma ed ingigantisce donando la città conquistata a Solimano il Magnifico, impegnato nella sua avanzata di terra dai Balcani verso Vienna, e ricevendone in cambio nel 1534 il titolo di Grande ammiraglio della flotta ottomana. La guerra di corsa trova però la sua epica sull’Atlantico ed è dovuta alla tradizionale sottovalutazione della flotta rispetto all’esercito terrestre, quasi che quell’antico pregiudizio riscontrato in Platone continuasse ad operare a secoli di distanza. Vista la presenza di robusti imprenditori della rapina sembra più facile dotarsi di una flotta regolare legittimandoli con una “lettera di corsa” che li trasformi in dipendenti di stato come se non altri belligeranti ci si potesse aspettare sull’instabile mare. La distinzione tra il pirata e il corsaro viene stabilita per la prima volta sul piano formale con un trattato anglo-francese del 1495, l’Intercursus Magnus; la vicenda dei corsari termina con il formarsi di flotte militari stanziali, cominciato solo nel Seicento, e il parallelo esaurirsi dei convogli carichi d’oro, poi con il divieto di concessione delle patenti inserito nella Pace di Utrecht del 1713 e ratificato con un impegno più vincolante espresso nel Congresso di Parigi del 1856. I corsari torneranno allora ad essere i pirati ed il raid, loro forma privilegiata di guerra, subirà ancora il consueto interdetto morale.
Nonostante il bando della guerra di corsa stabilito dalle nazioni, essa riemerge ancora in frangenti particolari del Novecento. Un personaggio come Gabriele D’Annunzio, nel momento in cui viene affascinato dal demone della guerra capace di rinverdire la gloria dell’invasamento poetico, non può non cogliere proprio il raid quale forma più congeniale alle sue ispirazioni idealizzanti. Il gesto eroico di pochi eletti che sfidano il nemico preponderante, il pericolo e la morte, generando attorno a sé un’eco clamorosa rappresenta di certo una sirena seducente. Il vate praticherà allora quei lampi improvvisi e rapinosi, mentre tutto attorno il conflitto s’impantanava in una lenta carneficina, trasfigurando e nobilitando la Grande Guerra. Lunghi ozi veneziani con la Venturina da cui scuotersi per imprese dall’altissimo valore pubblicitario; si pensi al volo su Vienna dell’agosto 1918 che non comporta alcuna concreta opera di danneggiamento ma si esaurisce sul piano strettamente sintattico esaltando il raid in sé e per sé. Atto in fondo gratuito, fine senza fini come l’arte più pura, ormai condotta però nel campo contemporaneo dello spettacolo. Precedentemente D’Annunzio s’era imbarcato come marinaio volontario di uno dei tre Mas che da Venezia si volgono di nascosto, a rimorchio d’un cacciatorpediniere, verso la baia di Buccari, vicino Fiume, dove alla fonda si trovano alcune navi della marineria austriaca. La notte del 10 febbraio i dieci coraggiosi, ciascuno a bordo delle motosiluranti, protetti dalle tenebre del novilunio e ormai sganciati dalla nave pilota, si avvicinano all’obiettivo, lanciano i loro colpi tra le acque contro la più stazzata delle fregate e tornano indietro senza danno. Tre bottiglie contornate da un nastro tricolore restano a galleggiare sulle onde recando il messaggio, vergato dal poeta, “In onta alla cautissima flotta austriaca…”; verrà poi l’autocelebrazione effimera sul Corriere del sodale Albertini e definitiva con la Canzone del Quarnaro (“Siamo trenta su tre gusci,/ su tre tavole di ponte:/ secco fegato, cuor duro,/ cuoia dure, dura fronte,/ mani macchine armi pronte,/ e la morte a paro a paro./ Eia, carme del Carnaro!/ Alalà! vv. 4-11). È indubbio che l’aedo nazionalista abbia ripescato la più antica forma del raid nei suoi connotati canonici, eroici e pure beffardi: la giocherà ancora in proprio sempre a Fiume, con la presa stessa della città e poi con i suoi “uscocchi” pronti a far provvista sull’Adriatico, ma pure ne consegnerà la scintillante mitologia ai fascisti della Marcia su Roma.
La ripresa dei corsari italiani sul Mediterraneo avviene negli anni in cui Galeazzo Ciano, figlio di quel capitano Costanzo che comandava uno dei Mas verso Buccari, diviene ministro degli esteri e con Mussolini elabora una strategia di supporto all’esercito franchista in piena lotta contro il legittimo governo di Spagna. L’aiuto doveva però esser dato nel modo più segreto possibile per non violare la neutralità delle potenze europee rispetto alla guerra civile divampata nel 1936. Si esclude così automaticamente l’impiego di navi da guerra o degli stessi Mas e, dopo un’attenta valutazione dell’impatto sul quadro internazionale, si decide anche di non cedere in modo diretto un sommergibile italiano a Franco. Comincia invece, in accordo con il governo tedesco presso cui Ciano si reca per la prima volta il 24 ottobre del 1936, una guerra clandestina affidata per ragioni di semplicità logistica ai sommergibili italiani. Ce ne sono ventotto a disposizione di diverse dimensioni, che vengono verniciati di nero e si preparano alle missioni dai porti del Tirreno, in particolare dalla base della Maddalena. Le loro spedizioni, durate dal novembre 1936 al febbraio 1937, devono essere del tutto segrete: il nome brillante del battello viene appunto celato, le rotte pianificate sulle carte nautiche distrutte al rientro. Gli obiettivi sono le navi repubblicane all’ancora nei porti spagnoli e i convogli di armi che solcano il Mediterraneo provenendo soprattutto dall’Urss. In caso di avvistamento, inseguimento e danneggiamento con conseguente e forzata emersione, la presenza di un ufficiale spagnolo nazionalista a bordo doveva salvare le apparenze confondendo la proprietà e le responsabilità nella guida del sommergibile. Il primo colpo, riuscito perfettamente a causa dell’effetto sorpresa e della mancata vigilanza, viene messo a segno dal Torricelli, che il 22 novembre silura nel porto di Cartagena l’incrociatore repubblicano Miguel de Cervantes. L’Iride attacca invece per errore un cacciatorpediniere inglese che lo colpisce di rimando e, smascheratolo, si esime poi dal finirlo. Il gioco era ormai scoperto, le oscure cacce, assolutamente piratesche in quanto compiute al di fuori del diritto internazionale e in assenza di guerra dichiarata, cessano di colpo ed anzi l’Italia entra prontamente nella conferenza di Nyon per la repressione della pirateria sottomarina nel Mediterraneo. Ecco lo scavalcamento del confine ed il precipitoso rientro già tante volte veduto dei raiders di mare negli ambiti ufficiali e consentiti.
Il raid torna d’attualità soprattutto dal 1940, facendo i conti con la ristrettezza di risorse di fronte allo strapotere della flotta britannica. Alle foci del Serchio, in una tenuta del Duca degli Abruzzi, comincia l’addestramento di gruppi scelti e le prove di nuovi strumenti per il raid; nasce la prima Flottiglia Mas. Dal punto di vista degli armamenti nascono i S.L.C., ovvero i siluri di lenta corsa, più confidenzialmente ribattezzati maiali. Si tratta appunto di siluri elettrificati cui vengono fissate due selle per farli cavalcare da sommozzatori dotati di respiratori e pinze per tagliare le reti d’ostruzione distese dalle navi; questo minimo equipaggio avvicina, navigando in immersione o a pelo d’acqua tramite un sommergibile vettore, lo scafo nemico a cui applica un particolare ordigno esplosivo a tempo. Si rinuncia dunque al mare aperto a favore delle acque ferme del porto dove i piccoli gruppi d’elite cercheranno di penetrare in tutta segretezza, di notte e nascosti dalle onde, per piazzare i trecento chili della cosiddetta mignatta e, abbandonato sul fondo il maiale, guadagnare la terra ferma entro le due ore e mezzo dalla previsione di scoppio, raccolti da un servizio di agenti dell’intelligence. Ai S.L.C. si affiancano altri mezzi consimili tra i quali gli M.T.M. (motoscafi da turismo modificati, altrimenti detti barchini) perfezionati da Aymone di Savoia che portano un carico più o meno equivalente di esplosivo e un seggiolino a catapulta a poppa per mettere in salvo il pilota. Nasce allora il mito, poi più tardi altrimenti funesto, della Decima Flottiglia Mas; si tratta in realtà di azioni disperate, audaci e straccione a cui si affida la potenza del presunto impero italico che implicitamente riconosce la propria debolezza. Con questa ennesima e paradossale inversione di ruoli termina per ora nel Novecento la secolare storia di pirati e di corsari che si ricongiunge con le antichissime vicende dell’infido Mediterraneo, padre di mescolanze, travestimenti e raid, dove da sempre l’eroe e il suo doppio si fondono in unità indefinibile.