Averno di Louise Glück / È bastato un fiammifero. Ma al momento giusto
Una delle domande fondamentali, se non la domanda unica ed essenziale, posta alla base di Averno di Louise Glück (Liberia Dante Descartes e Editorial Parténope, 2020, traduzione di Massimo Bacigalupo) è sul cosa accadrà dopo la morte. Non il solo quesito sul dove si andrà (ammesso che si vada da qualche parte); Glück va oltre e si chiede cosa ci faccia l’anima nell’aldilà senza le cose più care. A che scopo dovrebbe esserci un’ipotetica vita dopo la morte se a questa mancheranno le cose terrene? Ecco il punto, la novità del contenuto di Averno. A tutto ciò va aggiunta la straordinaria capacità della poetessa americana di tenere il verso in pugno, di dominarlo, di far cantare le parole sul serio. Averno è luogo mitologico e affascinante, non molto distante da Napoli. Gli antichi romani credevano fosse l’accesso all’oltretomba, Glück passa attraverso la porta, e se ciò che si lascia è bello, è storico, è naturalmente potente, quasi magico, allora andare oltre sarà doloroso, nostalgico, duro. Questo distacco è raccontato poesia dopo poesia in questa raccolta che è magnifica.
“Questo è il momento in cui vedi di nuovo / le bacche rosse del sorbo selvatico / e nel cielo scuro / le migrazioni notturne degli uccelli. // Mi addolora pensare / che i morti non le vedranno […]”.
Averno è un libro centrale nella ricca produzione di Louise Glück – parliamo di più di 15 libri di poesia, tra cui L’iris selvatico, vincitore del Premio Pulitzer e pubblicato in Italia da Giano edizioni nel 2003 – una raccolta di cui gli appassionati aspettavano la traduzione in italiano da molti anni. Scrivo questo pezzo e ripenso al momento esatto in cui mi capitò tra le mani l’edizione originale, esposta in una libreria di Amsterdam, aprii una pagina a caso e fu amore a prima vista.
Il mito, dicevamo, la prima poesia che parla della migrazione notturna degli uccelli. Gli uccelli vanno e noi stiamo, soli, pronti per l’inferno, sull’uscio. Da lì comincia la discesa agli inferi, il precipitare che interessa all’autrice, che appartiene a tutti noi. Una delle poesie più belle è la seconda, siamo a ottobre, il mese d’inizio dei misteri eleusini, perciò compare Persefone che da qui in avanti tornerà in parecchi riferimenti del libro, alternando origine mitologico e pieno quotidiano. Il lettore oscilla dentro e fuori, tra vita e morte, tra mitologia e racconto ordinario.
“La luce è cambiata; / ora il do centrale ha un suono più cupo. / E le canzoni del mattino suonano troppo studiate. // Questa è la luce dell’autunno, non la luce della primavera. / La luce dell’autunno: non sarai risparmiata […]”.
Il ricorso al classico – come nota anche José Vicente Quirante Rives nell’ottima postfazione – non è di maniera ma funzionale, è parte del controllo statico (e magmatico) che alza l’architettura di Louise Glück.
È un libro che nasce dal disagio, dalla frattura (e dove se non sul lago vulcanico si possono contare le fratture?), dall’insoddisfazione di sé. Averno è doloroso, aspetta il lettore, non lo va a cercare. L’autrice americana parla di ferite aperte, non le nasconde ma non le ostenta, ci conduce negli inferi che siamo noi stessi, le nostre case, le nostre fughe, i nostri ritorni mai compiuti.
Poesie fatte di sogni, di violenza e d’amore, di prove superate e da superare. Poesie sulle colpe e sullo stare bene. Poesie che annullano il confine tra bene e male, che lo ristabiliscono, che lo annullano di nuovo.
I versi sono infuocati, scorrono come la lava che scendeva dal Vesuvio. Persefone, l’Ade, ma noi soprattutto e le cose che lasciamo. Ti mancherà ciò che è con te per sempre recita un verso del poeta Franco Scarabicchi, Glück invece ci dice che tutto mancherà perché tutto resta altrove, non può seguirci se non nel ricordo, nel pianto, nel sentimento. Con noi nell’oltre non verrà niente e tutto starà nel meno, nel nulla, nella non appartenenza.
“Il compito assegnato era innamorarsi. / I dettagli dipendevano da te. / La seconda parte era / includere nella poesia certe parole, / parole tratte da un testo specifico / su un argomento affatto diverso”.
Il dolore è però filtrato dalla luce, quella dell’autunno che è diversa da quella dell’estate, non più debole solo malinconica, diversa. Qual è il nostro Averno, la soglia da attraversare o da non varcare? Il coraggio ce lo dà la poesia, la purezza e la musica di questo libro, il trovarsi contemporaneamente ai tempi di Ulisse e ai giorni nostri. La poetessa affonda a bassa voce, approfittando del silenzio del lago, dell’acqua che non va da nessuna parte ma che da qualche parte è giunta fino a chiudersi in un cerchio a pochi passi dal vulcano.
Glück meriterebbe la traduzione italiana dell’intera opera e speriamo che possa accadere presto.
“Dimmi che questo è il futuro, / non ti crederò. / Dimmi che sto vivendo, / non ti crederò”.
Un’estate dopo l’altra è finita, scrive e poi la violenza mi ha cambiato. Non le fa bene che questa fine sia come un balsamo e che le faccia bene ora. In un contrasto, un dubbio continuo, un’equivalenza difficile da raggiungere, stanno le poesie e noi. Siamo pronti a guardare gli uccelli migrare di notte e a non avere paura?
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