Arno Schmidt. Paesaggio lacustre con Pocahontas
In rete si può leggere: “Diventa fan di Arno Schmidt su Facebook”. Di Arno Schmidt (1914-1979)? Autore ipersperimentale, legato a una stagione critica ormai lontana anni luce dalle rassicuranti prove scolastiche della narrativa contemporanea. Domanda: potenza onnivora del social network o mito letterario che si rinnova ad ogni stagione mantenendo intatta la seduzione che emana dalla sua perenne marginalità? In realtà in Italia pochi, pochissimi lo conoscono: scarse le traduzioni, minima la ricezione critica fino ad anni recenti, oggi lo ricorda una sparuta minoranza di germanisti. Nessuno dei grandi editori se l’è sentita di avviare un confronto vero con un autore considerato troppo eccentrico e difficile.
È ammirevole quindi l’iniziativa dell’editore Zandonai (che segue di poco la non meno meritoria intrapresa dell’editore Lavieri, che ha pubblicato la trilogia Nobodaddy’s Kinder)di presentare al pubblico italiano un’opera controversa come Paesaggio lacustre con Pocahontas (Rovereto, Zandonai, 2011, 84 p.,13€, a cura di Dario Borso), pubblicata nel 1953 e accusata, all’uscita, di pornografia e di vilipendio della religione. Dello spirito della Germania di quegli anni – speranze, ricostruzione e filisteismo adenaueriano – Schmidt fornisce una sorta di ironico rovesciamento. Due uomini e due donne si incontrano in uno degli alberghetti rinati dopo la guerra tra una parvenza di decoro borghese e il kitsch sempre in agguato. Siamo in prossimità di un lago dell’Oldenburg, dove tutt’intorno una piccola borghesia di famigliole tedesche cerca svago e tranquillità. All’apparenza un idillio naturale frammisto alle voci di una socialità rinata dalle rovine della guerra. Ma la scrittura che si misura con questo irenico paesaggio lacustre non è mossa da intenti mimetici: al contrario, essa lavora come un aratro che dissoda una coltre linguistica fatta di banali luoghi comuni, di stereotipie rassicuranti, scavandovi solchi profondi. Ciò che viene alla luce è un magma linguistico fatto di frantumazioni sintattiche e lessicali, punteggiature imprevedibili ed eterodosse, continui sconvolgimenti semantici, cortocircuiti percettivi, ritmi sincopati, estensioni dinamiche del senso, forzature irriverenti del lessico quotidiano. L’effetto è un grandioso e ironico straniamento, a partire dal quale ogni costruzione ordinata del senso palesa la sua intima ipocrisia.
Arno Schmidt è stato per la Germania degli anni Cinquanta e Sessanta, per Günter Grass, per Gottfried Benn e per tutti coloro che hanno creduto nella missione critica di una scrittura letteraria rinnovata, ‘rivoluzionaria’, il grande modello a cui ispirarsi. Schmidt amava i dettagli: “osservando le grucce di una famiglia – scrisse un giorno – si possono capire tutti suoi spostamenti e le sue migrazioni”. I suoi libri nascevano dall’assemblaggio di centinaia di schede cartacee su cui annotava con maniacale precisione sequenze di pensieri, oggetti banali, serie di parole, libere associazioni verbali.
La scomposizione delle percezioni sensoriali e delle sintesi cognitive trova un corrispettivo nell’impiego della fotografia: immagini senza enfasi e senza narrazione, correlate alla frantumazione del discorso. Antesignano anche in questo di una filosofia della composizione letteraria, che lascia le sue tracce ad esempio in uno scrittore della memoria intermittente come Sebald. Se mai la critica letteraria uscirà dal tunnel della rassegnazione al ricatto dell’industria editoriale potrà trovare nello scrittore amburghese stimoli alla sua rinascita.