Riflessione e rumore / Sapiens ri-dimensionato

30 Dicembre 2021

Il problema è sempre lo stesso: come mai siamo in grado di concepire una perfezione ottimale e di attribuircela, se siamo evolutivamente imperfetti? E quella imperfezione è tale rispetto a quale ideale di perfezione, dal momento che quest’ultima non esiste se non nelle nostre proiezioni mentali e nella nostra immaginazione? E ancora: perché sentiamo come una ferita al nostro narcisismo ogni esame di realtà che evidenzi lo stato effettivo delle cose? E, da ultimo, quel gap sistematico tra presunto ed effettivo quanto vincola la possibilità di essere padroni di noi stessi per quello che realmente siamo?

 

Ridimensionato, a proposito di homo sapiens può vuol dire almeno due cose: in primo luogo che, con un'accezione negativa e deprimente per noi, si definisca l'evidenza dei nostri limiti; in secondo luogo, che con un un'accezione per così dire positiva, emerga finalmente la nostra effettiva e reale dimensione.

E così siamo di fronte alle inquietudini di cui è pervasa la ragione, nel momento in cui ci accorgiamo che la nostra percezione, la nostra lettura del mondo e le nostre scelte non sono innocenti, seppur crediamo che lo siano. Prima ancora dei cosiddetti “maestri del sospetto” è stato G. W. F. Hegel a insinuare dubbi di tal fatta. Una delle “missioni” di La fenomenologia dello spirito è stata quella di cercare di indurre socraticamente la ragione a “disperare delle rappresentazioni, dei pensieri e delle opinioni cosiddette naturali (…) propri e altrui” [Phänomenologie des Geistes, Goebhardt Bamberg u., Würzburg 1807; pp. 10-11]. 

 

I colpi inferti al nostro narcisismo come è noto non mancano. Ci ripetiamo sempre più spesso le considerazioni di Freud riguardo agli effetti prodotti da Copernico e Galileo nel deporre il nostro presunto geocentrismo; richiamiamo il colpo sferrato da Darwin alla presunzione di essere una specie speciale superiore creata apposta per dominare tutto ciò che esiste; dopodiché arriva il turno di Sigmund Freud, stesso, che ci spodesta persino dalla nostra casa; e una volta che il gioco è cominciato, si prosegue con una progressiva e per certi aspetti spietata messa in evidenza del fatto che, se ce n'è uno, il nostro provvisorio ordine interiore si produce non solo attraverso l'ordine, ma attraverso processi significativamente inconsapevoli e mediante un ruolo non piccolo del rumore.

Come sostiene il biologo ed epistemologo Jean-Jacques Kupiec, è necessaria una teoria, che egli definisce “anarchica”, che rifiuti l’ordine come principio primo e riconosca invece al suo posto la variazione aleatoria [La concezione anarchica del vivente, elèuthera, Milano 2021; p. 14].

 

Daniel Kahneman ci aiuta da tempo a pensare il pensiero, segnalandoci scorciatoie, euristiche e altre trappole che noi stessi ci tendiamo, ed evidenziando quelli che ritiene essere due sistemi di pensiero, uno veloce e uno lento, il primo che procede spedito nei giudizi e nelle scelte, e il secondo che svolge una funzione di sorveglianza e utilizza la riflessione [D. Kahneman, Pensieri lenti e veloci, Rizzoli, Milano 2011].

Un’altra fonte di disturbo, il rumore, è messa in evidenza ora dalla nuova ricerca di Kahneman, psicologo premio Nobel per l’economia, condotta insieme a Olivier Sibony, esperto di decision making, e al giurista Cass R. Sunstein. Il libro, Noise a flaw in human judgment, è pubblicato in italiano da Utet con il titolo, Rumore. Un difetto del ragionamento umano [Milano 2021].  

 

 

Il rumore si presenta ancora più difficile da riconoscere, e si manifesta come una dimensione statistica con influenze molto importanti sulla misurazione e sulla sua esattezza. Comparare giudizi e misurazioni ci fa scoprire molti tipi di errori. Se, ad esempio, misuriamo con un righello fine la stessa riga più volte non otterremo la stessa misura. La media degli errori è il bias. La variabilità degli errori è il rumore. Il rumore, insomma, è frutto di contingenze e causalità del momento, di volta in volta differenti; il bias rappresenta deviazioni sistematiche del nostro sistema cognitivo, abbastanza ben identificabili. Un rumore che non si sente immediatamente e che esige, quando ci riusciamo, un perfezionamento del ragionamento e del pensiero. Quel perfezionamento non si mostra semplice e richiederebbe un atteggiamento conoscitivo sperimentale, che per noi non è immediato adottare.

 

In ogni luogo dove noi esseri umani stiamo prendendo decisioni si annida il rumore e tanto più lo fa quanto più siamo convinti del contrario. Non solo, ma il rumore è ancora più incidente quanto più la decisione è incerta e il tempo disponibile è limitato o pochissimo. Ad esempio, in una sala operatoria, o in un’aula di tribunale, o in un consiglio di amministrazione. In tutte queste situazioni o in contesti analoghi il rumore può causare e causa danni irreparabili. Quel rumore non viene da fuori, non riguarda una qualche forma di inquinamento acustico, ma è in noi, è dentro noi, nel chirurgo, nel giudice, nel dirigente. Il rumore agisce anche nella nostra quotidianità e gli autori mostrano uno studio condotto su ventidue medici che hanno esaminato lo stesso esame clinico a diversi mesi di distanza. Dai dati è emerso che i medici erano in disaccordo con loro stessi, tra la prima e la seconda valutazione diagnostica, in una percentuale che andava dal 63% al 92%.

 

Nulla era cambiato, se non il momento specifico in cui avevano compilato il referto. Siamo di fronte alle imperfezioni del nostro sistema cognitivo, perché plasmato dall’evoluzione, fallibile e soggettivo, spesso irrazionale e capace di produrre effetti indesiderabili. Non siamo calcolatori, non siamo macchine perfette di elaborazione dell’informazione, come sostenevano i fautori della teoria dell’utilità attesa, che concepiva i decisori come perfettamente razionali, i cui comportamenti erano sempre tesi alla massimizzazione dell’utilità. Furono Kahnemam, Tversky e Slovic a descrivere gli effettivi comportamenti dei decisori economici, facendo emergere molte delle distorsioni cognitive oggi note, mettendo a punto la teoria del prospetto. Il loro lavoro rappresentò una rivoluzione nel campo dell’economia comportamentale, al punto da valere il Nobel per Kahneman.

 

Prendere decisioni è dunque un compito cognitivo che si avvale di dati tutt’altro che oggettivi, seppure tali ci sembrano e spesso ne siamo convinti. Bias e rumore condizionano ogni singolo individuo, senza eccezioni. Naturalmente è possibile porre un argine al loro campo d’azione. Alcune persone vi riescono meglio di altre per ragioni di tipo neurofisiologico, altre invece imparano strategie “difensive” per arrivare a decisioni quanto più razionali possibile, magari delegando parte della decisione a un supporto esterno. È quest’ultima strada che Kahneman suggerisce di intraprendere. Se la decisione che dobbiamo prendere è complessa e rischiosa, è molto importante affiancare metodi quantitativi a quelli più soggettivi e qualitativi. Siccome siamo esseri influenzabili e influenti, Kahneman suggerisce, ad esempio, che quando iniziamo un’importante riunione di lavoro è bene annotare su un foglio le nostre considerazioni, i nostri punti di vista e le nostre richieste, prima che gli altri colleghi inizino a parlare.

 

In caso contrario le nostre idee iniziali saranno irreversibilmente plasmate da tutto quello che verrà detto dagli altri colleghi, in particolare dal primo che prenderà la parola e dall’ultimo, senza che noi ce ne accorgiamo. Agire in questo modo non significa irrigidirsi sulle proprie posizioni, ma aprirsi al dialogo ben consapevoli delle proprie convinzioni di partenza, per poi magari, consapevolmente, modificarle.

Troppo spesso lasciamo campo libero alle fallacie dei nostri giudizi o talvolta, ancor peggio, le elogiamo. Eppure, nonostante i limiti della nostra razionalità, noi esseri umani sappiamo procedere non solo per prove ed errori. 

Recentemente Steven Pinker ha proposto la razionalità come una bussola per orientarsi nel mondo.

 

 

Pinker sostiene che nessuno di noi, riflettendo da solo, è tanto razionale da giungere sempre a conclusioni valide: “la razionalità emerge da una comunità di ragionatori che individuano le reciproche fallacie”. Eppure, oggi essa è spesso considerata obsoleta da molti. Molte persone si comportano come se quello che conta nel confronto e nell’argomentazione fosse screditare l’altro e non ragionare insieme per giungere a posizioni più attendibili. La posizione di Pinker è che in un’epoca in cui la razionalità sembra più minacciata è fondamentale lavorare a una sua affermazione. Non solo, ma il problema principale che abbiamo è convincere le persone ad accettare le soluzioni razionali quando siamo in grado di trovarle. Il problema, insomma, è che la testa delle persone guarda agli aspetti superficiali, che ritiene a torto rilevanti per la risposta. Quello di Pinker non può essere ritenuto un percorso celebrativo della razionalità.

 

Lo studioso, infatti, si domanda fino a che punto un animale può essere ritenuto razionale e si avvale di importanti esempi derivanti dall'etnografia e dalle scienze cognitive sperimentali. Stabilendo un rapporto fra razionalità e irrazionalità, ironicamente, l'autore mette in evidenza il fatto che la razionalità nel nostro tempo non va di moda. Se non si può tuttavia mai dimostrare che un ragionamento è solido e che la verità può essere conosciuta, sostiene Pinker, si può perlomeno alimentare la nostra fiducia nel fatto che lo siano. Quando si applicano le regole della ragione alla ragione stessa si scopre che non siamo di fronte a una mera pulsione viscerale inarticolata. È possibile esporre le regole della ragione e distillarle e purificarle facendo dei modelli normativi di logica e probabilità. Si può persino implementare quelle regole in macchine che duplicano e superano le nostre stesse facoltà razionali. Secondo Pinker un'altra rassicurazione sulla validità della ragione è il fatto che funziona. Dispiegando la ragione abbiamo raggiunto la luna, inventato lo smartphone e debellato il vaiolo.

 

La cooperatività del mondo quando a esso applichiamo la ragione è una forte indicazione che la razionalità giunge effettivamente a verità oggettive. Pinker si intrattiene a sua volta sulle fallacie e i fallimenti della ragione e distingue tra fallacie formali e informali. Se le prime, come la negazione dell’antecedente, possono essere smascherate ricostruendo formalmente un argomento, le fallacie di ragionamento informali o più comuni non possono essere individuate allo stesso modo. La ragione sta nel fatto che le fallacie informali sono l’esito di caratteristiche profondamente radicate in noi per via evolutiva e anziché violare apertamente una forma argomentativa nel calcolo proposizionale, esse sfruttano un richiamo psicologicamente avvincente, ma intellettualmente spurio. Ad esempio, si può sempre sostenere una convinzione, quale che sia, dicendo che l’onere della prova è a carico di coloro che non sono d’accordo. È nel rapporto tra probabilità e causalità che emergono alcune delle fallacie più diffuse. Pinker riporta una vignetta del Saturday Morning Breakfast Cereal, particolarmente eloquente, in proposito, che commenta con la necessità di studiare statistica.

 

 

Si chiama bias di disponibilità e riguarda il fatto che gli incidenti aerei, che ottengono una copertura capillare dall’informazione, causano la morte di circa 250 persone all’anno; mentre quelli automobilistici, che causano la morte di circa 1 milione e mezzo di persone ricevono tutt’altra copertura e risonanza, e come ha evidenziato nel tempo Gerd Gigerenzer, comportano una percezione del rischio del tutto diversa e imparagonabile agli incidenti aerei. Per fortuna, secondo Pinker, vi è e si afferma anche una “comunità della razionalità”, i cui membri si sforzano di avere “meno torto”, compensando i propri bias cognitivi e adottando standard di pensiero critico e umiltà epistemica. Riflettendo sul rapporto tra credenze e prove con riferimento al ragionamento bayesiano, e tra rischio e ricompensa con riferimento alla scelta razionale e all’utilità attesa, Pinker si ripromette di distinguere tra allarmi veri e falsi, a proposito dei limiti della razionalità. Passando per una ripresa della teoria dei giochi, l’autore si impegna a distinguere il rapporto tra correlazione e causazione nel comportamento e nelle scelte.

 

Dopo aver attraversato una riflessione impegnativa su quello che non va nella gente, a proposito dei fallimenti della razionalità, Pinker conclude il libro con un capitolo impegnato a mostrare che la razionalità è importante, distinguendola dall’intelligenza: essere bravi a calcolare qualcosa non garantisce che si cerchino di calcolare le cose giuste. Secondo l’autore: “Siamo una specie che è dotata di una facoltà elementare di ragione, e che ha scoperto formule e istituzioni che ne amplificano la portata. Esse ci aprono a idee e ci espongono a realtà che confondono le nostre intuizioni, ma che, malgrado tutto, sono vere” [p. 295].

È vero che siamo una specie istituente e che creiamo istituzioni, di diversa natura, dimensione e durata. Quelle istituzioni sono rette dalla razionalità olimpica o da una razionalità limitata? Dopo Herbert Simon è difficile sostenere la prima opzione. E proprio sulla scia del premio Nobel Simon, e con importanti interdipendenze con gli studi di Kahneman, si muove la ricerca di Enrico Zaninotto. Nel libro L’impresa che esperimenta. Come usare le decisioni per imparare [Egea, Milano 2021], Zaninotto fa un salto di qualità importante e originale, che per non pochi aspetti è connesso alle ricerche di Kahneman e Pinker e ne costituisce una verifica: sceglie di considerare una delle istituzioni più diffuse nella nostra esperienza economica e sociale, l'impresa, alla stregua di un ambiente di ricerca, in cui coloro che ci lavorano, e i manager in particolare, adottino lo spirito sperimentale proprio dello scienziato: forzino, cioè le condizioni esterne per ottenere risultati inattesi e ne valutino gli esiti. 

 

 

L'autore propone di considerare ogni processo decisionale come un esperimento che, in base al principio di verifica e falsificazione, consenta di estrarre delle opportunità di apprendimento che possano rappresentare un valido supporto alle decisioni stesse. Un aspetto di particolare interesse della proposta di Zaninotto riguarda il riconoscimento della centralità della conoscenza nel fare impresa e nelle istituzioni oggi. Se la conoscenza è la principale fonte di valore, importante è chiedersi come essa si produca. “L'impresa che sperimenta valorizza appieno la conoscenza che si produce attraverso il suo stesso operare”, scrive l’autore. Se ogni aspetto dell’operare è tale da produrre conoscenza, sono i momenti decisionali quelli dai quali possono scaturire gli apprendimenti più rilevanti come base delle scelte, prima che l'impresa sottoponga i propri prodotti alla valutazione del mercato.

 

Si può assumere perciò che se le decisioni aziendali non producono conoscenza vengono meno i presupposti per la creazione del valore. Se però alla base della vita organizzativa e dei processi economici ci sono le idee ed esse sono portatrici di motivazione al miglioramento, è importante prendere in considerazione almeno due aspetti che possono aiutare a comprendere perché in un numero rilevante di casi le cose non vanno così. È probabile che si combinino almeno due fattori per tentare di comprendere la difficoltà delle imprese a liberare idee e a valorizzarle. Il primo riguarda gli orientamenti manageriali e in generale la cultura presente all'interno delle imprese e delle istituzioni, che non si mostra particolarmente attrezzata nell'utilizzo del metodo scientifico e nell'esercizio del dubbio come condizione per formulare ipotesi, sottoporle a validazione o falsificazione e estrarne inferenze attendibili e almeno provvisoriamente valide. Il secondo riguarda le resistenze al cambiamento di idee e comportamenti e all'adozione di una metodologia di lavoro che più che essere centrata sulla presunta certezza del comando, dell'esecuzione e del controllo, si orienti a strutturarsi sull'efficace esercizio del dubbio e sull'approccio sperimentale. “Un approccio sperimentale indirizzato all'apprendimento attraverso processi di prove ed errori”, scrive Zaninotto, “si realizza non solo costruendo decisioni in contesti artificiali ma anche (forse, soprattutto) utilizzando in modo appropriato le decisioni prese giorno per giorno.

 

Ogni decisione può essere trattata come un esperimento e l'impresa può essere vista come un laboratorio”. Il libro di Enrico Zaninotto è suddiviso in due parti che si occupano rispettivamente della sperimentazione e dell'apprendimento nelle organizzazioni, e della costruzione e valutazione degli esperimenti decisionali. L'attenzione dell'autore si distribuisce in capitoli che riguardano il rapporto tra esperimenti ed evoluzioni che possono produrre conoscenze e apprendimento nei mercati, rivolgendo poi lo sguardo alle vie mediante le quali la sperimentazione può produrre conoscenze e apprendimento nelle organizzazioni. Non sono trascurati i processi che possono condurre dall'apprendimento individuale all'apprendimento organizzativo, uno dei luoghi in cui è possibile controllare gli effetti del rumore e dei bias e favorire la costruzione di efficacia nelle scelte e nei processi decisionali. Per quanto riguarda la costruzione e la valutazione di esperimenti decisionali il libro si configura come un manuale che contiene una presentazione attenta e puntuale delle diverse fasi, dalla generazione delle ipotesi, alla rappresentazione delle relazioni causali fino alla distinzione tra l'analisi delle decisioni in contesti controllanti e quella delle decisioni in contesti osservativi. Non è ovviamente trascurata una riflessione di particolare criticità e importanza sulla formazione delle conoscenze e dei metodi dei manager per organizzazioni che aspirino ad essere sperimentali, fino a considerare la rilevanza etica di un atteggiamento sperimentale nella vita organizzativa. 

 

Alla luce dei contributi degli autori e dei testi che abbiamo considerato possiamo riconoscere che l’inconciliabilità con il senso comune di alcune evidenze scientifiche è dovuta alla ristrettezza della percezione umana, che sonda la realtà in modo parziale (problema di asistematicità) e filtrandola (problema di selettività) per mezzo di strumenti, sia sensoriali che teorici, incompleti e soggetti ad errore, con il risultato di introdurre distorsioni più o meno sistematiche. La complessità che fa della realtà un tutto più volte intrecciato, la rende in parte inaccessibile alle indagini e alle nostre modalità di descrizione. Cercare di conoscere vuol dire misurarsi con qualcosa che esiste: la nostra percezione è limitata nel tempo; la nostra attribuzione di legame causa-effetto non è un tratto della realtà ma una necessità evolutiva del nostro cervello, e quando i fenomeni non sono lineari, ma complessi o estremi, non siamo in grado di rappresentarli con una visione coerente. Non solo, ma procediamo per attribuzioni e proiezioni trasformando l’incertezza in certezza inventata, per la nostra difficoltà a tollerare l’ansia che l’incertezza ci procura.

 

Nel processo di comprensione dell'arte moderna secondo Gertrude Stein: "L'opera ci appare strana, e poi strana e poi davvero strana; e poi all'improvviso non sembra più strana per nulla e non si è più in grado di dire che cosa la rendesse strana all'inizio". Siamo cercatori di significato e un significato lo costruiamo comunque, fino al punto di dubitare che sia esistito un momento in cui l'oggetto ne era privo. Nonostante tutto ciò, noi non abbandoniamo l'impresa di investigare sempre più a fondo gli elementi della realtà e le dinamiche evolutive di sistemi complessi. Intanto sarebbe importante ridefinire la nostra natura e ri-dimensionarci, cioè dimensionarci di nuovo con maggiore conoscenza e consapevolezza di noi stessi. A noi esseri umani non è dato che tentare, non è dato che cercare.

 

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