L'ultimo futurista / Joe Colombo: una matita felice
Joe Colombo (1930-1971) sapeva disegnare. La sua ‘matita felice’ non aveva esitazioni mentre tracciava i contorni degli oggetti che progettava, dando così forma visibile a tutto quanto esisteva già nella sua fervida mente. Il tratto nitido, chiaro, privo di esitazioni dei suoi schizzi di progetto è rivelatore di un pensiero altrettanto nitido e chiaro. Non per nulla egli è stato uno dei designer più prolifici del secolo breve e, sicuramente, fra i molti, il più ingegnoso, tanto da essersi meritato il titolo, e con buona ragione, di 'leggendario' (Matteo Kries, 2005). Ha infatti all'attivo centinaia e centinaia di progetti, concepiti in meno di un decennio di attività, che oggi, a cinquant'anni dalla sua troppo prematura scomparsa, sono stati tutti censiti e schedati nel ponderoso volume curato da Ignazia Favata (con un contributo di Domitilla Dardi), Joe Colombo. Catalogo ragionato. 1962 - 2020, (Silvana Editoriale, pp. 300, € 85.00). Vi si annoverano gli oggetti ancora in produzione, i molti realizzati ma oggi non più prodotti, così come quelli che attendono di vedere la luce, insieme ad alcuni che la luce l'hanno vista soltanto di recente.
Sebbene Joe (Cesare all'anagrafe, il nome d'arte lo aveva mutuato da Joe Turner, il cantante blues di cui era un fan accanito) si fosse diplomato all'Accademia di Brera e avesse frequentato per qualche anno la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, in realtà si è formato sul campo, nella trincea dell'arte figurativa di quel secondo dopoguerra, così magico per Milano, che vi ha visto nascere la Pittura Nucleare, alla quale il nostro aderisce nell'aprile 1952, e il MAC (Movimento di Arte Concreta), di cui egli sarà membro a partire dal 1956. Quella fu anche la stagione in cui gli artisti meneghini cominciavano a interessarsi agli studi di Rudolf Arnheim, in particolare al libro Art and Visual Perception: A Psychology of the Creative Eye (1954), tradotto in italiano da Gillo Dorfles (cofondatore del MAC nel 1948, insieme ad Atanasio Soldati, a Bruno Munari, a Gianni Monnet, a Ettore Sottsass jr. e promosso da Albino Galvano) e pubblicato da Feltrinelli nel 1962. In esso, lo studioso tedesco, sulla base della psicologia della Gestalt, al di là del significato dell'opera, pone l’accento sulle cifre del suo segno, ovvero sulle soluzioni di equilibrio, di forma, di spazio, di luce, di colore e di movimento, messe in campo dall’artista che l’ha realizzata. Né si deve dimenticare che le ricerche portate avanti dai componenti del raggruppamento dell'arte Programmata e Cinetica, al quale pure Joe appartenne, furono debitrici anche agli scritti sulla fenomenologia della percezione condotti in quegli stessi anni da Maurice Merleau-Ponty, fautore della "ricettività creativa", nonché agli studi di semiotica espressi da Umberto Eco in Opera Aperta (1962), dove si sanciva l'avvenuta trasformazione dell'opera d’arte da “oggetto” in “processo”, tema che Joe Colombo avrebbe recepito appieno, come risulta evidente nella quasi totalità dei suoi interventi progettuali, soprattutto nei suoi 'marchingegni', fedeli, nella sostanza e nell'ispirazione, anche al Manifesto del macchinismo, pubblicato da Bruno Munari nel 1952.
Eccone alcuni stralci:
"[...] Gli artisti devono interessarsi delle macchine,
abbandonare i romantici pennelli, la polverosa tavolozza, la tela e il telaio;
devono cominciare a conoscere l’anatomia meccanica, il linguaggio meccanico,
capire la natura delle macchine, distrarle
facendole funzionare in modo irregolare, creare opere d’arte
con le stesse macchine, con i loro stessi mezzi.
Non più colori a olio ma fiamma ossidrica, reagenti chimici,
cromature, ruggine, colorazioni anodiche, alterazioni termiche.
Non più tela e telaio ma metalli, materie plastiche, gomme e resine sintetiche.”
E sarà proprio per merito di Bruno Munari, se Joe Colombo, abbandonate le giovanili esperienze di arte figurativa, si dedicherà interamente alla creazione di oggetti d'uso, al Design e all'Architettura degli interni, mantenendo sempre intatta e fresca la sua ‘matita felice’ nel disegno.
Nella sua poetica progettuale, una persistenza della sua fede cinetica è riscontrabile nella maggior parte dei pezzi di design da lui creati, così come in essi è evidente l'echiana trasformazione da "oggetto in processo". Nessuno di loro è, infatti, 'staticamente' conchiuso in sé, definito pur nel suo essere finito, ma tutti sono concepiti 'in un divenire', generato, a volte, dalla loro trasformabilità: (poltrona Tube chiar, 1969, riedizione Cappellini 2016; letto Closingbed; Mini kitchen, 1963, Boffi; poltrona Multichair, 1970, B-Line); altre dal principio di modularità che consente loro un continuum (scaffale Kilometro, 1967, Bernini, oggi Karacter); altre ancora dalla loro smontabilità e dalla possibilità di variare l'altezza della seduta, aggiungendo o togliendo segmenti di gambe (sedia, Universal 4867, 1965, Kartell); oppure dalla loro possibilità di ruotare (poltrona Elda, 1963, Longhi); o di muoversi su ruote e di aprirsi a ventaglio, con variabilità di quota grazie alla componibilità verticale (carrello Boby, 1970, Bieffeplast, riedizione B-Line); altre volte è invece la luce a creare effetti dinamici, grazie all'impiego di materiali tecnologicamente innovativi per l'epoca in cui sono stati realizzati (lampada Acrilica, con il fratello Gianni, 1962, Oluce), in altre ancora sono i 'marchingegni' elettrici inseriti a consentire loro la mutazione. A riprova è proprio lo stesso Joe Colombo a definirli 'mobili dinamici'.
Inoltre, si può affermare, senza ombra di dubbio, che il nostro aveva un'autentica passione par l'elettricità. D'altra parte ci era cresciuto in mezzo, visto che suo padre conduceva un'azienda di apparecchiature elettriche e con lui egli aveva condiviso da sempre l'entusiasmo per tutti i componenti elettrici, affascinato com'era dal loro funzionamento. Alla sua morte, nel 1959, fu addirittura costretto ad abbandonare gli studi per rilevare e gestire quell'impresa di famiglia. Ma Joe aveva anche uno spiccato interesse per i nuovi materiali messi a punto dall'industria e per le loro tecniche di lavorazione. Sopra tutti prediligeva le materie plastiche, gli acrilici, le resine sintetiche e i nuovi laminati, come risulta evidente in molti suoi lavori. Per di più adorava i cataloghi. Ne collezionava di tutti i tipi, in particolare quelli tecnologici e di componentistica meccanica che recuperava ovunque, frequentando anche le fiere specializzate, per poi studiarli con attenzione e competenza, ricavandone spunti, idee, soluzioni ingegnose e imprevedibili che inseriva nei suoi progetti di oggetti e in quelli che si rifiutava di definire 'arredi', ma che preferiva chiamare 'attrezzature per l'abitare'. A volte, se lo riteneva necessario, si avvaleva persino della collaborazione di gruppi di ricerca universitari per mettere a punto i meccanismi di cui erano dotati.
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A proposito della sua 'matita felice', ecco un ricordo dell'industriale Giancarlo Bernini, con il cui brand Joe ha collaborato a lungo:
"Era bravissimo a disegnare a mano libera, portava sempre con sé una cartella con fogli, penne, matite e attrezzature varie per mettere immediatamente sulla carta ciò di cui si discuteva, le idee che gli venivano di getto e copiose. Un esempio eclatante: eravamo in un ristorante di Parigi, sul solito tavolino di dimensioni ridottissime, in quattro: i bicchieri, le bottiglie, i piatti, le posate toglievano tutto lo spazio disponibile. Lo feci notare e lui sviluppò immediatamente l'idea di disegnare bicchieri impilabili che ancora oggi sono in produzione. Posso affermare con sicurezza che si intuiva che i suoi progetti sarebbero stati apprezzati anche e forse soprattutto in un futuro prossimo, perché erano innovativi, sviluppati con tecnologie e materiali all'avanguardia, che avrebbero lasciato un segno, come poi è effettivamente accaduto."
"Lui parlava disegnando e disegnava qualunque cosa", scrive Ignazia Favata, sua storica collaboratrice e attuale curatrice dell’Archivio Joe Colombo, nel libro-catalogo pubblicato da Silvana Editoriale. "Nei suoi schizzi rappresentava gli oggetti finiti e i pezzi che li componevano, la prospettiva con varie viste e perfino gli esplosi."
E queste ultime sono operazioni piuttosto complesse, per le quali oggi si preferisce ricorrere ai computer, ai CAD (computer-aided-drafting) tridimensionali.
"Parlava pochissimo e disegnava moltissimo" continua Favata "si esprimeva con poche parole, ma disegnava con una tale sapienza, con il tratto continuo senza staccare la matita, che molti credevano che gli schizzi e i disegni tecnici a mano libera perfettamente in scala venissero eseguiti dopo la produzione dell'oggetto." E più oltre: "Disegnava su qualunque superficie, sui muri dei laboratori, sui mobili in allestimento e sulle pareti dei cantieri. Questo era anche il suo modo di spiegare."
Il disegno, insomma, era la sua forma prediletta di espressione, nella quale eccelleva.
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Ma quello che più di ogni altra cosa contraddistingueva l'uomo Joe Colombo, l'artista, il designer e il musicista, era la sua passione per la modernità, una modernità incondizionata, apodittica, apolitica, astorica, ottimista-positivista che ha fatto di lui l'ultimo dei futuristi, con la complicità della sua e della loro Milano.
Joe amava la velocità. Correva in automobile, oltre ad averne progettata una e ad aver dotato molti dei suoi marchingegni di cruscotti, di pulsanti, di leve e di lucine colorate. Come si è già avuto modo di dire, era fautore del dinamismo, nella propria vita, così come nella sua pittura e nel suo design, al punto che, per velocizzare, era solito firmare i suoi disegni Joe Col, ed anche questa è una sigla piuttosto dinamica e pure parecchio musicale. Praticava la musica jazz. Ha spesso suonato all’Arethusa e al Santa Tecla, i due storici locali milanesi. Di quest'ultimo, nella sua stagione nucleare ha anche contribuito a dipingere pareti e soffitto, insieme a Enrico Baj e a Sergio Dangelo. Amava la fotografia, arte in cui pure eccelleva. Fumava come un turco, soprattutto la pipa, ovviamente quella progettata da lui, la famosa Optimal 121, (Butz Choquin, 1969) divenuta un must. Per i ‘colleghi’ fumatori, ha progettato il bicchiere Smoke (Arnolfo di Cambio, 1964), ideale per le serate nelle caves, o i party che caratterizzavano la mondanità degli anni sessanta, soprattutto quella della 'Milano da bere', della quale era un assiduo protagonista, con tanto di incavo per inserire il pollice, così che tra l'indice e il medio il viveur potesse trattenere contemporaneamente anche la sigaretta.
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Joe Colombo è stato definito un visionario, ma a leggere oggi le dichiarazioni da lui rilasciate nel 1971, pochi mesi prima di morire, non si può fare a meno di riconoscere che egli, invece, è stato profetico, soprattutto se le riferiamo a questi due ultimi anni, in cui il Covid-19 ci ha costretti a misurarci con il nostro habitat domestico e a fare i conti con lo smart working e con la DAD.
"Le possibilità offerte dallo sviluppo straordinario dei processi audiovisivi sono enormi. [...] le ripercussioni potrebbero essere considerevoli per il modo di vivere dell'umanità. Le persone potranno studiare a domicilio e lì svolgeranno anche la propria attività. Le distanze non avranno più grande importanza, non sarà più giustificata la necessità di megalopoli.
Parallelamente, si assiste alla caduta di vecchi tabù. Le 'famiglie classiche' tendono a cedere il passo a piccoli gruppi sorti per affinità.
Questi piccoli gruppi si sparpaglieranno nelle campagne. Si può immaginare un centro-vendite (ordine tramite audiovisivi) [oh, la incredibile prefigurazione di Amazon et similia! NdA], uno sviluppo qualitativo e quantitativo dei trasporti pubblici secondo lo schema delle reti capillari. L'uomo perderà la mania per l'automobile.
Questi gruppi di lavoro e di vita comunitaria esigeranno un nuovo tipo di habitat; spazi trasformabili, spazi favorevoli alla meditazione e alla sperimentazione, all'intimità e agli scambi interpersonali." E più oltre: "Le abitudini cambiano, l'interno degli ambienti deve cambiare con loro. Nel passato lo spazio era statico, questa è stata la nozione classica per millenni. Il nostro secolo è caratterizzato invece dal dinamismo, c'è una quarta dimensione: il tempo. È necessario introdurre questa quarta dimensione nello spazio, in modo che lo spazio divenga dinamico. [...] per l'habitat questo significa che, invece di disporre di uno spazio suddiviso in sottospazi con funzioni ben determinate lo si può immaginare trasformabile secondo i bisogni del momento."
Sembrano concetti espressi nel 2021, formulati alla luce delle nuove necessità abitative imposte dalle varie forme di lockdown che hanno investito il mondo. La preveggenza insita nei pensieri di questo maestro del design lascia attoniti ed ammirati e, forse, il 'futuro prossimo' a cui lui pensava è proprio arrivato.
Joe Colombo è morto lo stesso giorno del suo genetliaco (30 agosto), come Raffaello (6 aprile), come Shakespeare (23 aprile), con i quali la sua vita ha avuto in comune, oltre alla 'matita (o penna) felice', purtroppo anche la brevitas.