Quarta e ultima parte / Un'altra storia? Conversazione con Igiaba Scego e Carlo Greppi

30 Novembre 2020

Continua la conversazione con Carlo Greppi e Igiaba Scego sui temi del colonialismo, nel senso più ampio del termine, e dei presupposti inesplicitati di una immagine del mondo e della storia eurocentrica, bianca e maschile che si riflette nella cultura contemporanea.

 

EM. Per quanto riguarda il colonialismo, a fronte dell'indegno sintomatico silenzio istituzionale con cui è passato l'ottantesimo anniversario della proclamazione dell'impero e la nascita dell'Africa Orientale Italiana, nel 2016, c'è comunque un crescente interesse, non solo tra specialisti, per le rimozioni del colonialismo fascista e da lì di quello liberale, direttamente proporzionale direi alle spinte filo-fasciste o nazionalistico-sovraniste in senso inverso. Personalmente credo che, benché necessario, il discorso sia ancora tutto troppo 'giornalistico': se si parla di uso dei gas o di madamato è perché si parla delle menzogne di Montanelli o del (brutto e sbagliato) monumento a Graziani ad Affile, come a dire che il tema del colonialismo sia un'appendice del discorso antifascista e che ci sia “bisogno” della vergogna del presente per parlarne. La mia impressione è che questo rischi di essere ancora un limite nella misura in cui rimane confinato nella battaglia politica sulla storia e un'avanguardia della sinistra culturale o militante.

Il discorso pubblico diffuso sui crimini coloniali italiani, ben coperti dalla storiografia ma assenti nella memoria pubblica è ancora tutto da costruire: il come è tutto da inventare. Tra tanti libri, Filippo Colombara nel suo Raccontare l'impero ha saputo raccontare attraverso le memorie orali di reduci italiani della guerra d'Etiopia, raccolte tra gli anni Ottanta e Novanta, uno sguardo profondo su quanto radicata fosse quell'esperienza per l'antropologia implicita che una generazione di soldati maschi in armi e un'infanzia formata sui libri di scuola fascisti ha portato con sé nei decenni successivi. 

 

IS. Il rischio che corriamo, molto grande, è che la storia coloniale venga tirata fuori solo per ragioni militanti e che la ricerca sulla complessità di quello che è successo nello spazio coloniale si fermi a poche cose certe e ben collaudate. Dopo la fase dei grandi storici del colonialismo, da Angelo del Boca a Nicola Labanca, si è passati a guardare altre cose in questo spazio coloniale, come per esempio i rapporti di genere, le cause della rimozione o la pervasività degli stereotipi coloniali. Un libro fondamentale è Colonia per maschi di Giulietta Stefani. I men studies sono importanti per capire la colonia come spazio di costruzione di un racconto nazionale (e anche nazionalpopolare) di una virilità italica che ha poco a che fare con la realtà degli uomini italiani: si tratta di un modello di maschile a cui ci si deve adeguare, pena l'espulsione. La storia delle relazioni umane dentro lo spazio coloniale è davvero illuminante sulle gerarchie che si sono formate non solo in colonia, ma anche dopo la colonia stessa, tra le élite autoctone che si sono ritrovate a ragionare come i colonizzatori, a volte con lo stesso linguaggio.

In questo la letteratura è di grande aiuto per non creare personaggi stereotipati, penso ad esempio le donne che hanno dovuto subire il colonialismo. Per molto tempo non abbiamo sentito la loro voce. Silenziata da chi ha esibito i loro corpi come souvenir in quelle disgustose cartoline dall'Africa Orientale Italiana o dalla Libia italiana. Donne sottomesse, come la ragazza eritrea che si può vedere in una fotografia che David Forgacs ha introdotto nel suo Margini d'Italia, che ha subito un'aggressione sessuale feroce ed evidente. Donne costrette al silenzio come la Mariam di Ennio Flaiano (in Tempo di uccidere) o la Regina, protagonista di Settimana nera di Enrico Emmanuelli (1961). Quelle donne non a caso riprendono vita, parola, potere grazie a due scrittrici.

 

Da una parte Francesca Melandri, in Sangue Giusto, quando deve mettere in scena Abeba, la donna che darà un figlio etiope all'italiano Attilio Profeti, non la rende una macchietta, ma una donna ben conscia del suo posto nel mondo. Interessante il dialogo in cui lei e Profeti commentano la famosa copertina della rivista «La difesa della razza». Attilio è lì a spiegare che la razza italiana è superiore e Abeba invece dice che la sua gente lo è. Melandri non vuole farci vedere una faccetta nera, una moretta schiava tra le schiave, ma una donna certo in posizione di subalternità, situazione creata dalla storia, ma non subalterna nel pensiero. È costretta a dare peso alle gerarchie perché deve sopravvivere allo spazio coloniale, ma non si fa mettere i piedi in testa da nessuno, nemmeno dall'amante italiano. Insomma una donna forte. Creando Abeba non solo Melandri rovescia lo stereotipo, ma le dà dignità di essere umano. Non vuole creare una donna buona, ma una donna vera che si porta addosso tutte le contraddizioni. In un certo senso ho cercato di fare lo stesso con Adua (la protagonista del mio romanzo omonimo), che è molto più sottomessa di Abeba, ma poi quando arriva alla sua età matura, tira fuori le unghie e l'amarezza che l'essere usata le ha fatto crescere dentro. Vorrei ricordare il fortunato The Shadow King di Maaza Mengiste, che uscirà nel 2021 in Italia, e Regine di fiori e di perle di Gabriella Ghermandi. Qui sono le donne etiopi a prendere i fucili, non solo gli uomini. Ed è interessante vedere come due donne hanno seguito, ognuna a modo suo e con la sua lingua – Ghermandi scrive in italiano e Mengiste in inglese – la grande storia. The Shadow King è stata definita un'Iliade moderna: la gente non è abituata a sentire scrivere le donne di guerra, ma le donne sono sempre quelle che conoscono la guerra meglio, perché ne subiscono le conseguenze più atroci.

 

La letteratura ci regala una lettura comunque sempre complessa, una lente che va usata anche nelle ricerche. Altrimenti rischiamo per i prossimi anni di non avanzare. Una cosa che sento che manca è lo scambio con gli storici, e non solo, dei paesi coinvolti dal colonialismo italiano. Studiosi eritrei, somali, etiopi, libici. Solo loro possono aprire mondi ancora inesplorati. Quando ascolto i racconti di mia madre sul colonialismo, lei mi parla sempre dei suoi zii partiti ascari per la guerra d'Etiopia, e di come i crimini di guerra compiuti dagli italiani, stupri compresi, sono stati compiuti anche dai soldati coloniali. Sono sempre stata curiosa di sapere cosa di questa esperienza atroce gli ascari hanno portato a casa. Come questa violenza che è stata insegnata dai colonizzatori si è trasformata anche in violenza nei paesi di origine. Ho letto gli interessanti articoli di Uoldelul Chelati, docente di Storia e istituzione dell'Africa che, conoscendo il tigrino e l'italiano, ha più accesso alle fonti. Io conosco il somalo, la Somalia ha perso i suoi archivi e i suoi anziani ma ogni tanto mi capita di captare storie grazie al somalo. Non si possono sapere tutte le lingue del mondo, ma si possono creare alleanze. Ghermandi, Mengiste, Melandri lo hanno fatto per creare i loro romanzi. Questo metodo dell'alleanza nella ricerca deve diventare anche appannaggio dell'accademia e di chi fa divulgazione. Serve parlarsi e mettere a nudo anche i tanti segreti che la storia coloniale italiana ancora cela.

 

 

EM. In un tuo articolo su «Internazionale», Igiaba, hai scritto: «Prima di fare un museo del ventennio o del fascismo dovremmo rendere meno muta la storia dentro le città, decostruire i tabù, decolonizzare le menti. E forse la prima cosa da fare sarebbe quella di dare la voce alle tante vittime che il regime nei suoi vent’anni ha fatto, costruire un museo delle intolleranze per le vittime che quel fascismo ha causato». Ti riferivi al discorso sul fascismo, ma credo che questo discorso, che abbiamo fatto altre volte, possa riguardare, la maggior profondità con cui bisognerebbe guardare all'intero patrimonio culturale, trovando sguardi nuovi per «spazzolare contropelo» tutta la storia, per citare Benjamin.

 

Sembra che in questo periodo, tra il tema della – problematica – critica alla cosiddetta “cancel culture” e la questione della contestazione a statue e musei il lavoro comune, sia di grande attualità. Tu, come altri (ad esempio Wu Ming 2), hai scelto di scrivere e di raccontare i luoghi...

 

IS. Il dibattitto è scoppiato con virulenza solo ora. Ma sono almeno otto anni che si parla di statue scomode e memoria. Io e Rino Bianchi abbiamo realizzato Roma negata nel 2014 e devo dire che da allora c'è anche molto altro da dire. Qualcosa anche da raddrizzare. Occupandomi di Italia sono convinta che c'è bisogno di un lavoro di decolonizzazione dello spazio urbano. Una spiegazione, delle targhe, dei momenti di raccoglimento, e poi quando finirà il Covid si tratterà di portare le scolaresche, decostruire non in solitudine, ma soprattutto collettivamente. Conoscere, scoprire, diffondere, discutere. C'è bisogno di tutto questo. Da cittadina sento che oltre ai musei (c'è un interessante progetto a Roma che avrà al centro il colonialismo) e ai libri, ci servirebbe una monumentistica riparatrice. Come un tempo nelle cattedrali medievali, servirebbero una serie di affreschi contemporanei, penso alla street art, che raccontino a chi transita nello spazio urbano la storia coloniale rimossa per tanto tempo. Ruth Ben Ghiat sostiene che servano nelle nostre piazze le statue di eroi che incarnino i valori di solidarietà e resistenza, a maggior ragione oggi, in una Europa ancora troppo dominata dal razzismo. Forse fare statue ora costa molto, siamo in periodo di crisi, ma murales perché no? Sono anche molto contemporanei. Murales come quelli dedicati a Pasolini (a Roma nel Quartiere Pigneto) che un po' come atto di ribellione culturale e un po' con intento pedagogico ci raccontino eroi, crimini di guerra, vittime ma non vittimizzate... penso a vittime finalmente con la giustizia in mano. Sarebbe importante. E sarebbe importante che fossero cose belle da vedere, affinché l'occhio vi si posi non solo con curiosità, ma con piacere. Poi servirebbe tanta narrativa per ragazzi su questa storia.

Cominciamo a decolonizzare il nostro sguardo, non separandoci dagli altri che consideriamo persone che non sanno e quindi inutili, da lasciar perdere: occorre decolonizzare con un intento comunicativo e diffuso. Perché la cosa peggiore che potremmo fare è parlare di questo nelle grotte di un sapere chiuso. Il sapere su questo si deve aprire il più possibile.

 

EM. Carlo, come narratore e storico in libri come Bruciare la frontiera e L'età dei muri e come formatore nella promozione sociale (nell'Associazione Deina di cui sei stato uno dei fondatori) stai ampliando lo sguardo che dalle migrazioni arriva al colonialismo e intreccia un più generale problema di ingiustizia sociale, che inquadri nel recentissimo La storia ci salverà.

Stai coordinando (per Laterza) la scrittura di una manuale scolastico di storia e dirigi una collana di libri di storia, “Fact checking”, che intende apertamente affrontare in modo diretto ogni visione semplificata della storia, di fatto il suo uso pubblico che ingorga, o meglio inquina, la mediasfera e l'opinione pubblica della grande televisione generalista (ad esempio qui).

 

Qual è il posto da riservare alla narrazione delle tante Afriche e a una diversa nozione di identità che da questo deriva? Il manuale, per quanto possibile (considerato lo stadio delle nostre conoscenze e i nostri personali percorsi di studio e di ricerca), cercherà di scardinare almeno parzialmente la visione eurocentrica che ci trasciniamo addosso da tempo immemore, e vuole essere innovativo anche per altre ragioni – spero che avremo modo di parlarne anche qui, tra un po'. Come ti dicevo all'inizio della nostra conversazione quadripartita, ritengo tuttavia che sia fisiologico – e, forse, almeno in parte, giusto – procedere per cerchi concentrici, nel narrare la storia. Dalle storie scaturite dai e nei luoghi in cui viviamo, in sostanza, che muovono una particolare attenzione nel pubblico, specie se giovane – quelle dei nostri antenati “diretti”, se così si può dire, di coloro che vivevano in in Italia, in Europa, nel Mediterraneo, e via dicendo. Sono però totalmente d'accordo con Igiaba: è necessario guardare più in là, e per questa ragione servono alleanze tra storia e narrativa, tra studiosi mediterranei e studiosi che provengono dal continente che da sud si affaccia sullo stesso mare, tra semplici cittadini e cittadine che si interessano alla storia umana e chi lo fa di professione – ci sarebbe da tirare fuori il discorso della public history, ma siamo agli sgoccioli del nostro lungo dialogo. 

 

Bisogna cominciare a decostruire, a sottrarre terreno a chi si nutre di stereotipi e di rappresentazioni semplificatorie, mistificatorie e accomodanti della realtà. Nasce così, a proposito dell'altra grande avventura nella quale mi sono imbarcato con Laterza, l'idea di “Fact Checking”, inaugurata con un mio saggio: tra i prossimi quattro titoli – che usciranno tutti nei primi mesi del 2021, e che hanno come frame la storia italiana; poi allargheremo lo sguardo con titoli successivi – ce n'è uno in particolare che darà una poderosa spallata a tante certezze infondate che serpeggiano nello spazio pubblico italiano ancora oggi. La domanda, se guardiamo all'Africa e agli altri continenti dalla nostra prospettiva, rimane urgente: chi siamo “noi”? Ma esiste davvero, questo “noi”, o è da un paio di secoli mal contati che chi vive in questa penisola è totalmente in balia di una sapiente costruzione di un senso di appartenenza letale, asfittico, escludente? Per dirla con te, Enrico, “l'identità non è qualcosa”: l'hai scritto in un prezioso articolo su lastoriatutta.org, uno spazio virtuale per un sapere storico critico e problematico che abbiamo aperto con altri colleghi e altre colleghe proprio quest'anno, dicendoci che la storia va raccontata, e va raccontata tutta. Battersi contro gli stereotipi, le distorsioni e le rimozioni della storia umana deve essere uno degli obiettivi del lavoro culturale in senso lato (dai musei agli spazi urbani, dall'audiovisivo alla carta stampata, al web), e lo si deve fare con onestà intellettuale e sapendo di essere sempre in cammino. Il nostro sentirci parte di una comunità è a sua volta un prodotto del tempo in cui stiamo vivendo, ne dobbiamo essere consapevoli; e se dovessi chiudere con una proiezione nel futuro ti direi che lo intravedo, uno scenario nuovo.

 

Intravedo un mondo nel quale in tutti questi spazi, fisici, testuali e virtuali, si facciano largo finalmente e definitivamente voci che portano storie lontane, afropei e afroitaliani, per restare nel tracciato che ci siamo dati per questa lunga conversazione, e più in generale donne e uomini Anywheres, per riprendere la nota – e netta, pseudoreazionaria, accusatoria e naïvedefinizione del conservatore britannico David Goodhart, che però aveva colto, anni fa, un punto. E cioè che ora nel pianeta in cui viviamo esiste in effetti una spaccatura piuttosto marcata (con tutte le “zone grigie” del caso) tra chi ha bisogno di sentirsi un Somewhere, essendo convinto/a a tal punto che l'identità sia qualcosa da percepire quasi fisicamente delle radici attaccate al suo involucro, e chi invece rifiuta questa pagliacciata in nome di un cosmopolitismo con una storia plurimillenaria, che si reinventa ogni generazione – e siamo a uno snodo decisivo, credo. L'abbiamo detto in chiusura della scorsa “puntata”: la storia è e deve essere un lungo incontro tra gli uomini, a prescindere dai loro tratti territoriali. Abbiamo solo da guadagnare se riusciremo a costruirla davvero, un'altra storia. "

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