Sono tempi duri, da dove vuoi che inizi?
Lasciatemi cantare, ho il cuore che scoppia!
Le parole arriveranno e un microfono non basterà!
Mc Manar
Lunedì. Milano.
“Ena esmi Valeria, piacere”.
“Vanilla!”.
“No, Va-le-ria”.
“Va-nil-la!”. A gesti mi spiega che è buona, che si mette nelle torte, ed è dolce.
“Vanilla va benissimo”.
Questo è il mio primo incontro con Alaa, detto Abu Manar (Abu significa padre) un uomo alto e baffuto, con l’occhio nerissimo che brilla, sempre in bilico tra l’ironia e la tristezza. E’ passata una settimana da quando Marta, amica e coinquilina a Tunisi, mi ha scritto una mail con un oggetto che non poteva non stimolare la mia curiosità: “TOP SECRET MAIL URGENTE”. E’ il 2 novembre. “Sei abbastanza libera e abbastanza folle da viaggiare da Milano a Stoccolma in macchina inscenando un matrimonio a Stoccolma a portare dei siriani, servono abiti eleganti, ci sarà la banda e sarà una commedia-documentario... ”. Si è abbastanza liberi e abbastanza folli?
Perché la follia alla fine è facile, si lascia da parte l’aspetto razionale e si assecondano gli eventi, per uno, due, anche quattro giorni come mi era richiesto. La vera questione è la libertà. In quel momento, leggendo le parole di Marta, egoisticamente pensavo alla mia. Che cosa dire all’università per non partecipare a un seminario. Come essere a Bari a un altro arrivando da Stoccolma. Come gestire i rischi e le preoccupazioni. Alla fine io con il diritto ci lavoro, e per quanto le mie posizioni siano spesso state radicali, il senso civico fino allora ha sempre prevalso, ho sempre scelto di adottare la via istituzionale, il cambiare le cose dall’interno. Di base mi mette ansia anche stare sull’autobus senza esser riuscita a fare il biglietto, e immaginarmi tra i confini europei con un gruppo di siriani senza documenti mi sembrava qualcosa di lontanissimo da me. Eppure. Lì, nelle poche righe lette sul treno, mi si offriva l’opportunità di scegliere da che parte stare. Non ho dormito per due notti. Mi figuravo scenari apocalittici. La pancia non mi dava pace, perché è lì che finiscono i pensieri emotivi, e ti obbligano a farci i conti. Dovevo dare una risposta. Di solito, quando non so che decisione prendere, la cerco nei libri.
Pensavo a Dürrenmatt, che parla dell’emozione avversa dei cittadini nei confronti dello Stato. Ed io quell’emozione l’avevo provata, giusto due settimane prima, quando ero entrata al CIE di Corelli. E, poi, più strutturate, alle parole di Hannah Arendt: “Atti di disobbedienza civile intervengono quando un certo numero di cittadini ha acquisito la convinzione che i normali meccanismi del cambiamento non funzionano più o che le loro richieste non sarebbero ascoltate o non avrebbero alcun effetto”, oppure “quando essi credono che sia possibile far mutar rotta a un governo impegnato in qualche azione la cui legittimità e la cui costituzionalità siano fortemente in discussione”. E di nuovo, Harper Lee: “Atticus aveva ragione. Una volta aveva detto che non si conosce realmente un uomo se non ci si mette nei sui panni e non ci si va a spasso”. La risposta c’era. E ora mi trovavo lì, agitatissima. Stavo per partire. Sono già “Vanilla”.
Ho rovesciato il caffè sul computer e sul diagramma della composizione delle auto. Siamo in un ufficetto di isola: Gabriele, Antonio, Khaled, Alaa, e Manar. Manar ha 11 anni. Mi guarda di sbieco, con curiosità e diffidenza. Sono donna. Sono sconosciuta. Non parlo arabo. Ha tutte le ragioni per non fidarsi. Gli sorrido. Il papà, Alaa scatta una selfie di noi tre. È in ciabatte. A Milano fa freddo, e qualcosa stona nell’abbigliamento di quell’uomo. I vestiti sono capitati addosso. Distribuiti. Chiede a Manar di scattarne un’altra. Manar si innervosisce. Io gli sorrido e gli faccio una smorfia buffa. Mi offre le patatine. Stiamo stretti sul divano, vicini, ed io non so nulla di lui, solo che è arrivato lì, e che prima era in Siria. E penso ai miei 11 anni, in cui la massima difficoltà era attraversare la strada provinciale che divideva la piazza dalle poche case del paese. E mi viene in mente l’odore delle sigarette albanesi, terribile, intenso, così diverso dalle Merit Blu di mia mamma e dalle Muratti del papà. Sono senza filtro, e riempiono la cucina.
Il mio primo ricordo di una migrazione. Di anni ne ho 9. Dagli sbarchi di Durazzo una famiglia è arrivata a Melara. Mamma, papà, figlio. Sono nel mio salotto. I miei genitori hanno deciso di dare una mano. Perché non c’è nessuna ragione, né merito, mi dicono i miei, perché io non sia al posto di Kledi. Tantomeno, oggi, al posto di Manar. Ha i vestiti grandi, di un paio di taglie di più, ma è fiero del cappellino da rapper. Il giorno prima sono stati sui tetti di Milano, a cantare nella sala prove della Bovisa con i giovani del quartiere. E’ felicissimo. Ogni tre parole ripete “A’ la Suede”. La Svezia che pensa lui non è quella che ho visto io, con le lampade alle finestre e i giardini e le persiane colorate. La Svezia di Manar è il rap, la scuola, il ricongiungersi con la mamma e con i fratelli, che forse potranno arrivare un domani, quando lui e il padre otterranno l’asilo politico. Mi regala un’altra patatina. Ed io mi organizzo sul da farsi, perché ormai so da che parte stare.
Martedì sera. Casa Mia.
La casa è una stanza unica, divisa da un muretto. Sul mio divano ci sono Mona e Abu Nawaar. Parliamo a gesti. Potrebbero essere i miei genitori. Marta si sta lavando i denti. Sul tavolo il kit dell’igiene che è dato in dotazione ai richiedenti dopo gli sbarchi. Una busta grande di plastica piena di pacchettini di alluminio con un micro-shampoo, uno spazzolino da denti. Mona e Abu Nawaar si fermeranno da me fino al giorno della partenza. Sono arrivati con un paio di pantaloni in mano e con il pentolino per fare il caffè arabo prestato da Khaled.
Mona dorme immediatamente sul divano, e Abu Nawaar la guarda, protettivo, indossando una maglietta della nazionale italiana troppo stretta. La scritta “Italia” campeggia sul petto, ed ha quel sapore agrodolce di benvenuto turistico posticcio. Sono i vestiti distribuiti dal centro accoglienza. Non riuscendo a comunicare, improvvisiamo un corso di arabo-italiano a gesti. Mi insegna “bagno”, “hammam”. Io conosco “luna”: “Gamra”. Lui sceglie “cuore”, “Kelb”, “luce”, “nur” e “miele”. Nel mezzo, ridiamo un sacco. Ci addormentiamo da una parte e dall’altra del muretto. Una porzione di me continua a pensare che tutto sia una follia. Un altro pezzo di Valeria però è già affezionato. E la libertà in gioco non è più la mia.
Vengo svegliata dalla brutta tosse di Abu Nawaar. Immediatamente penso: “Tubercolosi! C’è sempre nei centri d’accoglienza! Sei una cretina! Ti sei infilata nel più grande casino della tua vita!”. Poi mi calmo. Abu Nawaar si sveglia e dal divano letto accende una sigaretta. E’ solo un tabagista incallito.
Mercoledì sera. Casa di sconosciuti in zona Sempione.
Arrivo col bouquet. La stanza è piena di gente, bambini, donne, uomini. Non so bene chi ci sia, chi partirà e chi no. C’è Gina, la moglie di Antonio, con i due bambini. C’è Alex, la compagna di Gabriele, con Nefeli. Loro non partiranno con noi, novelle Penelopi in attesa del ritorno, consapevoli che i rischi sono tutti sulle loro spalle. Manar mi abbraccia. Si è fatto tagliare i capelli dal parrucchiere con tre scalature tamarrissime. Abu Manar mi fa capire che i loro abiti da nozze sono spiegazzati. Inizio a stirare, in quel modo senza senso con cui si fanno le cose quando l’agitazione è forte. Mona e Abu Nawaar sorridono: estraggono i miei cappelli, che hanno preso dal soggiorno. Gli stanno benissimo e si pavoneggiano come bambini. Sono belli con i loro capelli nuovi e i vestiti da festa. Sembrano più giovani. Manar scappa fuori, sul balcone di questa casa di ringhiera affollata, in lacrime.
Vuole parlare con la mamma. Dopo due giorni da adolescente, stasera torna a essere bambino. Ci mettiamo nella stanzetta, con il pc. Marta cerca la mamma su Skype. Nell’altra stanza c’è Tasneem. Io e Gina la aiutiamo a vestirsi e a truccarsi. Sulla scapola ha la cicatrice di una granata. Ci ha costruito attorno un fiore, come tatuaggio. Gina le tocca la spalla e le dice: “Devi andare fiera dei segni del tuo passato, la devi sfoggiare”. Arrossisco per l’imbarazzo. C’è tutto un pezzo di dolore che per sorte non conosco e non riesco a capire. E mi sento fortunata, non solo per essere lì in quel momento. Non solo per essere stata incosciente. Ma per essere sempre stata libera davvero, e averlo dato per scontato. Entra Marco, il fotografo, con discrezione: “Posso vedere la sposa?”.
Arriviamo in salotto. Le riprese iniziano. La mappa viene stesa. Stiamo per partire.