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Speciale Fellini / 8 ½. Una profezia sulla creatività
Cento anni fa, il 20 gennaio 1920, nasceva a Rimini Federico Fellini. Lontano dalle celebrazioni, su doppiozero vogliamo raccontare un regista-antropologo che ha saputo penetrare come pochi altri l’identità (politica, storica, sessuale) italiana. Uno sguardo critico e al tempo stesso curioso, da “osservatore partecipante”, che si affianca a quello di tanti altri intellettuali e artisti (da Leopardi a Gramsci, da Salvemini a Bollati) che negli ultimi due secoli hanno cercato di spiegare quello strano oggetto chiamato Italia. Abbiamo voluto raccontare Fellini attraverso i personaggi e i luoghi dei suoi film: dallo Sceicco Bianco a Casanova, da Gelsomina a Cabiria, da Sordi a Mastroianni, dalla Roma antica a quella contemporanea, passando ovviamente per la provincia profonda durante il Ventennio fascista. Una sorta di “album delle figurine” per aprire nuovi sguardi su un cineasta forse più amato (e odiato) che realmente studiato.
"Distruggere è meglio che creare, quando non si creano le poche cose necessarie".
La battuta dell’intellettuale Daumier non è prevista dalla sceneggiatura originale di 8 ½ di Federico Fellini (dove Daumier si chiama Carini) e viene pronunciata nel suo ultimo monologo, subito prima del finale del film. Deve dunque essere una di quelle interpolazioni che, secondo la mitologia felliniana – alimentata fra l'altro da questo medesimo film –, venivano prodotte sulla sceneggiatura prevista in piena lavorazione, se non già sul set. Quanto viene affermato da questa battuta prende poi il rilievo di un principio di poetica d'autore, principio però non assoluto poiché espresso in forma dialettica, se non polemica, da un personaggio la cui funzione narrativa ha qualche analogia con quella del Grillo Parlante nel capolavoro di Carlo Collodi. Fare e non fare, e anche essere e non essere: le due polarità fra cui oscillano in sospensione sia il film di Federico Fellini sia quello di Guido Anselmi. È davvero "necessario" quanto si sta "creando"? Non è invece il caso di distruggerlo?
Nella battuta di Daumier ricorre il verbo "creare" che è tutto sommato tradizionale nel lessico dell'estetica, a partire dalla visione romantica del fare artistico. Lo si può notare seguendo le vicende lessicografiche dei lemmi italiano derivati da "creare". Il Vocabolario degli Accademici della Crusca, nel 1612, definisce "creare" come "Far qualche cosa di non niente", con esempi tutti riferiti alla creazione divina; in una seconda accezione è considerato come termine metaforico per "generare". Nel 1865 il dizionario Tommaseo-Bellini registra usi fraseologici come «creare un poema» e ricorda alla voce "creare" il detto di Ugo Foscolo: "Odio il verso che suona e non crea" e lo commenta con malignità: "Ma il suo verso non so se crei". Per Benedetto Croce il verbo "creare" interviene nel mettere in rapporto spirito e materia: "La poesia crea essa, come ogni altra attività spirituale, colla soluzione il problema, con la forma il contenuto, che non è materia informe ma formata" ("La poesia e la letteratura", in: La Critica, n. 33/1935). Occasionalmente Croce ha anche impiegato l'aggettivo "creativo". Accade così in un altro passo del medesimo saggio, dove il punto è la distinzione fra espressione naturale e poetica: "L'espressione sentimentale o immediata si chiama 'espressione' nel dire comune, ma tale non è né in senso teoretico né in senso pratico, cioè non è espressione nel senso attivo e creativo, che è il solo giusto [...]". Nell'accezione naturale, il termometro che segna 38 gradi è "espressione" di febbre e il rossore del viso è "espressione" di pudore o imbarazzo (o anche "febbre", certo); ma per espressione poetica va inteso qualcos'altro, qualcosa che è appunto caratterizzato dall'essere "attivo e creativo".
Nel 1905 il «Dizionario moderno» del Panzini alla voce «creazione» aggiunge l’accezione corrente nella moda, derivante dal francese création, e la bolla come «ridicola» (opponendole l'italiano «invenzione»).
Il capolavoro di Fellini è del 1963, anno eccezionale per la cultura italiana e per il suo rinnovamento che stava per avvenire a contatto con l’industria culturale di massa e in reazione ad essa, che era allora allo stato pressoché nascente. A quell’epoca, in Italia, non era ancora davvero comune l’uso del nuovo derivato del verbo «creare», e cioè «creatività». Se ne erano avute alcune ricorrenze precoci (per esempio ancora in Benedetto Croce): ma sempre fortemente legate alla dimensione spirituale se non teologica. Infatti il dizionario Devoto-Oli data l'ingresso del lemma "creatività" nell'uso italiano al 1951 e l'etimologico di Cortelazzo e Zolli data al 1970 l'accezione sostantiva e di settore pubblicitaria del lemma "creativo".
Appare significativo che nel discorso del critico Daumier l'idea di "creare" venga vista al negativo, con cautela se non diffidenza. Il film è dedicato infatti a quella che nei decenni seguenti si sarebbe chiamata una «crisi creativa», forse la più tipica delle crisi creative, o meglio il loro prototipo. È anche significativo che un gioco (o esperimento) collettivo sulle definizioni di «creatività», condotto dal Festival della Mente di Sarzana nel 2012, quindi a mezzo secolo esatto dalla lavorazione del film di Fellini, connetteva alla creatività immagini, suggestioni e concetti che nel film di Fellini sono pure presenti. Il sogno, il volo, il distacco di un soggetto dalla realtà «banale» e condivisa, la rottura dei vincoli, il rischio: temi che troviamo esposti nel film sin dal sogno con cui si apre e che ricorrono nelle duecento definizioni prese in considerazione durante quell'esperimento (le ho esaminate nel mio Il falò delle novità. La creatività al tempo dei telefonini intelligenti, Utet, Milano 2013).
Il ritorno all’infanzia, anche questo tipico dei discorsi sulla creatività, ricorre nei sogni e nelle rievocazioni del regista Guido Anselmi. Del film che ha immaginato veniamo a sapere che si tratta di un viaggio in astronave dei reduci di una guerra termonucleare che ha reso inabitabile la Terra. Della creatività come trasporto su nuovi mondi pure parlano alcune definizioni e anche della creatività come regressione solo verso l’infanzia (del soggetto) ma anche verso uno stadio pretecnologico e puro, naturale (della specie), a cui nel film allude il tema termale della «fonte».
Potremmo pensare che si tratti di coincidenze oppure che sia, in qualche modo, «naturale» che il tema della creatività venga rappresentato da questo genere di figure (in Fellini non manca neppure il tema genitoriale della venuta al mondo: nei colloqui onirici con i genitori defunti, ma anche nel lapsus di Anselmi durante l'anamnesi della visita medica inaugurale: «Ha figli?» «Sì, cioè no»).
L’ipotesi che pare invece la più promettente è che in forza della sua notorietà e del suo impatto con il pubblico, 8 ½ abbia modellato la nostra concezione della creatività (allora nascente), nel doppio registro della creatività bloccata di Anselmi e di quella invece, al culmine della sua potenza espressiva, di Fellini. La prima ha prodotto quella che il suo critico Daumier ritiene essere "una suite di episodi assolutamente gratuiti"; la seconda invece costruisce una serie di piani di realtà, incastrati l'uno nell'altro: il sogno, la realtà, il racconto, la menzogna, il sogno a occhi aperti (la visione conscia, guidata e "girata" da Anselmi: l'episodio dell'harem), il ricordo, la realtà sceneggiata (il gioco teatrale erotico in albergo con Carla), la progettazione e produzione del film, il commento sul film. Gli episodi sono i medesimi, ma non sono più "en suite": si presentano come piani comunicanti, attraversati per esempio dal personaggio di Claudia che – con lo stesso nome che ha nella realtà esterna al film di Fellini – compare sia all'esterno sia all'interno del film di Anselmi, sia nel ruolo ambiguo della ragazza della fonte. In modo meno insistito, il film (di Fellini) propone provini per i personaggi del film (di Anselmi) che però coincidono con quelli del film (di Fellini): Carla, la moglie, la Saraghina.
I film in gioco sono in realtà tre: 8 ½ di Fellini, il film con l'astronave vagheggiato da Anselmi e poi un film intermedio fra i due, che potremmo chiamare l'8 ½ di Anselmi: è il film a cui si riferiscono le stroncature del critico e i provini dell'autore. È un altro carattere costante della creatività il fatto di alludere continuamente a sé stessa, aggiungendo sempre nuovi livelli metalinguistici, mettendo continuamente in discussione i mezzi espressivi grazie a cui si manifesta. È ciò che avviene esemplarmente nel punto in cui quale sia il ruolo del regista lo dichiara una battuta della moglie del protagonista: “Io so quello che mi fai vedere tu”. Il regista è tale perché fa essere ciò che dà a vedere: è un creatore, non più per metafora ma in un'accezione autonoma, pressoché propria e ancora debitrice, però, dei dettami crociani. La creatività propizia l'incontro di spirito con la materia, dà vita agli oggetti inanimati così come la formula "Asa Nisi Masa" (che significa "Anima" nel linguaggio infantile dell'"alfabeto serpentino") non è solo la chiave del gioco telepatico ma ritorna anche come formula che perlappunto anima gli occhi di un ritratto nel buio notturno della stanza dei bambini. Infanzia, magia, memoria, arte figurativa e finalmente cinema: gli occhi del ritratto sono quelli del regista, occhi che Guido tiene nascosti da occhiali da sole (occhiali non per vedere, ma per riparare).
Nel mettere in questione il proprio lavoro Fellini individua una serie di elementi tematici ma anche astratti e metasemiotici che di lì a poco si comunicheranno lungo i tramiti massmediali, si diffonderanno, non saranno più riservati alla sfera dell'arte. 8 ½ è stato anche un film popolare: fosse solo stata la confessione di un grande artista internazionale in crisi di mezza età e mezza carriera (a cui allude la cabala del titolo) avrebbe molto più difficilmente interessato platee tanto vaste. È un film che invece contiene un'intuizione generale: che l'uomo "comune" non avrebbe avuto ancora a lungo intenzione di restarlo. Tutti sogniamo, tutti abbiamo ricordi d'infanzia, tutti vagheggiamo il volo, tutti vorremmo spiegarci, tutti siamo accidiosi, scaltri, bugiardi, sgomenti.
Lo sceneggiatore Ennio Flaiano aveva proposto per il film il titolo "La bella confusione", titolo scartato da Fellini e che mette in evidenza proprio la complessità dei piani di realtà rappresentati nel film. Se l'origine della crisi di Anselmi è la volontà di non fare più "film bugiardi", la soluzione sarà quella di raccontare la confusione dei piani di realtà: per quello Flaiano avrebbe voluto chiamarla "bella" e per quello nel finale il bambino è lo stesso Anselmi che, nella confusione, ha trovato il ritmo per la composizione. La confusione, cioè, non è l'ostacolo alla rappresentazione ma è proprio la cosa da rappresentare.
Il sottofinale propone infine un confronto quasi drammatico fra critico e mago e si potrebbe interpretarlo come un confronto tra ragione che distrugge e magia che crea. Sarebbe però una lettura riduttiva; diviene più interessante se sostituiamo alla ragione la consapevolezza. Per produrre il nuovo occorre sbilanciarsi e nello squilibrio non vi è consapevolezza; voler avere la piena consapevolezza dei propri atti è un atteggiamento improduttivo. Come dice un personaggio di un'opera per certi versi analoga (e nella sua prima edizione perfettamente coetanea), cioè i Fratelli d'Italia di Alberto Arbasino, non si è mai capito il motivo ma perché qualcuno arrivi a compiere effettivamente qualcosa, in campo artistico e no, è necessario che abbia un "côté bête". La profezia di Fellini copre anche questo aspetto, apparentemente marginale e certo non propriamente nobile della creatività.