Seconda parte / Un'altra storia? Conversazione con Igiaba Scego e Carlo Greppi
Continua la conversazione con Carlo Greppi e Igiaba Scego (qui la prima parte) sul tema del colonialismo, nel senso più ampio del termine, e dei presupposti inesplicitati di una immagine del mondo e della storia eurocentrica, bianca e maschile che si riflette nella cultura contemporanea.
Enrico Manera: Il volume Africa antica di Fauvelle rifugge anche dall'esotismo, uno sguardo romantico che è un serbatoio di stereotipi ingenuamente positivi ma in realtà “tossici” nel momento in cui in modo semplicistico e decontestualizzato fanno del continente africano un «santuario naturale» circondato da «società invadenti e minacciose»: tale racconto è inestricabilmente saldato a quello della schiavitù e del colonialismo a sua volta innervato dai molti stereotipi razzisti. L'Africa, più dell'Asia, sembra essere nel nostro racconto storiografico comune e consolidato sempre un'iperbole, un simbolo, un fascio di pretesti che serve come liquido di contrasto per evidenziare quello che l'Europa fa.
Igiaba Scego: Io ho letto anche Il Rinoceronte d'Oro di Fauvelle e mi ha strappato un sorriso quando racconta di Zhenh He, grande ammiraglio della flotta cinese, che raggiunge l'Africa, esattamente il Corno d'Africa un paio di volte intorno al 1417-19 e successivamente nel 1421-22. Arriva in alcune città della Somalia odierna, come Brava e Mogadiscio. E della futura capitale somala, i pochi resoconti lasciati da membri della flotta, viene detto che «le case hanno quattro o cinque piani, gli abitanti sono rissosi e tirano con l'arco». Ecco ho riso, perchè si potrebbe dire che ancora oggi molti somali tendono a essere rissosi, abbiamo un carattere allegro, ma fumantino. E ho riso come una matta, davvero di cuore, perchè non è cambiato molto dai tempi di Zhang He. Ma poi penso a come i giovani della diaspora somala nati all'estero e che non hanno visto mai il paese, tendono a immaginare la Somalia come quel santuario naturale di cui parli. Non vedono quella ferocia che abbiamo e che si accompagna alla gentilezza proverbiale del popolo somalo. Quelle caratteristiche che dai viaggiatori cinesi in giù hanno visto un po' tutti. Il paradosso è che non la vedono più quei giovani somali di origine e di nascita europea. Mi ha molto colpito tempo fa un video del Guardian dal titolo Somalinimo: young, gifted and Somali... and at Cambridge. Storie di quattro ragazze somalidiscendenti, britanniche, a Cambridge.
Nelle loro parole vedevo tanto le ragazze inglesi, con i traumi e le ferite lasciate dal vivere come minoranza in un paese dove una parte della popolazione è nostalgica di quell'impero dove non tramonta mai il sole. Vedevo comunque in filigrana la loro vita trascorsa in case popolari, con una famiglia numerosa, dove dovevi studiare, ma anche badare ai fratelli più piccoli, dove succedeva che per il colore della pelle o il velo islamico si potevano subire delle discriminazioni. E poi vedevo lo sforzo che hanno fatto per raggiungere Cambridge, farlo da ragazze somalodiscendenti, nella Gran Bretagna della Brexit. E infine intravedevo nelle loro parole pacate e nella loro capacità ponte di passare da una lingua all'altra, anche però quel costruire una Somalia ideale che nella realtà non è mai esistita.
Per loro la Somalia sono i valori, la lealtà, ma anche il the caldo al cardamomo e cannella bevuto in una casa nella periferia di Manchesther o Londra. Non conoscevano bene la storia del paese, i motivi della guerra, ma forse non importava nemmeno saperlo. Bastava il pregiudizio positivo, del paese culla, del paese immaginato... e la Somalia, va detto, è più immaginata di altri paesi africani, perché distrutta dalla guerra e viva solo nei racconti. Guardando le ragazze del video del Guardian, provavo una grande ammirazione e tenerezza per loro. Ma anche paura per quei pregiudizi positivi che ci allontanano dalla realtà.
Perché davvero è pericoloso vedersi con lenti immutabili o solo positive. Ritorno a dire che l'Africa per liberarsi dalle scorie coloniali ha bisogno di conoscersi intera, in tutti gli errori fatti, in tutte le strade sbagliate prese e in tutta la complessità delle persone che l'hanno costruita. Io sono di origine somala come quelle ragazze del video e ho capito che mi ha aiutato molto non illudermi sulla Somalia come, devo dire, non mi sono mai illusa sull'Italia. Sono paesi che hanno una storia spesso frammentata, disunita, feroce. Guardarla negli occhi è l'unico modo che abbiamo per non precipitare in una menzogna. A me ha aiutato guardare negli occhi la storia. E questa complessità cerco di metterla nel mio lavoro di scrittrice.
Carlo Greppi: L'ha detto bene Igiaba: «è pericoloso vedersi con lenti immutabili», e lo ribadisco con convinzione. Se da un lato è legittimo riconoscere che i tratti culturali e le ricorrenze specifiche di determinate società esistono e sono anche “disposti” su base geografica, dall'altro è una materia incandescente che bisogna saper dominare, come in questi anni ci ha mostrato il prezioso lavoro di antropologi come Francesco Remotti, Marco Aime e Adriano Favole, di cui ha parlato Doppiozero.
È urgente decostruire l'immagine stereotipata di un’“Africa” che è esistita solo nei nostri occhi, ma in parallelo credo che sia legittimo continuare a “utilizzarla” – con cautela, certo – come pretesto per mettere in evidenza la plurisecolare storia di dominio che ha messo quell'area geografica, generalmente suo malgrado, in relazione con molti paesi europei, tra i quali ovviamente l'Italia. Mi torna in mente, com'è ovvio, il dibattito scaturito dall'affaire Montanelli, quando il giornalista è stato messo “sotto accusa” (giustamente, per come la vedo io) soprattutto per il suo passato imperialista. Erano cose note, hanno detto in molti – soprattutto i succitati maschi bianchi potenti over-50 – per sviare le polemiche o per distaccarsene: quel passato si conosceva già. Ma è vero?
“Si sa”, ad esempio, che il neonato Regno d'Italia nell'Ottocento, come già avevano fatto e stavano facendo le maggiori potenze europee sbranandosi il continente, tentò in vari momenti di accaparrarsi brandelli di terre africane senza curarsi di chi lì viveva? “Si sa” che con la guerra ingaggiata contro l'impero ottomano nel 1911-12 l'Italia liberale riuscì in effetti a conquistare una parte di quella che conosciamo come Libia, facendola pagare a caro prezzo a chi si oppose e alla popolazione locale? “Si sa” che poi durante il fascismo, con la “riconquista” del territorio libico prima (cioè la conquista vera e propria di Tripolitania, Cirenaica e Fezzan) e poi con l'“impresa” in Africa Orientale le truppe italiane si macchiarono di crimini terrificanti in Etiopia ed Eritrea in particolare, quali l'internamento sistematico degli abitanti in campi di concentramento, il bombardamento sulle popolazioni locali con gas tossici e letali (vietati dal Protocollo di Ginevra del 1925), gli stupri e le stragi di civili? “Si sa”, tutto questo, in Italia, a prescindere dalle raccapriccianti traiettorie biografiche degli uomini andati all'“avventura” come appunto Montanelli? Quanto sappiamo di questa storia, che pure è percepita come “nostra”?
Per molti nativi italiani di oggi questa è probabilmente una vicenda che ha riguardato i loro nonni o i loro bisnonni, che magari erano proprio tra le centinaia di migliaia di uomini mandati a conquistare “un posto al sole” e a reprimere la resistenza locale in Libia o nell'Africa Orientale Italiana. Ma, per l'appunto, è anche la storia di chi quella sete di conquista l'ha subita e dei suoi discendenti, una parte dei quali vivono ormai in Europa, come raccontava Igiaba. Ecco: la spaventosa stagione imperialista, così come la tratta atlantica e in generale la schiavitù, sono due gigantesche ferite inferte dai paesi a nord del Mediterraneo a quelli a sud, e questa è una pagina – fittissima, natualmente – che va affrontata senza tentennamenti assolutori. Una volta “fatti i conti” si può continuare a lavorare sulle storie percepite come “altre”; e le due operazioni possono e devono naturalmente, nutrirsi l'un l'altra di complessità. Ma anche la “nostra” storia va raccontata, e va raccontata tutta.
EM L'immagine mitica dell'Africa si associa poi anche a quella delle origini, un altro mito potente e nemico della storicità: l'Africa, dentro il paradigma orientalista, diventa una riserva di genuinità e spontaneità per rinnovare le concezioni estetiche della borghesia europea. Di più, se la vediamo da un punto di vista spirituale. Nei miei studi mi ha sempre colpito la vicenda di Leo Frobenius, l'antropologo e africanista tedesco che agli inizi del XX secolo cercava in Africa le tracce perdute di Atlantide: il suo africanismo presupponeva il carattere pre-logico della mentalità “primitiva” e di una coscienza “arcaica” estranea allo spazio-tempo e alle leggi della causalità. Così, da un lato il razzismo scientifico era diffuso e insegnato, esportato dall'Europa in America in tutto il mondo, alimentava le politiche genocidarie, come avviene con il genocidio Herero-Nama in Namibia (operato della truppe tedesche dell'impero guglielmino a partire dal 1904); dall'altro per alcuni intellettuali reazionari la vitalità della coscienza africana si manifestava come un modello per la sua opposizione al pensiero razionale, da rivalutare in funzione anti-illuminista e anti-razionalista, nella battaglia della Kultur contro la Civilisation. In molte immagini culturali apparentemente afrofile, come sintetizza Fauvelle, si realizza una proiezione, una nuova versione del buon selvaggio di Rousseau, che ci fa «vedere nell'Altro […], un “noi stessi” nella nostra infanzia».
IS: Confesso che ho amato molto il film della Marvel Black Panther. Avevo bisogno come tanti di sublimare il mio bisogno di esistenza, quel mio io esisto, nella figura di un supereroe nero. Guardando Black Panther mi sono risentita la bambina senza modelli degli anni '80, una bambina nera in un mondo bianco, una bambina nera che non poteva specchiarsi in niente che le assomigliasse. La bambina che vedeva un sé inferiorizzato nei film e nelle pubblicità. Una bambina che ha avuto una sete tremenda di un modello positivo che non arrivava mai. Non a caso molti, sia all'uscita del film e sia nella triste occasione della morte dell'attore protagonista del film Chadwick Aaron Boseman hanno scritto che hanno aspettato, 20, 30, 40 anni prima di avere un supereoe. Credo di aver amato tutto di quel film: i costumi, l'ambientazione, la generalessa che ferma i rinoceronti con una mano, le tute al vibranium. Ho amato davvero tutto. Ma allo stesso tempo mi sono detta che come tutti i prodotti fantasy quel film mi stava dando il mito, l'immaginario, non la realtà. Un mito arcaico di lotte per la supremazia, di piante officinali, di stregoni, di sogni ancestrali. Il tutto mischiato con la tecnologia, il vibranium, le boscaglie lussureggianti come la Svizzera. In un film fantasy ci sta. E infatti non rinnego nulla, mi è piaciuto. Molto. Era fatto molto bene. Ma il film mi ha fatto capire (visto che poi ci sono stati prodotti simili non così riusciti dopo) che siamo noi afrodiscendenti, che in Africa abbiamo vissuto poco o per niente che ora siamo noi quelli che rischiano di mitizzare l'antichità di un continente. Rendendolo piatto, privo di complessità, ancestrale o addiriutta primitivo. Ho visto un video di recente di un giovane rapper tempo fa, non farò nomi e non dirò nemmeno la nazionalità, e mi ha sconvolto.
Mischiava la sua biografia a delle immagini molto colorate, ma molto irreali dell'Africa. Era tutto un trionfo di turbanti bianchi, che ricordavano Bahia, e tele wax, che ci sembrano tanto made in Africa, ma sono un prodotto che ha viaggiato tra Indonesia e Olanda. Tutto era spacciato come autentico africano, anche nella gestualità esagerata, ma niente era autentico. Anche perchè non esiste un autentico africano. Perché appunto come dicevo prima non esiste l'Africa, esistono le Afriche. E sono tanti paesi, tanti popoli, tante lingue, tante visioni. Per lui l'Africa era un prodotto standard, con caratteristiche standard, che però doveva veicolare valori come verità, purezza, autenticità, perfezione, saggezza. In quel video non c'era niente del caos di Luanda, Lagos o Kampala. Non c'era il sorriso di Mogadiscio o gli odori speziati di Tunisi. Non c'era Cape Town, non c'era Rabat, non c'era il Cairo con le sue piramidi o Khartoum con i suoi rivoluzionari. Era un video che alla fine con la sua pretesa di essere l'Africa vera, non era niente. E il pericolo grosso che vedo è che siano gli afrodiscendenti tra Europa, US, Australia ecc. a rimettere al mondo degli occhiali coloniali. Forse gli afrodiscendenti devono anch'essi decolonizzare il proprio sguardo, per avvicinarsi ad un continente che non gli appartiene veramente. Loro che hanno più dimestichezza con le strade di Bruxelles o di Napoli devono spogliarsi della lente del colonizzatore, che ha condizionato anche il loro sguardo, liberarsi di tutto, e cominciare a guardare quel continente plurale, quelle Afriche, con delle lenti meno mitizzanti e più aderenti al reale. Questo discorso lo faccio anche a me stessa. Questo mi salva dal manicheismo dei personaggi che creo.
CG: Ecco, questo è un tema centrale: le trappole identitarie sono insidiose per tutti, anche se è più facile parlarne da maschio, “bianco”, eterosessuale cresciuto in un asfissiante martellamento di “modelli” alternativi a Black Panther (e su questa sovraesposizione ci sarebbe molto da aggiungere alle riflessioni di Igiaba). E la storia, soprattutto nel supermercato delle narrazioni epiche, eroiche, edificanti, è una strada lastricata di trappole identitarie e di narrazioni manichee che non possono che portare a “noi”, eredi di un passato mitico che siamo tenuti a mantenere in vita. In generale, e vale per tutti gli esemplari di sapiens, vedersi come l'ultima “perla inanellata” nel filo di una narrazione coerente che non poteva che portare a noi, è un pericolo letale. Ragion di più se si vede negli “altri” qualcosa di involuto, di non definitivamente compiuto, al contrario di “noi”. Della storia, come di tutti i rami del sapere umano, bisogna saperne fare un “buon uso”, e non è affatto facile. In questi tempi nei quali ritorna la fiamma delle retoriche nazionaliste, poi, forse è utile ripartire da quello che fa riverberare il nostro essere, tutti e tutte, semplicemente umani.
Perché ci emozioniamo a vedere le immagini satellitari della Grande Muraglia cinese o a toccare le piramidi in Egitto riparandoci dal caldo? Perché proviamo una sorta di orgoglio a immaginare le traversate dei vichinghi che secoli prima di Colombo arrivarono in quelle che si sarebbero chiamate le Americhe (à propos di “espressioni geografiche”), o a vedere le immagini dell’uomo sulla Luna? Perché tra le rovine romane di Palmira, in Siria, proviamo emozioni difficili persino da decodificare, perché guardando il tramonto dal monumento buddhista del Borobudur, in Indonesia, ci sembra quasi di aver costruito noi stessi quell’opera immensa? Perché a vedere le impronte di mani di novemila anni fa, nella “Grotta delle mani” argentina, ci sembra quasi che ci parlino? Io credo che questo sia dovuto al fatto che ci sembra incredibile che “noi” siamo stati in grado di realizzare qualcosa di cosi straordinario. “Noi”, esseri umani. Credo che sia, nonostante la consapevolezza del loro “costo umano” (quasi sempre spaventoso), una sorta di fierezza di specie. Ed è questa che va a tutti i costi recuperata; o, più probabilmente, inventata dal principio. Educhiamoci alla storia univerale, costruiamo un coro di voci al plurale che ci canti quello che siamo stati e quello che siamo.