Sporcarsi le mani dentro il reale / Insurrezione culturale
L'ultimo lavoro del regista Jonathan Nossiter non è un film, è un libro, Insurrezione culturale, ed è un libro per certi versi ardito.
Ardito perché tentativo di coniugare due mondi diversi, quello della cultura (chiamiamola "alta" per semplicità) e quello dell'agricoltura, anzi dei vini naturali.
Ardito dunque nell'accostamento (ma solo per chi non conosce l'opera di Nossiter) e poi perché, sebbene le parole cultura e coltura (coltivazione) abbiano la stessa radice, tutti lo abbiamo dimenticato e i due mondi restano per la maggior parte di noi agli antipodi.
Del resto ci siamo dimenticati anche il significato di genuino, parola generalmente associata all'idea di naturale, positivo, sano, schietto, tradizionale, almeno in tutto ciò che ha a che fare (ma non solo) con il cibo.
Dimentichiamolo nuovamente... oggi la parola "genuino" può valere anche per la formulazione di una malta cementizia, di uno snack industriale o per un coro da stadio. In realtà è sempre stato così, ma solo perché l'idea di genuino (la parola ha un' etimologia un po' particolare, ma il significato è riconosciuto ) apparteneva ad una natura che bastava a se stessa e che non prevedeva l'artificiale, perché il naturale era semplicemente tutto.
Oggi, in un mondo pesantemente artificiale, la parola genuino significa anche aderenza a una formula, a un modello. Così i tifosi di una squadra di calcio sono genuini nei cori e pure nelle invettive imbecilli, così come esistono migliaia di alimenti industriali perfettamente genuini, perché prodotti esattamente come la loro ricetta prevede. È pertanto genuino tutto quello che l'uomo produce, anche di industriale, anche di velenoso, purché aderente a una formula, a un modello dichiarato e quindi riconosciuto.
E cosa succede se la cultura e la coltura diventano sempre più artificiali, sempre più slegati dalla natura e dal loro rapporto con la vita? Decenni di ecologia e di educazione alimentare ci hanno reso in qualche modo consapevoli delle possibili conseguenze di una natura sempre più artificiale piegata dalle logiche industriali, dalla quantità a scapito della qualità, dai pesticidi, dagli ogm. Non altrettanta consapevolezza c'è per la cultura di cui ancora scontiamo forse una percezione "salvifica" alta...
Ebbene, Jonathan Nossiter in Insurrezione culturale ci dice che anche la cultura è diventata artificiale e artefatta, slegata dai suoi tradizionali valori.
È una delle tesi del libro, e non a caso per i primi capitoli l'autore ci conduce in un percorso lungo gli itinerari delle arti. Partendo da quella cinematografica certo, ma allargata al senso della cultura nella società attuale, al ruolo dell'intellettuale e dell'artista nella storia della civiltà occidentale. E si arriva ad un presente dove la percezione del lavoro creativo e artistico è qualcosa sempre più slegato al suo valore sociale. Soprattutto le arti visive – pittura, cinema, architettura, ma anche la letteratura – sono diventate espressioni solitarie, spesso narcisiste, disconnesse da una loro capacità educativa alla bellezza, alla sacralità, come incapaci di incidere nella vita sociale delle persone. E poi la ricerca della visibilità che tutto appiattisce, l'artista che diventa artista di se stesso mentre ogni opera di per sè vale zero, merce tra le merci, sottoposta alla domanda e all'offerta, probabilmente slegata da ogni motivazione originaria dell'arte, sacrale, estetica, sociale.
Come non sobbalzare da quest' ultimo punto di vista, dice Nossiter, se ci si interroga, ad esempio sull'abisso che separa l'opera di Pasolini da quella di un Jeff Koons?
Così, il valore del prodotto artistico quasi sempre è solo il valore economico che gli viene dato con il contributo del marketing, del critico d'arte, dell'industria cinematografica, attraverso il riconoscimento di un personaggio tale solo per la sua visibilità. Una produzione drogata, come già da decenni è tale la maggior parte della produzione agraria ed alimentare.
Già, il mercato... ovvero il "luogo" dove avviene la disconnessione tra produzione e consumo con consumatori staccati dalla natura, così come siamo staccati da una cultura in cui sempre meno si ricerca una spiegazione del mondo e della propria umanità. In questo senso, Nossiter sembra dirci che bisognerebbe rivedere la "definizione": consumatore è anche chi inconsapevolmente vive una cesura tra la cultura e la propria vita.
Questa contaminazione è forse il pregio migliore del libro; un libro attraversato certamente da idee ma anche un libro che si nutre di empatia, vale a dire la capacità di riconoscere i problemi e l'umano oltre ogni mestiere, attraverso contaminazioni che alla lunga, danno luce.
In Insurrezione culturale Nossiter non è il regista che ha vinto il Sundance film festival e che dà del tu a molti personaggi che fanno il presente e la storia del cinema, non è portatore di una costruzione razionale che tutto illumina (ma può esserci luce se nel presente sembriamo anime vaganti con una candela in mano?).
Allora meglio sporcarsi le mani dentro il reale e afferrare l'empatia da dove arriva.
Empatia che arriva dal movimento del vino naturale, un movimento di produttori che hanno rifiutato la chimica e che vanno oltre la "genuinità" delle doc e della stessa certificazione "bio". Un movimento, che in Europa è in forte crescita – silenziosa rivoluzione agraria – e che ha fatto della "sincerità" la sua bandiera oltre ogni etichetta di genuinità. La sincerità di una produzione senza alcun artificio, biologico e biodinamico naturalmente, ma soprattutto valorizzando ogni specificità del territorio, del "cultivar", della cantina, del suolo, del clima, dell'umanità che c’è in ogni produttore.
Sincerità... (dal latino sine ceris, senza la cera con cui anticamente venivano riparate le statue, ovvero senza artefatti, senza finzioni ) ed empatia perché la rivoluzione se non può arrivare da una cultura drogata e autoreferenziale, può essere allora nello sporcarsi le mani con la terra, la sincerità, l'empatia e un esempio possono arrivare dalla sensibilità e dall'insurrezione di agricoltori che ritrovano l'antico legame tra cultura e coltura, che forse non a caso hanno scelto "lo spirito" come lavoro e destino: "spirito" dell'impegno, del lavoro, della vita... e naturalmente quello dentro il vino.