Ipotiposi / Il linguaggio della neve
“Ho tante nevi nella memoria: nevi di slavine, nevi di alte quote, nevi di montagne albanesi, di steppe russe, di lande polacche”, scrisse Mario Rigoni Stern nel ‘93 in un articolo dedicato alla cultura cimbra, poi ripreso in Sentieri sotto la neve. “Ma non di queste intendo parlare; dirò di come le nevi un tempo venivano indicate dalle mie parti: nevi dai più nomi, nevi d’antan”. Le prime nevi dell’autunno sono fiacche e incerte, nel cadere i fiocchi volteggiano e talvolta tornano verso l’alto, come colpiti da un ripensamento, un esperimento poco convinto e poco convincente. Niente a che vedere con la prima neve dell’inverno, la Brüskalan, inconfondibile per il suo “odore pulito, leggero”: sul terreno gelato dopo l’estate di San Martino, “in breve la neve copriva la polvere delle strade; l’erba secca sui pascoli, la segatura di faggio nei cortili, le tombe nel cimitero. Le voci, i rumori del paese; i richiami dei passeri e degli scriccioli si ovattavano e a questo punto la Brüskalan diventava vera sneea: neve abbondante e leggera giù dal molino del cielo”. Si poteva allora andare in soffitta a prendere due tavole arcuate, rudimentali sci, o lo slittino, e scivolare sopra mucchi di neve in pendenza o lungo le strade del paese. “Quando l’inverno stava per finire la sneea diventava haapar. Sulle rive al sole andava via per la terra in mille e mille gocce, e appariva il bruno del suolo. Era in questo periodo che si sentivano le prime allodole: una mattina ti correva un brivido per la pelle ed era il loro canto alto nel cielo sopra l’haapar”. Ai primi annunci di primavera scendeva l’haarnust, – in lingua cimbra vuol dire “corazza” –: neve ammorbidita dal sole ma indurita dal freddo della notte, ottima per le escursioni fuori pista di primo mattino, perché forma una base solida abbastanza da sopportare il peso del passo. In marzo, sempre puntuale, era il momento della swalbalasneea, la neve della rondine, e poi in aprile della kukusneea, cioè “la neve del cuculo perché è lui, il gioioso uccello risvegliatore del bosco, che qualche volta la chiama per divertirsi quando si sfalda dai rami delle conifere”, prosegue Rigoni Stern. La tarda primavera poteva offrire la bàchtalasneea, la neve della quaglia, “quando i prati si coprono del giallo solare dei fiori del tarassaco e dell’azzurro dei miosotidi, e le api sono indaffarate dall’alba al tramonto nella raccolta di pollini e nettari”. Senza dimenticare, in rare estati matte, la kuasneea, la neve delle vacche, sorprese al pascolo nelle malghe in alta quota. Ne resta traccia nei nomi con cui venivano battezzati i nati in quei giorni, Nives, Nevino, Nevio, Bianca …
La scatola d’attrezzi delle parole costituisce una modalità di classificazione, un tentativo di riportare all’ordine la varietà dei fenomeni nevosi, prima che lo spirito geometrico faccia intervenire l’ordinamento rigoroso del cristallo. La ricchezza lessicale non è esclusiva degli abitanti dell’Altipiano di Asiago, si ritrova nei dialetti del Canton Ticino e delle tante civiltà per le quali la sopravvivenza in condizioni ambientali variabili ed estreme necessita di comunicazione efficace. Nell’Introduzione alle lingue indiane d’America (1911), l’antropologo Franz Boas osservava che gli Eschimesi usano radici distinte per indicare la neve, a seconda che stia sul terreno o stia cadendo, che venga sospinta dal vento o precipiti in valanga. Uno spunto che indurrà il suo allievo B. Lee Whorf, in un saggio del 1940, a formulare il principio di relatività linguistica: la realtà caleidoscopica con cui si presenta il mondo viene organizzata dalle nostre menti grazie al retroterra linguistico di cui siamo eredi. Quest’ultimo struttura le modalità interpretative con cui le civiltà descrivono la natura: il linguaggio veicola il pensiero, invece di esserne il semplice mezzo di espressione, e dunque la nostra percezione del mondo è profondamente influenzata dal vocabolario che utilizziamo. La lingua degli indiani hopi del Nord America ha un solo nome per indicare la classe degli esseri che volano, insetti o aerei, anche se distingue vari tipi di uccelli; a noi quella classe potrebbe apparire troppo estesa, come lo sarebbe per un Eschimese il nostro sbrigativo utilizzo della parola “neve”, un solo termine per una molteplicità di situazioni. La discussa tesi, passata alla storia come ipotesi Sapir-Whorf (Edward Sapir era il linguista e antropologo che di Whorf era stato maestro), trova conferma nel fatto che alle latitudini più calde si utilizza una stessa parola per ghiaccio e neve. Se è vero che il linguaggio non determina il pensiero, resta il fatto che quest’ultimo ne sfrutta le risorse, come abbiamo appreso anche dai continuati confronti che François Jullien ha proposto fra la lingua-pensiero cinese e la lingua-pensiero europea. Il serbatoio lessicale opera distinzioni fra gli enti, traccia i solchi su cui il pensiero articola differenze: sorgono così visioni del mondo e “cosmologie” che promuovono forme diverse d’intelligibilità della realtà.
È alla cultura degli abitanti delle montagne e alla loro confidenza con i ghiacci che si sono affidati i pionieri dell’alpinismo all’epoca dello sdoganamento delle nevi. L’immaginario antico dei loci horridi e terribili cede il passo all’esaltazione romantica del sublime e del viandante, prima che il fascino delle cime e delle vallate alpine attragga lo spirito agonistico di quanti, magari nelle forme di un confuso nietzschianesimo, vogliono varcare i limiti dei comuni mortali. Nel Berghof, il sanatorio sulle Alpi svizzere presso Davos in cui Hans Castorp soggiorna ormai da due anni, sopraggiunge un inverno denso di precipitazioni nevose ad accentuare il carattere eccentrico del luogo, la Montagna incantata (l’aggettivo continua a sembrarmi più pertinente rispetto a “magica”). “La montagna invernale era bella, non bella in senso ridente e grazioso, ma come lo è l’aspro paesaggio del mare del Nord quando soffia un forte vento da ovest, senza rumore di tuoni però, in un silenzio di morte anzi, ma tale da risvegliare i medesimi sentimenti di reverenza e rispetto”. In fondo, la spiaggia del mar Baltico non è poi così diversa dal manto immacolato di neve polverosa: comune è la monotonia, comune il senso di pulizia, del bianco non resta più traccia una volta scosso da scarpe e vestiti, come non ne resta dei detriti di sassi e valve di molluschi. L’abbondanza della neve sommerge ogni cosa, fa entrare il mondo in un’atmosfera onirica, in un sonno che appare come anticipazione della morte. Le strade sgombrate diventano fossati circondati da pareti più alte di un uomo, dove le panchine spariscono: “talvolta un pezzetto di spalliera emergeva dalla tomba bianca”. Il mattino, mentre gli ospiti fanno colazione alla luce delle lampade, “di fuori c’era il nulla oscuro” dove le cose si sciolgono “in una fragilità e in un pallore di fantasma”. La realtà sfuma nell’inconsistenza: “pareva allora di essere in un mondo di favola”, in un mondo ridicolo di gnomi e fate, come quello dei libri illustrati per bambini. E solo “le masse turrite delle Alpi coperte di neve risvegliavano sentimenti di elevazione e di santità”.
Stando disteso sulla veranda, ben avvolto nelle coperte, Castorp subisce la fascinazione di quel manto ovattato, fino a scivolare in uno “stato di incoscienza”, in un sonno senza sogni che ignora le sensazioni stesse della vita organica: “il respirare dell’aria vuota, priva di vapori e sottile fino all’annullamento, riusciva tanto facile all’organismo come il non respirare dei morti”. Paul Ricoeur ha evidenziato come in questo romanzo sul tempo (Zeitroman) l’opposizione spaziale fra “quelli dell’alto” e “quelli del basso” sia replicata da un’opposizione temporale: gli uomini della pianura, della salute e dell’azione, vivono al ritmo degli orologi e del calendario, mentre gli ospiti del sanatorio si sono assuefatti alla perdita del senso del tempo, all’esperienza di un tempo refrattario alla misura. Nel Berghof tutti sono malati, medici compresi, vivono nel regno dei condannati a morte: l’incanto della montagna è l’esser stregati dalla pulsione di morte, di cui anche l’amore conosce l’attrattiva.
Per sfuggire l’indolenza di quel “caos di bianca oscurità” e le frivolezze dei villeggianti, Castorp decide di acquistare un paio di sci con cui spingersi verso pallide alture i cui “lini funerei” si innalzano senza limite, confondendosi col cielo bianco di nebbia. Compie la scelta di una sportività elettiva che lo innalza rispetto al vivere banale del fondo valle e con cui conquista, insieme alla più profonda solitudine, anche “la quiete primordiale di quel paesaggio mortalmente silenzioso”. Alla contemplazione serena dalla veranda ora però, “nella grandiosità di quel nevoso silenzio di morte”, si è sostituita la paura, che è la condizione prima del coraggio. La montagna chiama alla sfida, al rifiuto della prudenza ragionevole: l’avversità degli elementi chiede di mettersi alla prova, esperienza analoga a quella vissuta in spiaggia quando la bufera si annuncia, e si prova “l’entusiasmo che proviene dal lieve contatto amoroso con potenze i cui abbracci completi sarebbero mortali”. Quel mondo, nel suo silenzio immenso, non ha nulla di attraente, accoglie il visitatore a suo rischio e pericolo, anzi si limita a sopportarne l’intrusione: “da esso emanavano forze primordiali quietamente minacciose, non già ostili, ma piuttosto mortali in semplice indifferenza”. Castorp aveva già visto al microscopio i fiocchi di neve, sa “di quali preziose e perfette minuzie fossero formati; erano gioielli, stelle, spille di brillanti, né il miglior orafo avrebbe potuto eseguire lavori più ricchi e più preziosi di quelli”. A presiedere alla loro formazione è uno sconfinato potere inventivo nel variare uno schema fondamentale, l’esagono regolare; “ma in se stesso ognuno di quei freddi prodotti era di una simmetria assoluta, di una gelida regolarità, ed era questo l’elemento pauroso, anti-organico, ostile alla vita”. La vita, suggerisce Thomas Mann – e sembra una considerazione uscita dalle pagine di un chimico e cultore della montagna come Primo Levi –, rifugge dall’esattezza, come se quest’ultima racchiudesse non il segreto della vita, ma “il mistero stesso della morte”.
A differenza di chi ha vissuto da sempre in quei luoghi selvaggi, “il figlio della civiltà” avverte un “religioso timore”, “uno spavento segreto e sacro”, che si traduce in rispettosa eccitazione, in provocazione temeraria, nel desiderio di penetrare dentro al mistero mostruoso, oltre il piacere, al di là del principio del piacere. L’escursione diviene un vagare nel nulla, ed ecco che un altro tempo, non quello cronologico ma quello delle meteore, smaterializza ancor più quel mondo avvolto in “una trascendenza biancastra”. Una tormenta di neve trasforma il mondo in un “caos di tenebre bianche” e la turbolenza atmosferica diventa l’occasione di una sorta di iniziatico rito di passaggio. Esausto, non ritrovando la via del ritorno, Castorp è tentato di cedere al “nulla bianco e turbinante”, all’abbraccio della morbida e funebre superficie. In preda alla stanchezza e allo sconforto, si rifugia accanto alle travi di un fienile e si abbandona a un “sogno visionario”. Dapprima gli appare un pittoresco mediterraneo di solare felicità, una baia dove giovani meravigliosi, “figli del sole”, convivono beatamente; ma poi si leva l’immagine dell’interno di un tempio dove due orride streghe sono intente a squarciare sopra un bacile il corpo di un bambino. Di fronte al conflitto fra razionalità e autodistruzione, fra l’impulso vitale e l’attrattiva barbarica, dionisiaca e sacrificale, di un ritorno alle origini, Castorp si schiera a favore dell’imperativo etico di resistere: “In nome della bontà e dell’amore, l’uomo non deve concedere alla morte il dominio dei suoi pensieri” (unica frase in corsivo del romanzo). Se La montagna incantata è un Bildungsroman, la storia della formazione spirituale del giovane Hans Castorp, lo è come tentativo di resistere alle forze che preparano, prima del “colpo di tuono” del 1914, il destino di morte della cultura europea, travolta dal nichilismo e dai fanatismi ideologici. L’irruzione del tempo storico finirà per spezzare la prigione incantata in cui Castorp viveva da sette anni, e la sua sagoma si mescolerà alle altre ombre che finiranno vittime dell’immane carnaio: “Così nel tumulto, nella pioggia, nel crepuscolo, egli sparisce dalla nostra vista”.
Anche Martin Heidegger, ricorda Franco Brevini, aveva una grande passione per le escursioni con gli sci sulla neve. Nel saggio del ’33 “Perché restiamo in provincia?”, quasi a motivare il rifiuto della cattedra che gli offriva l’università di Berlino, descrive la sua capanna, arroccata fra i monti della Selva Nera. “Quando nella profonda notte d’inverno una violenta tempesta di neve infuria con i suoi colpi attorno al rifugio, velando e ricoprendo ogni cosa, ALLORA è il tempo solenne della filosofia. Il suo interrogare deve ALLORA diventare semplice ed essenziale. L’elaborazione di ogni pensiero non può che essere dura e rigorosa. La fatica di coniare le parole è pari alla resistenza che gli alti abeti oppongono alla tempesta”. In una lettera il filosofo dei Sentieri interrotti invita Jean-Paul Sartre a condividere le escursioni sulla neve: “Sarebbe bello se potesse venirci a trovare nel corso dell’inverno. Potremmo insieme filosofare nella nostra piccola capanna sciistica e da lì intraprendere dei giri con gli sci nella Foresta nera”. Nella parte conclusiva di L’Essere e il Nulla del ‘43, Sartre considera il campo di neve un fichtiano non-io, resistenza oggettiva dell’in-sé, materia inerte che ostacola il progetto di libera espansione della coscienza, del per-sé. La neve non si limita a cancellare la terra e i suoi miraggi, costituisce il mondo, anzi costituisce addirittura l’Essere: “Il campo di neve è colto dalla vista come simbolo dell’Essere”. In quanto “esteriorità pura” e “spazialità radicale”, per la sua indifferenziazione, monotonia e bianchezza esso manifesta “l’assoluta nudità della sostanza; è l’in-sé che non è che in-sé”. La sua immobilità solida esprime la permanenza, la sua opacità e impermeabilità “mi affascinano come la pura apparizione del non-io”.
Ma se prendo la neve fra le mani, presto si scioglie in acqua e se provo a camminare su di essa, sprofondo fino alle ginocchia; in entrambi i casi non sono in grado di “possedere” quest’oggetto sfuggente che non gode della felice solidità della sostanza. Grazie alla tecnica dello sci però dispongo di un mezzo per appropriarmi di quel che prima mi sfuggiva, posso percorrere il campo e dominarlo spazialmente: “sciare è un’attività sintetica di organizzazione e di legame”. Non solo sciando metto in forma il campo di neve, ma creo una materia nuova, una superficie liscia e solida che mi porta, dove prima il mio piede sprofondava. Ho creato un mondo nuovo, “il mondo è il mio compito”, lo ristrutturo, lo valorizzo, lo divido in parti in obbedienza alla mia volontà: trasformo l’ambiente in sostegno all’azione in virtù del fatto che ho con la neve “un rapporto di appropriazione speciale: lo scivolamento”. La neve sotto gli sci diviene solido supporto, grazie alla velocità posso finalmente possederla, anche se non totalmente, ammette Sartre: lo scivolamento lascia inevitabilmente delle tracce, non conosce la condizione ideale di scivolare sull’acqua. L’agone sportivo, la sfida virile, la vittoriosa lotta con la materia conduce all’assimilazione della neve con l’acqua, “e porta, docile e senza memoria, al corpo nudo della donna, che la carezza lascia intatto e turba fino al suo intimo; ecco l’azione che lo sciatore esercita sul reale”.
Non so se quel che disturba di più in queste pagine sia una fantasmatica sessuale dai connotati fallocentrici o, ma le due cose si tengono, la logica oppositiva fra l’io e il mondo, nella forma dell’hegeliano conflitto guerresco fra il signore e il servo. Sartre resta nel solco dell’immaginario culturale della modernità prometeica per la quale la natura è l’oggetto inerte disponibile allo sfruttamento continuato da parte dell’uomo. Oggi, nel tempo della crisi climatica (e pandemica), appare ancor più chiara l’esigenza, che era di Merleau-Ponty, di superare la dicotomia sartriana tra per-sé e in-sé, lo scarto tra soggettivo e oggettivo, per risalire a una condizione condivisa tra l’uomo e il mondo, per ritrovare, al di là del corpo vissuto del singolo, la “carne del mondo”. Nel “chiasma” di cui parla Il visibile e l’invisibile l’esistenza umana si relaziona al mondo in termini di reciprocità e complementarità; e ogni ente, oltre una dimensione di visibilità, implica una dimensione spirituale, che la circonda come un’aura, quell’invisibile che si compone di relazioni, di forze in cui si intrecciano l’uomo e il mondo. Nelle lezioni tenute al Collège de France sul finire degli anni Cinquanta, raccolte postume con il titolo La Natura, la valorizzazione del territorio di primaria e originaria indivisione tra la coscienza e il mondo chiede di abbandonare il privilegio, ribadito dalla fenomenologia, della dimensione percettiva che riduce il mondo a oggetto di rappresentazione e di manipolazione. Quel che è già lì quando noi appariamo è la natura come organismo inglobante, in cui siamo avvolti da sempre e a cui partecipiamo: “il nostro suolo, non ciò che è dinanzi, ma ciò che ci sostiene”.
L’invisibile senza trascendenza, paesaggio in cui si tessono le reti fra l’uomo e il mondo, è ciò che la lingua giapponese chiama aidagara: aida indica ciò che sta “in mezzo”, il vuoto che consente il passaggio, la distanza che separando connette, mentre gara è volto, carattere, figura, Gestalt. Nel’interfaccia, nel “tra” che stabilisce la comunicazione fra il sé e il mondo, si connettono individuale e sociale, storico e climatico. Il pensatore giapponese Watsuji Tetsurō, che a lungo viaggiò in Europa, rimase deluso dalla lettura nel ’27 di Essere e tempo di Heidegger, un testo nel quale non vedeva riconosciuto allo spazio lo stesso ruolo assegnato al tempo nell’analitica dell’esistenza. L’umano non si declina solo nelle estasi temporali di passato, presente e futuro, è fin dall’origine, all’interno di se stesso, rete di relazioni storiche e sociali, mentre il Dasein di Heidegger “non è mai andato al di là del singolo”: “la struttura spaziale e temporale dell’esistenza umana si manifesta come storicità e climaticità”. L’ambiente storico-naturale della regione in cui viviamo ci avvolge, costituisce l’atmosfera entro cui si sviluppa il nostro stare-fuori, cioè il nostro ex-sistere. La Stimmung, la tonalità affettiva heideggeriana, privilegia emozioni individuali (noia, angoscia) e le riduce a stati psicologici, non le coglie in relazione alla qualità emotiva di un luogo e di un tempo esterni. Nella poesia dell’Oriente, come nell’haiku, le impressioni climatiche e i riferimenti stagionali esprimono una connessione al mondo nel suo mutare, diventano modelli di auto-comprensione umana, come fa la nostra poesia con il correlativo oggettivo. La natura del clima è un momento strutturale dell’esistenza umana: è questa l’idea alla base del libro di Watsuji Tetsurō, Fudo, letteralmente vento-terra, cioè clima, milieu, ambiente in cui si saldano natura e cultura, aspetti atmosferici e storici, conformazione del terreno e paesaggio. Fudo indica dunque il radicamento, la relazione concreta con la specificità di una natura-cultura locale, il suo stile, la sua “aria”, condizione trascendentale di un’apertura a una pluralità di spazi fisici e culturali. Anche se colere, coltivare, è modellato sul fare agricolo, nell’idea di cultura dell’Occidente è stata la tecnica ad assumere un ruolo primario, per cui la natura è il polo passivo su cui interviene l’attività del soggetto. L’adiagara per contro indica da subito la modalità di relazione che connette e separa uomo e natura, singolo e collettività.
La nostra storia culturale, ricorda Mauro van Aken, ha espulso le relazioni ambientali dalle relazioni sociali, nell’illusione di poterci liberare dalla natura per farcene signori e padroni, di edificare il regno della Libertà contro il regno della Necessità. Abbiamo sognato di “plasmare il mondo” a nostra immagine e somiglianza, di utilizzare materiali malleabili che producono rifiuti da eliminare; ma gli scarti, come la plastica, si trasformano in pericoli che minacciano la nostra sopravvivenza. Pensavamo di essere fuori dal mondo e abbiamo rimosso quelle interdipendenze con l’ambiente che oggi riemergono come elementi perturbanti: il familiare si è fatto estraneo e provoca spavento. Il clima, l’atmosfera, i fenomeni meteorologici sono attori che non possiamo tenere a distanza né illuderci di poter “possedere”: soggetti-oggetti in cui siamo immersi e coinvolti, talvolta come in una tormenta di neve.
Bibliografia:
Franz Boas, Introduzione alle lingue indiane d’America (1911, Bollati Boringhieri, 1979)
Franco Brevini, Il libro della neve, il Mulino, 2019
Thomas Mann, La montagna incantata, Corbaccio, 2011
Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, 1993
Maurice Merleau-Ponty, La Natura, Cortina, 1996
Paul Ricoeur, Tempo e racconto 2, Jaca Book, 1999
Mario Rigoni Stern, Sentieri sotto la neve, Einaudi, 1998, poi in Le vite sull’altipiano, Einaudi, 2015
Jean-Paul Sartre, L’Essere e il Nulla, 1943, Il Saggiatore, 1965
Mauro Van Aken, Campati per aria, eleuthera, 2020
Watsuji Tetsurō, Fudo, 1935, Vento e terra. Uno studio dell’umano, Mimesis, 2014
B. Lee Whorf, “Scienza e linguistica” in Linguaggio, pensiero e realtà, Boringhieri, 1970
Daniele Zovi, Autobiografia della neve, Utet, 2020
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