Camminare per la città / Giuseppe Varchetta, Di passaggio

3 Febbraio 2021

Parigi, Amburgo, Vienna, New York, Los Angeles, Milano soprattutto, sono alcune fra le città che Giuseppe Varchetta ha attraversato. Il fotografo non si ferma nelle vie alla ricerca di un soggetto, non attende il tempo dell’occasione da cogliere, della decisione da prendere o del momento da non mancare. Semplicemente passa, in punta di piedi, in silenzio, come appare nel suo libro Di passaggio (Corraini Edizioni, 2020, con un testo di Cristina Battocletti). Al tempo stesso avanza e indugia, in un’insolita mescolanza delle due cose.

 

Ren, Parigi, 1996


La fotocamera diviene quasi un quaderno degli appunti, un album per gli schizzi. Varchetta fotografa le cose che lo circondano, uomini, animali, edifici. Se la nostra identità è il nostro modo di vedere e di entrare in contatto con il mondo, nel momento in cui si sfogliano le pagine di questo libro si attraversa lo spazio, si posa lo sguardo sulle sue forme, e queste ci rimandano, come un riflesso, la nostra immagine. E quelle stesse immagini, man mano che si avanza nel viaggio, restano indietro, appartengono a un tempo che non è più nostro. Passano. E passare, per il fotografo, significa guardare. In che modo?

 

Una cosa, tra le prime che suggerisce l’ampia raccolta di immagini, è l’utilizzo pressoché esclusivo della focale “normale”, quella coincidente con la copertura visiva dell’occhio umano. L’esclusione di grandangolo e teleobiettivo è già di per sé significativa, in quanto denota la scelta di disinteressarsi sia di una visione d’insieme sia di un approccio analitico. 

 

Happy, Timisoara, Romania, 2009.


Un altro elemento che colpisce è la presenza costante della figura umana, che però non incrocia mai lo sguardo con quello del fotografo: il rapporto non è di reciprocità. Gli scatti si riferiscono quasi tutti ad ambienti esterni o estremamente ampi come l’interno di gallerie d’arte. L’occhio del fotografo sceglie di non entrare in un vissuto individuale, in uno spazio privato, ma di condividere una dimensione comune, quasi sempre la strada. Si tratta di situazioni fluide e dinamiche, la visuale è quindi quella di un passante tra i passanti.

 

Il fotografo/passante registra quello che vede, disinteressandosi, almeno in apparenza, a filtri di natura etica o estetica. La sua ricerca sembra consistere nella rinuncia a ritrarre un aspetto determinato o particolare della realtà, nel tentativo di coglierla nella sua totalità. La sua cifra stilistica si risolve nel non adottarne alcuna: la caratteristica dominante è la normalità. Normalità in senso statistico e sociale, che trasborda in quella figurativa, facendola stridere con l’idea corrente di un fotografo creatore, cioè di colui che imprime alle sue creature la soggettività di un marchio ben definito e riconoscibile. 

 

Inquadratura, taglio, esposizione, contrasto, toni, nitidezza, grana e tutti gli altri parametri tecnici che possono essere presi in considerazione rispondono all’unisono al requisito della normalità. Non stupisce, allora, che il quantitativo (un milione di scatti ci vien detto nella introduzione!) sia preferito al qualitativo. Anche il numero dei libri pubblicati da Varchetta è davvero considerevole, fra questi uno è dedicato a Ettore Sottsass e uno a Michele De Lucchi. Per capire chi siamo bisogna incessantemente prendere nota di cosa facciamo e di come lo facciamo. 

 

La componente alfabetica e grafica, presente in quasi tutte le immagini, in alcuni casi addirittura a riempire l’intero fotogramma, documenta la sovrabbondanza di un arredo urbano, qualcosa che è ormai impossibile sottrarre allo sguardo del passante. Ma non funge solo come apparato didascalico, l’irruzione delle scritte (insegne, pubblicità, graffiti) nelle immagini è una chiave per comunicare e suggerire l’interpretazione dello scatto. Si tratta, per l’appunto, di una voce pacata, un sussurro, un accenno appena, volto a stabilire con un’ombra di sorriso una complicità intellettuale con chi è in grado di comprendere e condividere.

 

Studiate la storia, Milano, Lorenteggio, 1992


Studiate la storia, dipinto a grosse pennellate su un muro di recinzione, parla a tutti, ma ammicca a chi la lezione dei muri l’ha già imparata. Allo stesso modo, in Lam, i segni indecifrabili spruzzati sul muro con la bomboletta sfidano alla comprensione di un linguaggio e di una cultura che si possono incarnare nell’immigrato in primo piano. 

 

Il titolo del volume, però, non si riferisce all’individuo che passa, al passante appunto, ma allo spazio che questi deve attraversare, il passaggio. Sotto questa luce, tutto quello che si vede nelle foto, a parte le strutture architettoniche, che però non vi hanno alcuna autonomia, è destinato a mutare velocemente: le persone e gli animali ad uscire dall’inquadratura, auto, moto, biciclette e monopattini a circolare, i graffiti ad essere imbiancati, i cartelloni rinnovati, le mostre rimpiazzate al termine della loro vita effimera. Non diceva Virginia Woolf, delle sue passeggiate londinesi, che “il fascino della Londra moderna sta proprio nel fatto che non è costruita per durare, ma perché passi”? Varchetta coglie ciò che sta scomparendo più di quanto sia sul punto di apparire.

Il passaggio è la condizione transitoria di ciascuno di noi, che vi siamo costretti per venire alla luce, e che dopo la nascita e per tutta la durata della vita non possiamo che dire: “siamo di passaggio”. In attesa di un ultimo definitivo passo che, per alcuni, può costituire un ulteriore passaggio.

 

Lam, Milano, 2016.


La foto in copertina fornisce il naturale complemento del titolo: J’EXISTE. È assolutamente rilevante che l’affermazione sia seguita dal punto. Una esclamazione avrebbe avuto il sapore di una disperante affermazione esistenziale, una revanche contro qualcuno o qualcosa capace di mettere in dubbio la vita stessa. EST-CE QUE J’EXISTE? sarebbe stato, invece, il pungolo polemico per mettere in discussione i parametri qualitativi, un dubbio sull’equità del gioco tra dare e avere dalla vita, un chiedersi se ne vale la pena. L’affermazione nitida, pura e semplice dell’esistenza, diventa, invece, un invito del fotografo ad attraversarla, questa vita, con la curiosità di chi ha a disposizione innumerevoli e sempre nuovi scenari da osservare, ma la consapevolezza che assieme alla scena, cambierà l’attore, perché, come si dice, siamo di passaggio. La curiosità è la premessa per cogliere i segni del proprio tempo, le corrispondenze che lascia scorgere la propria epoca e che per essere percepite richiedono un interlocutore in grado di individuarle e decifrarle.

 

J’existe., Alsazia, Francia, 2018


Il fotografo è come il flâneur che cammina per la città e sperimenta con lo sguardo la sua trasformazione in metropoli. Ciò che conta è rendersi impercettibili, uscire dalla sorveglianza e dalla visibilità permanente in cui siamo immersi, trasformarsi in dissidenti, camminare senza farsi notare, sino a raggiungere una forma istintiva di dissimulazione. Una sorta di intimità a distanza che permette di abbandonarsi all’apparizione dell’altro senza dover apparire, o meglio, un lasciar essere delle cose.

 

Questo libro è il racconto per immagini di un uomo che rifugge dal chiasso del protagonismo, che si colloca sullo stesso piano dei soggetti che fotografa, dei suoi compagni di strada. Solo una grande città lo rende possibile, poiché la città è il luogo della discrezione. E solo una grande città rende possibile la flânerie come la intendeva Baudelaire, e come ancora oggi la si può praticare: “essere fuori casa e ciò non pertanto sentirsi in casa propria; veder la gente; essere in mezzo alla gente e restare nascosto alla gente”.

Ma il ricorso all’anonimato per Varchetta non è la rinuncia alla soggettività quanto, piuttosto, la condizione perché sia realmente compiuta. Come un bravo antropologo, capace di spogliarsi dei suoi panni per poter essere accettato dalla comunità da studiare, a cui si chiede di confondersi con l’ambiente per non essere d’ostacolo alla ricerca della verità. 

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