La mia terra si trova qui e ovunque / Ritrovare l'Europa

24 Dicembre 2018

“Gioia, il tuo incanto rende uniti (…), i mendicanti diventano fratelli dei prìncipi. Abbracciatevi, moltitudini! Questo bacio vada al mondo intero!”

Cotanto invito alla fratellanza è l’Inno alla gioia (An die Freude, 1786), del poeta tedesco Friedrich Shiller, musicato da Ludwig van Beethoven nella Nona Sinfonia, ed è stato adottato, nel 1972, come inno europeo. Un inno che si esegue poco, mentre continuano a imperversare quelli nazionali (alcuni particolarmente retorici e bellicosi), perché rimane ancora incompiuta l’Europa. 

Significativamente, il regista polacco Krzystof Kieślowski, nel Film blu (1993), immaginò la storia di un musicista che, morendo in un incidente stradale, lascia incompiuto l’inno europeo… 

 

 

Per introdurre il discorso che farò mi serve una fotografia e la sua storia che ci parla di anticonformismo e rifiuto dell’intolleranza.

Il signore evidenziato da un cerchio della polizia è il tedesco August Landmesser (1910-1944). Era un operaio che lavorava presso l'arsenale navale Blohm & Voss di Amburgo: fu l’unico fra centinaia di operai e autorità che si rifiutò di eseguire il saluto nazista ad Adolf Hitler, rimanendo impassibile a braccia conserte nel corso dell'inaugurazione del varo della nave scuola della marina militare tedesca, la Horst Wessel, il 13 giugno 1936. Landmesser era stato membro del Partito Nazionalsocialista dal 1931 al 1935, costretto all'adesione solamente perché spinto dal bisogno di ottenere un posto di lavoro. Cominciò a osteggiare il nazismo quando fu accusato di "disonorare la razza", avendo avuto due figlie da una donna di religione ebraica (Irma Eckler che fu arrestata nel 1938 dalla Gestapo e detenuta dapprima nel campo di concentramento di Fuhlsbüttel ad Amburgo e successivamente trasferita nei campi femminili di Oranienburg e Ravensbrück, per poi venir soppressa il 28 aprile del 1942). Landmesser fu dapprima espulso dal Partito e poi incarcerato due volte nel campo di concentramento di Börgermoor. Nel febbraio 1944, fu mandato al fronte dove morì nel corso di una missione operativa a Stagno in Croazia. Questa la foto, scattata per giustificare la sua sentenza (ritrovata soltanto nel 1991 e pubblicata da “Die Zeit”), è diventata un emblema dell’eroismo. Landmesser con il suo gesto non ha salvato nessuno, anzi si è condannato, ma ha salvato il suo onore e quello dell’umanità: per questo Landmesser deve essere ricordato come un Giusto.

 

Quand’è che si iniziò a pensare l’Europa come la intendiamo e vorremmo, e in parte conosciamo, oggi? Nel bel mezzo della tragedia della Seconda Guerra Mondiale, nel 1941, nel confino dell’isoletta di Ventotene, due antifascisti, Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, che ebbero modo di discuterne con gli altri prigionieri, scrissero Il Manifesto di Ventotène (titolo originale: Per un'Europa libera e unita. Progetto d'un manifesto), che auspicava l’unità europea, e fu poi pubblicato e diffuso da Eugenio Colorni. Con qualche ingenuità, ma si pensi a quando e dove fu scritto, il Manifesto prefigurava la necessità di istituire una federazione europea dotata di un parlamento e di un governo democratico con poteri reali in alcuni settori fondamentali, come economia e politica estera, passando per una breve fase dittatoriale: "Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato e attorno ad esso la nuova democrazia." La Storia mostrava infatti che tutti i grandi aggregati nazionali erano sorti attraverso un’unificazione imposta, spesso con la forza, dalla nazione egemone (si pensi all’Impero russo, alla Prussia, ma persino all’unità d’Italia). La grande sfida era che questa unità fosse il risultato di una rivoluzione di tutti i popoli europei. Era necessario cioè un movimento che sapesse mobilitare tutte le forze popolari attive nei vari paesi al fine di far nascere uno Stato federale, con una propria forza armata e con “organi e mezzi sufficienti per far eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli stati stessi l'autonomia che consenta una plastica articolazione e lo sviluppo di una vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli”. 

La riforma della società, volta a far riprendere immediatamente in pieno il processo storico contro la disuguaglianza e i privilegi sociali, doveva passare attraverso la rivoluzione europea, necessariamente socialista “cioè dovrà porsi l'emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita”.

 

Per questo motivo Altiero Spinelli fondò poi, tra il 26 e 28 agosto del 1943, nella casa milanese del chimico Mario Alberto Mario Rollier, con Eugenio Colorni, Ernesto Rossi, Ursula Hirschmann, Manlio Rossi Doria, Giorgio Braccialarghe e Vittorio Foa, il Movimento Federalista Europeo.

Di unione europea si ricominciò a parlare più concretamente alla fine degli anni quaranta, al termine della complicata fase dei trattati di pace e della prima ricostruzione. Il ministro degli affari esteri francese, Robert Schuman, nella sua “Dichiarazione” del 9 maggio 1950, che viene considerata il primo discorso politico ufficiale in cui compare il concetto di Europa, espresse il desiderio di superare la rivalità storica tra Francia e Germania, paesi legati alla produzione di carbone e acciaio. Tendere la mano ai nemici sconfitti, far sì che la Germania non venga frazionata in tanti piccoli staterelli e umiliata oltre misura (come era accaduto dopo la Prima Guerra Mondiale): 

“La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano. Il contributo che un'Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche. (…) L’Europa) sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una SOLIDARIETÁ di fatto”.

 

L’Unione Europea, al suo sorgere (nel 1950), si chiamò Ceca (Comunità del carbone e dell’acciaio) e troverà poi la sua piena realizzazione un anno dopo (nel 1951) con il cosiddetto “Trattato di Parigi”, al quale aderirono Belgio, Francia, Germania Occidentale, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi. Gli artefici di questo inizio di unità europea furono un francese, Robert Schuman, un tedesco, Konrad Adenauer e un italiano, Alcide De Gasperi: tre uomini che avevano vissuto sulla propria pelle gli orrori della guerra, tre perseguitati dal nazifascismo, tre statisti. Questo accordo, di carattere economico, aveva alle spalle una filosofia che può essere racchiusa nello slogan “MAI PIÚ”: mai più guerre, odi e distruzioni, che avevano sempre afflitto il continente europeo ma che, con le due Guerre Mondiali e il moderno sviluppo della Tecnica, avevano assunto proporzioni catastrofiche insostenibili. Come ha sottolineato proprio pochi giorni fa (il 26 novembre) il Presidente delle Repubblica, Sergio Mattarella, al Teatro Carignano di Torino, per l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università:

“Se negli anni Cinquanta alcuni stati hanno deciso di mettere insieme economia e risorse energetiche, dando vita alla storica scelta di integrazione dell’Europa a cui tanti paesi si sono fortunatamente associati è perché avvertivano un sottofondo e la base di comune cultura”. 

 

Non staremo qui a rifare la storia dell’Unione europea, ma già così possiamo comprendere quale, sin dall’inizio, fosse la difficile posta in gioco: un’unione economica che avrebbe dovuto andare di pari passo con un’unione politica e amministrativa, culturale e sociale.

Una grande accelerazione all’Unione Europea, e il suo allargamento, sono avvenuti con la caduta dei muri tra Ovest ed Est, nel 1989. I piccoli paesi dell’Europa Centrale e dell’Est, avendo perso l’Europa e l’Occidente, dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’hanno capita e rivendicata con coraggio e ostinazione, pur mantenedo contemporaneamente vive misere istanze nazionalistiche. Proprio per questo, la spinta a ricongiungersi all’Europa è stato uno dei motori dei movimenti sociali e politici che hanno contribuito all’abbattimento dei regimi totalitari.

 “Noi moriremo per l’Ungheria e per l’Europa”, è il messaggio che inviò al mondo, via telex, il direttore dell’agenzia di stampa ungherese un attimo prima che i carrarmati sovietici conquistassero Budapest. 

Questo sogno dell’Europa è stato alimentato soprattutto da intellettuali come lo scrittore ceco Milan Kundera, che, tra l’altro, scrisse, nel 1983, un testo amaramente lucido: Un occidente sequestrato: ovvero la tragedia dell’Europa centrale (in “Nuovi Argomenti”, n. 9 (gennaio-marzo 1984)-

 

Sosteneva Kundera: 

“I popoli centroeuropei sono inseparabili dalla Storia europea, non potrebbero esistere senza di lei, ma non rappresentano che il rovescio di questa Storia, le sue vittime e i suoi outsider. È da questa esperienza storica disincantata che nasce l’originalità della loro cultura, della loro saggezza, della loro mancanza di serietà che si fa beffe della grandezza e della gloria: ‘Non dimentichiamoci che è solo opponendoci alla Storia in quanto tale che possiamo opporci a quella di oggi’. Mi piacerebbe incidere questa frase dello scrittore polacco Witold Gombrowicz sulla porta d’ingresso dell’Europa centrale”.

 

Altrove Kundera rivendicava con orgoglio la natura di quest’Altra Europa

"Spesso mi sembra che la cultura europea conosciuta nasconda tuttora un'altra cultura, sconosciuta, delle piccole nazioni dalle lingue curiose: quella dei polacchi, dei cechi, dei catalani, dei danesi. Si ritiene che i piccoli siano per necessità imitatori dei grandi. È un'illusione. Essi sono persino molto differenti. La prospettiva di un piccolo non è la stessa di un grande. L'Europa delle piccole nazioni è ancora oggi un'altra Europa, ha un altro punto di vista e il suo sistema di pensiero è spesso il vero contrappunto dell'Europa dei grandi. (...) Gli ebrei e i cechi non hanno avuto la tendenza a identificarsi con la Storia, a vedere serietà e senso nei suoi spettacoli. Un'esperienza immemorabile li ha disabituati a venerare questa Dea, a tessere elogi della sua saggezza. Così, l'Europa dei piccoli stati, meglio protetta contro la demagogia della speranza, ha avuto un'immagine più lucida dell'avvenire che non l'Europa delle grandi nazioni, sempre pronte ad esaltarsi con la loro gloriosa missione storica" (Praga: la carta in fiamme, in "L'illustrazione italiana", n. 1, Milano 1981).

 

Già a partire dall'Ottocento, nell’Europa centrale, era cominciata a formarsi un'intelligentsia di origine borghese indipendentista, e filo-occidentale allo stesso tempo, che rivendicava l’identità culturale e linguistica del proprio paese ma guardava all’Europa come a un sogno di modernità ed emancipazione nazionale e sociale. Come ha notato il filosofo polacco Krzystof Pomian, in L'Europe et ses nations (1990): "Se esistono nazioni delle quali si può dire che furono create dai loro stati, queste nazioni invece sono state create dalle loro élites religiose e culturali, dai loro sacerdoti e maestri di scuola". 

Un ruolo fondamentale lo giocarono gli ebrei: costretti ad attraversare i confini per le persecuzioni e anche per lavoro, educati al di sopra delle dispute nazionali, essi sono stati il principale elemento cosmopolita e integratore dell’Europa centrale, il suo cemento intellettuale, la sua condensazione spirituale. Anche per questo motivo sono stati perseguitati e anche sterminati dai nazionalisti, e ancor oggi sono considerati con ostilità dai nemici dell’Europa.

 

Gli intellettuali centroeuropei, proprio per il fatto di appartenere a piccoli paesi vittime dei vicini più potenti e prepotenti, che spesso soffiarono sul fuoco delle esasperazioni nazionaliste, hanno avuto le antenne più sensibili nel capire i guasti del totalitarismo, del populismo, del razzismo, dell’intolleranza religiosa. Intellettuali come il filosofo ungherese Istvàn Bibò, il poeta polacco, premio Nobel nel 1980, Czesław Miłosz (autore, nel 1959, del bellissimo saggio Europa familiare, trad. it. La mia Europa, trad. di F. Bovoli, Adelphi, Milano, 1985), il drammaturgo e politico ceco Václav Havel (diventato presidente del suo paese dopo il 1989), lo scrittore rumeno Paul Goma, solo per citare i più noti, ci hanno aiutato a capire la “vulnerabilità dell’Europa”, sono riusciti a convincere le società civili dei propri paesi della necessità di “tornare in Europa” perché dell’Europa e dei suoi valori si sentivano parte e la consideravano un antidoto contro il cieco nazionalismo.

 

Purtroppo, dopo la caduta dei muri, molti abitanti dei paesi ex comunisti immaginarono che entrare finalmente in Europa avrebbe significato maggiore benessere. Non è stato per tutti così. E quindi l’Europa è diventata il capro espiatorio di tutte le delusioni a seguito di troppo facili illusioni. La cosiddetta Europa di Maastricht (dal nome del paesino dei Paesi Bassi dove il 7 febbraio 1992 fu firmato il Trattato dell’Unione Europea), che permette, in base all’Accordo di Schengen, a tutti i cittadini dei 26 stati europei di circolare liberamente nel continente senza passaporto, e prometteva di avere, in prospettiva, una moneta unica, una sola bandiera, una sola polizia ed esercito, oggi è ferma e fa acqua da tutte le parti.

Le forze di destra, che hanno sempre visto nell’Europa e nei suoi ideali il nemico del loro nazionalismo, hanno avuto gioco facile nell’attaccare i partiti liberal-democratici che, pur tra errori e indecisioni, hanno gestito con successo la transizione. Li hanno accusati di essere rappresentanti delle élite cittadine privilegiate al servizio della Germania e della Francia (considerate le “padrone dell’Europa”), delle banche e degli stranieri che si sono comprati a buon mercato le aziende post comuniste. 

Nel nome dell’orgoglio nazionale e del malcontento delle popolazioni rimaste ai margini e, a volte, ulteriormente impoverite, hanno preso campo ideologie nefande, demagogiche, semplificatorie e intolleranti, che hanno conquistato rapidamente consensi sempre crescenti in fasce di popolazione “dove alberga l’impotenza e la frustrazione di chi è stato costretto a immaginare mondi che non possiederà mai”. Con le elezioni hanno preso il potere maggioranze che oggi governano, grazie a leggi elettorali discutibili, in modo autoritario, non rinunciando ai vantaggi europei (sussidi all’agricoltura e alle infrastrutture), ma contrastando, in nome della propria sovranità, gli obblighi comunitari (sia in materia di quote di migranti, che del rispetto dei prìncipi costituzionali e dei valori di laicità e tolleranza previsti dalla carta d’Europa). 

 

Come scrisse Friedrich Nietzsche nelle sue Considerazioni inattuali

“Il nazionalismo è l’effluvio di chi sa andar fiero solo del fatto di essere un gregge”. Il nazionalismo e il populismo sono i peggiori nemici dell’Europa perché ne mettono in discussione i valori e gli accordi. 

Proprio per questo, i valori europei sono la migliore arma per sconfiggere gli egoismi, le intolleranze, gli odi. Una grande responsabilità spetta quindi oggi alle scuole per diffondere questi valori educando alla democrazia, alla tolleranza, al rispetto, alla fratellanza, al sentirsi cittadini dell’Europa e del mondo. 

Lo storico del Medioevo, Bronisław Geremek, che fu uno dei consiglieri di Solidarność e poi Ministro degli esteri e artefice dell’ingresso della Polonia nell’Unione europea e nell’Alleanza atlantica, e autore tra l’altro di un volume intitolato Le radici comuni dell’Europa (ed. it. a cura di F. M. Cataluccio, il Saggiatore, Milano 1991), era inizialmente convinto che si dovesse partire dalla conoscenza comune della Storia dell’Europa. Ma la cosa si è dimostrata impossibile. Nonostante gli sforzi di associazioni di insegnati come EUROCLIO (fondata nel 1993), con sede a L’Aia, che si occupa di facilitare l’introduzione delle più recenti innovazioni didattiche nell’insegnamento della storia nei paesi che fanno parte dell’Europa, non si sono fatti passi avanti. Nonostante le Raccomandazioni per i Professori di Storia, emanate nel 2001 dal Consiglio d’Europa, ci si è accorti che, proprio a partire da quell’anno, l’interesse politico per un approccio storiografico di tipo nazionale andava rapidamente crescendo nei curricola scolastici di molti Paesi, con una conseguente diminuzione d’interesse per le tematiche europee. Già nel 1992 si era tentato di produrre un testo scolastico di storia su scala europea, radunando un gruppo di dodici storici in rappresentanza di altrettanti Stati europei. Il risultato è stato un fallimento: la Storia dell’Europa. Popoli e Paesi, in francese nell’edizione originale (la lingua che tutti gli autori hanno convenuto di utilizzare), non sta in piedi e dimostra che dopo secoli di guerre e massacri, confini che si sono spostati decine di volte, è impossibile scrivere una storia dell’Europa che metta d’accordo e accontenti tutti. La complessità è tale che non si fa ridurre e risolvere con dei compromessi. Non è quindi dalla Storia che si può pensare creare una coscienza europea comune. Bisogna partire dai VALORI. 

Ma cosa sono i VALORI EUROPEI? Quali sono le RADICI COMUNI DELL’EUROPA, oggi messe in discussione dal risorgere degli egoismi nazionali?

 

Vale la pena ritornare al lavoro del regista polacco Krzystof Kieślowski. Dopo la caduta del regime comunista, e mentre la Polonia come gli altri paesi del Centro Europa, faceva i passi necessari per entrare nell’Unione Europea, Kieślowski iniziò a lavorare a un progetto di tre film che mettessero a fuoco, con delle storie esemplari, l’importanza e le contraddizioni dei valori europei. Tre film intitolati come i colori della bandiera francese – Film blu (1993), Film bianco (1994), Film rosso (1994) – e rappresentanti ciascuno i tre valori fondamentali: LIBERTÁ, EGUAGLIANZA, FRATERNITÁ.

Questi – assieme al collante che alla Rivoluzione francese mancò: la TOLLERANZA – sono i valori dell’Europa. Purtroppo, seppur tra mille contraddizioni, il primo e il terzo si sono abbastanza realizzati, il secondo (l’Eguaglianza) non si è, pur nei limiti del possibile e le compatibilità con un sistema economico come quello capitalistico, diffuso. Anzi, con la crisi economica, le ineguaglianze sono cresciute, dividendo ancor di più i cittadini europei tra benestanti e disagiati. Nel vuoto di questa Europa sentita come traditrice è cresciuta la malapianta dell’intolleranza e del risentimento. L’arrivo dei migranti ha ulteriormente accentuato la diffidenza e la paura verso lo straniero, ma già prima si era assistito a vergognose campagne contro persone della stessa Europa: si pensi agli attacchi all’“idraulico polacco”, al “lavavetri rumeno”, all’albanese, al bosniaco…: attacchi che, del resto, non erano del tutto nuovi, basti ricordare, negli anni cinquanta, quelli contro i lavoratori italiani meridionali, e negli anni settanta contro gli emigranti turchi (e vediamo oggi che grande, madornale, errore è stato tenere fuori l’allora ancora laica Turchia dall’Europa).

Nel Film rosso (Fraternità) di Kieślowski, che è quello della trilogia ad aver avuto il maggior successo, c’è un episodio iniziale che merita una riflessione: la protagonista che salva un cane investito da una macchina. Ci farà capire che non lo ha fatto né per l’animale, né per il suo padrone, ma per salvare se stessa. La fratellanza è anzitutto un aiuto a se stessi.

 

Questo mi pare anche il senso del ragionamento che abbiamo sempre fatto sui Giusti. Non santini o eroi da cartolina, ma persone vere (con tutte le contraddizioni e difetti umani): uomini e donne che hanno messo a repentaglio la propria vita per salvare gli altri: “Cosa avreste fatto al mio posto?”, chiedeva candidamente il commerciante Giorgio Perlasca, convinto fascista, che salvò a Budapest centinaia di ebrei dalla furia nazista. Salvando quelle persone, rispondendo all’indignazione della sua coscienza, aveva in fondo salvato anche se stesso. 

 

L’esperienza del lavoro sui Giusti e la creazione dei Giardini che li ricordano e li fanno vivere nelle esperienze educative, ci insegnano che bisogna ripartire dagli individui, dai singoli e concreti cittadini europei, con i loro retaggi culturali particolari e i loro mille linguaggi, facendo conoscere i valori europei universali come sono stati assimilati, vissuti e messi in pratica da persone che sono state straordinarie ma come potrebbe essere ciascuno di noi, se desse ascolto alla propria coscienza. 

La parola "Europa" non indica un'entità geografica, ma una nozione mentale. L'Europa non deve essere uno Stato, ma una federazione di liberi stati diversi, uniti da una cultura e un destino comuni che permettono di fissare alcune regole e accordi di convivenza (che non possono però essere solo economiche, monetarie e doganali). 

Dopo tutte le tragedie che l’Europa ha prodotto e subìto, soprattutto a causa dei nazionalismi, ancora recentemente (basti pensare alla tragedia delle guerre balcaniche che è stato il più grande fallimento dell’Europa) è molto importante fare proprie le parole del poeta Czesław Miłosz, che, all’inizio del suo esilio in occidente, scrisse una poesia bellissima e molto significativa intitolata Mittelberghein, Alsazia 1951:

 

"(…) La mia terra 

Si trova qui e ovunque, da qualunque parte mi volga 

O in qualunque lingua oda 

Il canto d'un bimbo, la conversazione di amanti”.

 

Intervento al Convegno internazionale di GARIWO, Coltivare i Giardini dei giusti per contrastare la "cultura del nemico". Frigoriferi Milanesi, 29 settembre 2018.

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