Parole Jelinek. Potere
Il potere in tutte le sue coniugazioni è l’asse portante dell’opera di Elfriede Jelinek, che – volendo riassumere – studia implacabilmente al suo microscopio linguistico le parole di chi il potere lo detiene e quelle di chi lo subisce. Questa esposizione del potere agito e subito tramite la parola è sostenuta da una incorreggibile volontà (e necessità) di credere nel potere della parola. In questo senso, come si è detto spesso e come si legge anche nella motivazione dell’assegnazione del Nobel, tutto nell’opera di Elfriede Jelinek è parola, parola contro il potere: «Per il flusso musicale di canto e controcanto nei romanzi e nei drammi, che con straordinario ardore linguistico rivelano l’assurdità dei cliché della società e il loro potere soggiogante». Elfriede Jelinek è salita su molte barricate, prima di persona, partecipando a manifestazioni e azioni pubbliche di protesta, poi affidando alle sue opere il compito di non abbassare mai la guardia, non cedere mai a compromessi, neppure di fronte al corso preso dalla storia. La sua rassegnata constatazione: «Ho perso. Noi abbiamo perso. Sto, come prima, dalla parte giusta, ma è la parte dei perdenti» («Basta» 4, 1990, 176) è del 1990 e segna, se possibile, un intensificarsi della sua irriducibile e – direi quasi – disperata volontà di non chiudere gli occhi di fronte ai meccanismi e agli inganni del potere.
Hitler in Heldenplatz, Discorso sull'Anschluss, Vienna, 1938
Nel 1974 Elfreide Jalinek si iscrive al KPÖ, il partito comunista austriaco, che incalzerà con voce critica a non svendersi e a confrontarsi anche con la storia recente, e dal quale uscirà nel 1991, anche in seguito alla fine della Guerra fredda, sentendo di essere stata sfruttata come una ”utile idiota” (Wir waren nützlichen Idioten, in «Falter» 42, 1998). Accanto e da sempre strettamente collegata al suo impegno politico, è anche l’attenzione particolare alla situazione subalterna e di sfruttamento delle donne, vittime ma anche complici loro stesse del sistema patriarcale che le tiene sottomesse. Anche in questo ambito il suo impegno è poliedrico, lucidissimo, mai schematico o astratto («… ora se [i gruppi femministi] trascorreranno veramente i prossimi dieci anni a occuparsi del proprio corpo, gli uomini domineranno il mondo per ulteriori dieci anni» (in: mamas pfirsiche. frauen und literatur 9/10, 1978, p. 174), e spazia dall’analisi critica in convegni e simposi, a prese di posizione pubbliche, alla scrittura – soprattutto e ovviamente – che reagisce a ogni incongruenza e sobbalza come una bacchetta da rabdomante a ogni minima increspatura nelle immagini e nelle parole tramandate. Anche qui pubblico e privato, cronaca e letteratura, biografia e l’autobiografia si intrecciano strettamente, seguendo le tracce del potere sulle donne così come si specchia nella vita di molte figure mitologiche (Euridice, Clitennestra, Elektra) o reali (Clara Schumann, Sylvia Plath, Ingeborg Bachmann, Jackie Onassis), fino ad arrivare alla cronaca nera (Elisabeth Fritzl e Natascha Kampusch, tragiche vittime bambine).
Il suo impegno politico di voce critica contro il potere, contro tutti i poteri, qualsiasi essi siano, non si è spento neppure in seguito al suo ritirarsi progressivamente dalla scena pubblica, che non ha significato un negare il suo appoggio a campagne e manifestazioni pubbliche, seppure solo in video, quanto invece l’andare a cercare le molte facce del potere, dal conflitto in Irak (Bambiland, 2003, tr.it. Einaudi 2005), alla guerra fra le religioni (Babel, 2005), al dominio dell’economia (Die Kontrakte des Kaufmanns 2009).
Jörg Haider
Le parole del potere
«Paese della musica e dei cavalli bianchi. Animali ti guardano, sono bianchi come i nostri panciotti, gli abiti carinziani di un buon numero di abitanti e dei loro amici politici sono bruni e hanno grandi tasche nelle giacche, in cui ficcar dentro un bel po’ di roba» (In den Waldheimen und auf den Haidern, «Die Zeit» 5.12.1986, nr. 50). Una delle “perplessità” che rimbalzarono sui giornali all’annuncio dell’assegnazione del premio Nobel a una autrice poco nota al di fuori dei confini dell’Austria, riguardava proprio la presunta “austriacità” della sua opera. In realtà, anche quando affronta direttamente la storia e la realtà del suo paese, Elfriede Jelinek punta sempre oltre. Ciò che lei smonta nelle sue pagine o sulla scena non sono persone o personaggi, ma sono i meccanismi tramite cui il potere si tramanda e si mantiene. Lo Haider de L’addio (Das Lebewohl, 2000, tr. it. Castelvecchi 2005), il più esplicito testo politico di Elfriede Jelinek, ha molti antenati, a cominciare dall’Oreste eschileo, e il suo folle discorso si trasforma nella voce suadente del potere che ritorna ancora una volta, nascondendo il suo volto mostruoso sotto l’aspetto amichevole: «Godetevi la vita! Voi, bisognosi di protezione! Siate svegli e riposati! Non è bello? Un tempo noi eravamo la morte, ce ne scusiamo e con questo siamo discolpati. Se proprio volete, siamo stati noi. Oggi noi siamo la vita eterna e non è colpa nostra, non fa quasi nessuna differenza. Loro urlano, ma noi esigiamo giustizia per noi. Tutto per noi!» (L’Addio, p. 27).
Il potere contro le parole
Lo scandalo che ha accompagnato una gran parte delle opere di Elfriede Jelinek è la reazione scomposta del potere – o di chi nella rassicurante ombra del potere si è adagiato – contro la parola che solleva i veli e scalza le comode illusioni.
Il ripetersi sulla stampa popolare di attacchi a quella che veniva vista come l’estremista, pornografa (Lust è del 1989 – tr. it. La voglia, Frassinelli 2004) culminata in una vera e propria campagna personale contro l’autrice, capace solo di scrivere disgustose porcherie e trascinare nel fango i valori più nobili, va di pari passo con un discorso pubblico e politico che fiuta il pericolo di essere messo a nudo (v. P. Janke, Die Nestbeschmutzerin. Jelinek & Österreich, 2002). Sintomatiche sono le reazioni alla prima di Burgtheater (Bonn, 10.11.1985), opera in cui vengono toccati alcuni “miti” fondanti dell’austriacità, come il teatro nazionale o gli attori Paula Wessely e Attila Hörbiger, vere icone del sentimento di appartenenza nazionale. La difesa indignata dei propri beniamini («Noi li amiamo», cit. da Janke, p. 177) riduce tutto all’offesa personale, oscurando (volutamente) la denuncia di una continuità storica del fascismo in Austria, nonché della responsabilità dei personaggi pubblici. Solo pochi mesi dopo, l’affaire Waldheim porterà a galla con violenza ancora maggiore l’ambiguità della visione storica austriaca, che mascherandosi dietro l’immagine di “vittima” del nazionalsocialismo per tutti quegli anni aveva evitato di fare i conti con il proprio recente passato: «L’aggraziato dimenticare e il non-aver-mai-saputo-qualcosa-non-aver-mai-notato-qualcosa di un singolo umilia tutti quanti» (E.J. in Lehmann et al., Von der Kunst der Nestbeschmutzung, 2009, p. 208).
L’attacco politico probabilmente più duro ed esplicito alla scomoda scrittrice viene sferrato durante la campagna elettorale del 1995, quando il suo nome appare sui muri di Vienna insieme a quello di esponenti di partiti avversari e dell’odiato (dai borghesi) Peymann, allora direttore del Burgtheater: «Amate Scholten, Jelinek, Häupl, Peymann, Pasterk … o l’arte e la cultura?» (Janke, p. 88).
Il conferimento del Nobel per la Letteratura nel 2004 a quella che per anni era stata considerata una sorta di nemica della patria e Nestbeschmutzerin (che sputa nel piatto dove mangia) venne accolto in un primo momento con stupore piccato e forte irritazione, seguito poi da una sorta di prudenza – come se ci si adeguasse pur senza troppa convinzione – almeno nelle voci pubbliche, perfino sulle pagine della Krone Zeitung, il quotidiano per anni in prima fila nella campagna di diffamazione.
Ovviamente neppure il massimo riconoscimento in ambito letterario può impedire che un’opera radicale e senza compromessi come quella di Elfriede Jelinek susciti scandalo, come è accaduto ad esempio con la messa in scena a Düsseldorf (2010) di Rechnitz (Der Würgengel) in versione integrale, cioè compreso anche il monologo “cannibalesco”, al quale molti spettatori reagirono abbandonando indignati il teatro. E neppure che la stampa cerchi spesso di sfruttare l’aura di enfant terrible dell’autrice.
La regina degli Elfi, Angela Malfitano, ph. Alessandra Fucillo
Il potere delle parole
«Meno colpi d’ascia, per così dire, in modo che dove sono passati i miei personaggi non cresca più l‘erba» (Ich schlage sozusagen mit der Axt drein, in «TheaterZeitSchrift» 7,1984, p. 14). Le parole di Elfriede Jelinek si abbattono con forza sui pensieri, gli stereotipi e le immagini patinate dietro cui è facile giustificarsi e mettersi a posto la coscienza, e danno tanto più fastidio al potere, che dell’effetto anestetizzante di simili abitudini vive.
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Si è chiuso ieri, il 17 marzo, il Festival Focus Jelinek, una rassegna itinerante per l’Emilia Romagna a cura di Elena Di Gioia dedicata alla scrittrice austriaca premio Nobel. Da ottobre a marzo ha attraversato, da Piacenza a Rimini, teatri, biblioteche, aule scolastiche e universitarie con spettacoli, letture, performance, laboratori, convegni, in un tentativo di raccontare da più prospettive un’autrice ruvida, corrosiva, a volte imprendibile, sempre capace di interrogare in modo radicale i nostri tempi. Doppiozero ha chiesto ad alcuni critici e studiosi di stilare durante il Focus un piccolo catalogo di Parole Jelinek, sei, una al mese. Questi lemmi vogliono essere chiavi per entrare nei paesaggi di decostruzione e di memoria, di scabra analisi e di disgusto, di scrittura e di evocazione di lingue della scrittrice. Con questa voce, Potere, il ciclo giunge a conclusione, dopo aver percorso: teatro, linguaggio, Lieder (ma forse anche leader), miti d’oggi, patria.