Speciale
Invito alla metapolitica / Oltre la guerra
Parlando con alcuni miei interlocutori negli incontri di analisi e cercando con loro di tracciare qualche coordinata per affrontare ansie montanti che nascono in queste settimane dal sentirsi colpiti dalla guerra, siamo ripartiti dalla posizione nella quale ci si trova come ricettori di immagini-notizie.
Non si può neppure accennare alle innumerevoli teorie sullo spettatore, né in seduta né qui – dovremmo metterci a studiare il tema, almeno da Diderot a Debord. Però credo sia importante, magari semplificando, porre come punto di partenza la domanda: “quale è la postura di chi osserva come spettatore che guarda da lontano, (tele-visivo)?”.
La posizione dello spettatore e il sequestro dell’empatia
Dalla critica biblica alle scienze umane – perfino in fisica – è rilevante tenere conto di come avviene l’osservazione. Il “posto nella vita” che occupano gli autori e i lettori è decisivo per poter comprendere un testo o un qualsiasi altro segno. Per chi è quasi travolto dalle immagini della guerra – ed è evidente il coinvolgimento emotivo molto più intenso dell’immagine rispetto alla lettura per via dell’attivazione più diretta e completa dell’apparato percettivo –, e si trova ad essere spettatore di una azione spaventosa, si ricrea una perfetta situazione da incubo: la reazione corporea di fuga, o di attacco, è sospesa, come durante il sonno, perché siamo immobilizzati rispetto all’azione possibile. Si può solo spegnere il video. Proprio come nella reazione all’incubo: ci si sveglia. Nello stesso tempo si è invasi da messaggi che suscitano reazioni empatiche a partire dal movimento delle immagini sullo schermo, si attivano i neuroni specchio, potremmo dire. Il risultato: il sequestro dell’empatia. Non lo sappiamo, ma le nostre sensazioni, percezioni, emozioni sono per lo più provocate da uno scenario predisposto per creare le nostre reazioni. Più o meno come in Matrix. Solo che qui la guerra è “vera”, e vere sono le nostre prese di posizione e il nostro coinvolgimento in questioni di vita e di morte di molti.
Le immagini che condizionano lo spettatore impotente sono quelle di un sognatore che sogna un sogno altrui, prefabbricato perché lo coinvolga in un atteggiamento fortemente condizionato dalle sue reazioni emotive, reazioni così forti da sospendere, o rendere difficoltosa, ogni distanza che le sue capacità critiche potrebbero interporre tra la situazione e gli effetti probabili sul suo psichismo. D’altra parte non si può dare capacità critica senza avere una qualche conoscenza pregressa delle condizioni che possono aver creato la situazione che si presentifica davanti ai nostri occhi.
Un po’ difficile direi per la grande maggioranza delle persone la cui conoscenza media della storia dell’ultimo secolo dell’Ucraina, della Russia, dell’Urss, della Nato, delle politiche USA ed europee nel mondo, è pressoché nulla. Ricordo che negli anni del conflitto in Iraq ascoltai le domande a bruciapelo di alcuni cronisti ad un gruppetto di deputati che uscivano da una riunione della commissione esteri. Pochi di loro sapevano dire con quali stati confinava l’Iraq.
Attivare una posizione critica significa avere passione e conoscenza per l’argomento. Passione e conoscenza per la politica e per la storia. E dove stanno passione e conoscenza? E non solo in Italia. L’egemone mondiale da quasi ottanta anni, il baluardo e il crociato della democrazia, gli USA, non sta affatto meglio. E non solo per la parte della popolazione poco e male scolarizzata, ma anche per i gruppi dirigenti, addirittura per i presidenti, basti pensare alle fenomenali gaffe dei due Bush e di Trump.
Gramsci da qualche parte ha scritto che è bizzarro che nessuno si attenti a discutere di zoologia visto che non l’ha studiata e non ne sa nulla, o quasi, ma tutti si mettono a parlare di politica. Certo i social media ci hanno insegnato che di tutto si può sproloquiare.
Dico questo perché l’unica e parziale vaccinazione contro l’epidemia mediatica delle notizie shock e spot sulla guerra – la guerra è infatti una delle più vendibili forme di intrattenimento, meglio delle serie dei gialli, che solletica le nostre lugubri passioni e stordisce la potenziale introiezione del lutto – sarebbe qualche ora almeno di studio della storia, affiancata al confronto con qualche fonte di provenienza diversa e di posizione opposta alle proprie.
Una dottoressa molto attiva – fino quasi all’esaurimento –, in reparti Covid, gioca con i suoi bambini su un grande atlante dove ogni parte del pianeta mostra alcune sue caratteristiche (popolazioni, risorse, storia …). I bimbi si sono abituati a fare domande e uno di loro, parlando dei profughi – quelli della guerra in Ucraina e altri da paesi al collasso o quasi – ha chiesto alla madre: “ma allora dipende quasi tutto da dove uno è nato?”. Quel bimbo avrà, crescendo, qualche anticorpo in più rispetto al diluvio di propaganda che gli verrà somministrato, volente o nolente, nella vita adulta.
Il trionfo dei senza se e senza ma
Una campagna mediatica, quella dei “senza se e senza ma” alla quale si sono purtroppo – per me almeno – iscritte anche persone di tutto rispetto, è quella contro “i né-né”, che sarebbero quelli che non si vogliono schierare né da una parte né dall’altra. Così si mettono nello stesso calderone di dannati gli ignavi e gli opportunisti, i filoputiniani travestiti e i pacifisti. Questa campagna somiglia, involontariamente – inconsapevolmente? – a quella contro i cosiddetti “disfattisti” che, per ragioni diverse, in una mistura di anarchici e comunisti, di antinazionalisti e di pacifisti integrali, non volevano schierarsi, e tantomeno combattere, prima e durante la prima guerra mondiale.
Ecco, io simpatizzo per i “disfattisti”, quelli che non sono affatto “né-né”, ma che sono apertamente contro il regime della cleptocrazia oligarchica russa a ideologia nazionalista e contro la cleptocrazia oligarchica ucraina a ideologia nazionalista. I “contro-contro” – e sono comunque migliaia e migliaia, basta documentarsi un po’ su fonti alternative al mainstream politico-informativo – che sono per la pace e per un cambiamento di regime sia in Russia che in Ucraina (oppure che si battono, nelle Chiese ortodosse in lite dei due paesi, contro le rispettive gerarchie arruolate dalle guerre patriottiche. Un conflitto presente anche nella chiesa uniate greco-cattolica).
Ho detto “cleptocrazie”: sì, voglio dire il gruppo sociale che si è affermato durante e dopo la dissoluzione dell’URSS. Una riedizione dei robber barons del capitalismo americano (approssimativamente dal 1860 al 1900), con la stessa avidità furiosa e corruttrice, con la stessa violenza senza scrupoli, ma con molto meno successo industriale-finanziario perché arrivano con un ritardo secolare in un mercato ormai globalizzato. In sostanza quelli erano criminali “creatori” – a modo loro – di un capitalismo nascente, questi sono criminali approfittatori di un capitalismo abborracciato e arretrato, di una malformazione del capitalismo stesso, quasi una degenerazione. Di fronte a questa storia, tremenda e gigantesca, provo sconcerto nel leggere analisi che riducono tutto a un capo di stato criminale (capo di uno stato dominato da ladroni di cui è solo il primo ladrone, specializzato in politica, mentre ai suoi soci ha lasciato il pascolo economico-finanziario). Mi sembra di tornare – ma ci siamo mai usciti? – alla storia fatta dai “principi”, dai “capi”, dai “grandi uomini” (buoni e cattivi, e spesso buoni e cattivi a seconda degli schieramenti), in ogni caso dai singoli o da ristrette élite. Un incubo culturale che si aggiunge a tutti gli incubi politici e umani che si devono sopportare.
C’è qualcosa però di strampalato, fortunatamente. In questa assurdità sta una microparticella subatomica di speranza: oggi, spesso non si può discutere, che so, del disagio scolastico di una bambina o di un bambino, senza implicare una visione il più possibile sistemica: qual è il suo sistema-famiglia, la provenienza sociale, la storia di formazione, però si può discutere, il più delle volte, della guerra russo-ucraina e delle guerre nel mondo lasciando sullo sfondo la loro storia recente, la dissoluzione di un sistema, la ricomposizione di un altro. In questi frangenti si dovrebbero preferire gli studi che inquadrino come “sistema in prospettiva storica” gli avvenimenti e che, magari, abbiano anche hanno fornito qualche possibile chiave interpretativa in anticipo, dando con ciò prova di una capacità analitico-predittiva. Rileggere allora La geometria dell’imperialismo di Giovanni Arrighi (pubblicato nel 1978 da Feltrinelli), insieme a Il lungo ventesimo secolo (pubblicato nel 1994 in inglese, ripubblicato poi con una postfazione del 2009 – seconda edizione Saggiatore 2014), farebbe scoprire che, ben prima del crollo dell’URSS, la tipologia imperiale russa era decisamente “fuori tempo”, arretrata perché basata su occupazione di territori e sul controllo militare, con un livello di produttività che la faceva appartenere alla semiperiferia del sistema-mondo. Quindi era destinata alla sconfitta.
E oggi – ma già nelle campagne in Cecenia e in Georgia, poi nel Donbass e in Crimea, negli interventi in Siria, in Libia, nell’Africa subsahariana – è evidente che il controllo russo continua a passare attraverso conquiste territoriali e occupazione militare. Mezzi inefficaci e “costosi” da ogni punto di vista – innanzitutto per perdite umane, sull’uno e sull’altro fronte, poi per la distruzione massiccia di infrastrutture e luoghi di produzione, infine, ma non ultimo, per l’inevitabile e duratura delegittimazione (con tempistiche certo diverse a seconda delle situazioni) della propria presenza nei confronti della popolazione civile.
Oggi potremmo dire che la guerra in Ucraina è una tappa ulteriore – la più tragica – del processo di dissoluzione dell’URSS, il seguito delle guerre tra Armenia e Azerbaigian, in Cecenia, in Georgia, della crisi in Kazakhistan. Il fallimento del tentativo gorbacioviano – forse utopistico, ma caso rarissimo, per non dire unico, di una rinuncia ad un impero senza di fatto seri spargimenti di sangue – fu guardato con malcelato piacere da parte degli occidentali, specialmente dal Fondo Monetario Internazionale: i Chicago Boys erano i consulenti più ascoltati da Eltsin e dal suo gruppo, e quindi via libera a privatizzazioni selvagge a vantaggio di burocrati e avventurieri, economia improvvisamente aperta alla concorrenza estera, drastica diminuzione della spesa pubblica. Queste furono le ricette adottate, peggiori della malattia che avrebbero dovuto curare.
Il sistema sovietico era in crisi profonda, riusciva a stento a fornire prodotti e servizi di base di bassa qualità, oltre alla piena occupazione (una sintesi del periodo scritta da Vincenzo Comito si può leggere su Sbilanciamoci). La spesa militare la faceva da padrona, nel tentativo malriuscito di tener testa agli USA e alla NATO. Gli anni dopo l’URSS furono una catastrofe per caduta del reddito, aumento vertiginoso della popolazione sotto la soglia di povertà, diminuzione della aspettativa media di vita. L’indice di Gini, che misura le disuguaglianze, passa dal 28,9 nel 1991 al 40% nel 2000. Solo nel 2007 la Russia ritorna ai livelli del PIL dell’ex URSS. E non è un caso che, dopo Eltsin, arrivi Putin, un esponente dell’unica istituzione che aveva mantenuto una ramificazione nazionale, un discreto livello di preparazione dei suoi quadri, una miniera di informazioni capaci di ricattare chiunque: i servizi segreti. L’Ucraina ha avuto una storia solo in parte diversa: i dati economici sono simili, l’occupazione del potere da parte di burocrati e avventurieri, o filorussi o nazionalisti, ha creato anche lì una sorta di cleptocrazia che si appella al liberalismo, poca o nessuna tolleranza, anzi uso dell’intimidazione e della violenza contro alcuni tipi di minoranze (femministe, LGBT, sinistre e Rom), oltre alla nascita di piccoli eserciti privati, alcuni di estrema destra come il battaglione d’Azov che ha dato la scusa ai russi per agitare lo spettro del nazismo.
Per anni, con più o meno contenziosi, USA e Europa, Italia e Germania in prima fila, hanno blandito tanto Putin quanto gli ucraini: si sa, i profitti non hanno facce, le usano soltanto.
E i cosiddetti democratici dell’occidente hanno anche approfittato della propensione russa alla spesa militare (è la quarta nazione al mondo con 61,7 miliardi di dollari, gli USA ne spendono 778, la Cina 252…) per esportare il loro ricchissimo arsenale. Un articolo di La Repubblica raccontava che il mezzo blindato leggero Lince, prodotto dagli italiani, è una delle prede più ambite dalle truppe ucraine quando riescono a respingere i reparti russi.
Questa è ovviamente solo una specie di metafora che ci fa intuire quanto produzione e commercio di armi siano estesi in ogni direzione e ci fa sensatamente sospettare che – come hanno detto da decenni i fautori seri del disarmo e della riconversione dell’industria bellica – chi vuole la pace deve prepararla, evitando di riempire il mondo di armi che, prima o poi, verranno usate (e quando non vengono usate, come quelle nucleari, possono venir trasformate in minacce incombenti).
Mosche cocchiere e tafani socratici
Quando ci si ingiunge di scegliere “senza se e senza ma” tra aggressore e aggredito si implica anche che ci si debba in qualche modo schierare sotto le bandiere non solo della cleptocrazia a ideologia nazionalista dell’Ucraina, ma che si debba anche sospendere l’opposizione (persino quella purtroppo poco influente dei nostri pensieri) ai sistemi sociali e di governo delle cosiddette liberal democrazie – che mi ostino a pensare come capitalcrazie a ideologia liberaldemocratica (come gli Usa e la nostra Europa). L’invito è poi in realtà quello a giocare alle “mosche cocchiere” perché quattro scribacchini, come siamo, non hanno nessun potere reale di influenzamento della “politica che conta”, ma in alternativa potrebbero pensare, sperare, sognare, un “altro mondo possibile”.
Bene, preferisco allora il ruolo del “tafano socratico”. Ovviamente purtroppo quasi solo tafano e poco Socrate, ma si fa quel che si può.
Peraltro la grande politica si è mostrata poco sensibile anche nei confronti dei suoi stessi esperti: non si è valutata a sufficienza, per esempio, la pericolosità, segnalata nientemeno che da Kissinger – che non è certo una colombella pacifista e la cui esperienza, e i cui successi, nella politica internazionale, sono senza eguali – di stringere all’angolo, allargando i confini Nato, la Russia e il gruppo dirigente putiniano. Chi è debole economicamente e socialmente e volto da decenni alla spesa militare come prima scelta, può cercare una via d’uscita, come spesso accade, in dissennate avventure bellico-criminali.
La storia non insegna niente, purtroppo: è quasi una ovvietà che è stata l’incommensurabile tracotanza dei vincitori della prima guerra mondiale a gettare la Germania in una condizione senza speranza e a produrre con il tempo la reazione nazista.
Naturalmente cercare di spiegare una condizione storica non giustifica nulla, ma neppure il procedere dissennatamente è giustificabile. Quanto all’amministrazione USA, è interessante la testimonianza di Fiona Hill, pubblicata dal New York Times. Hill era una funzionaria dell’intelligence USA per Russia ed Eurasia. Nel febbraio del 2008 discuteva nello studio ovale con il presidente George Bush e con il suo vice Dick Cheney, sostenendo che offrire un percorso Nato a Georgia e Ucraina sarebbe stato problematico e non privo di pericoli. Secondo Hill bisognava tener conto anche della contrarietà di alcuni alleati Nato che temevano le reazioni di Putin. Cheney – non un campione di saggezza democratica – sbottò: “Così mi sta dicendo che Lei si oppone alla democrazia e alla libertà!”, dopo di che, irritato, abbandonò la riunione. Il parere della Hill fu ignorato a Bucarest quando Bush parlò della accoglienza favorevole, nel piano di adesione alla Nato, di Georgia e Ucraina.
Altri stati Nato mostrarono la loro contrarietà ma poi si arrivò a una dichiarazione di compromesso che non specificava come e quando si sarebbe potuto avviare il processo, si manifestava però approvazione per la volontà delle due nazioni di voler diventare membri dell’Alleanza. Quattro mesi dopo il summit di Bucarest, le truppe russe lanciano un attacco nel sud Ossezia. Con cinque giorni di guerra occupano il 20% del territorio della Georgia. Già al tempo Putin comincia a dire che “l’Ucraina non è una nazione” (quando annunciò l’attacco in Ucraina, quest’anno, ha accusato Lenin per aver sostenuto la autodeterminazione delle nazioni disconosciute dall’impero zarista – questo per far capire di quale progetto iper-reazionario è il rappresentante). Nessuno peraltro, da nessuna parte, ha preso poi sul serio gli accordi di Minsk per trovare tregua e soluzione alla questione del Donbass: 29 accordi di cessate il fuoco sono stati violati, 13mila i morti. E molto sottovalutata nelle riflessioni di oggi è la ricchezza mineraria della regione del Donbass, anche se niente affatto sconosciuta. Scrive Giuliana Ferraino sul Corriere della Sera del 10 Aprile: “Il Donbass è una delle regioni più ricche non solo di carbone, gas e petrolio, oltre che di ferro, manganese, titanio e uranio, ma è anche l’area dove si trovano le maggiori riserve in Europa di metalli e terre rare, che sono alla base dell’industria del futuro, perché utilizzati nell’industria hi-tech e nella green economy”.
Certi minerali hanno un costo che non ci è facile accettare, che non vogliamo vedere perché la scena di guerra è più lontana, perché siamo implicati indirettamente – e non solo – come aziende e stati occidentali, perché ci sono così tanti signorotti della guerra con i quali bisogna trattare, più o meno sottobanco, che non è facile trovare un capro espiatorio con il quale lavarci la coscienza, infine perché saremmo forse spinti a guardare persino il nostro cellulare con sospetto. Sto parlando del coltan, di cui il Congo possiede il 64% delle riserve mondiali e che è un minerale necessario per i nostri sistemi di telecomunicazioni, cellulari appunto compresi. Nelle guerre congolesi dal 1998 al 2008, secondo le stime dell’americano International Rescue Committee, sono morti 5, 4 milioni di persone, dal 1996 1200 donne vengono violentate ogni giorno, innumerevoli sono i feriti, i mutilati, gli sfollati.
Ma la crisi è appunto di sistema, il crollo dell’Urss, dopo i primi vacui entusiasmi, non ha prodotto la vittoria del grande egemone USA: dall’Afghanistan, all’Iraq, alla Siria, alla Libia e al Corno d’Africa e all’Africa Centrale crisi su crisi si sono ripetute e aggravate, persino con qualche aumento dell’influenza militare russa. La tragedia Ucraina si svolge su questo sfondo, un perdente globale (la Russia) e un vittorioso a stento e a metà (gli USA e la Nato), giocano una partita che non avrà neppure il risultato di salvare l’uno o di far riprendere all’altro una nuova fase espansiva sullo scacchiere mondiale. Come sempre piangere sul costo umano della guerra è più che giusto e sensato, ma le lacrime non devono impedire di guardare l’orrenda realtà del gioco delle potenze.
Metapolitica e utopia oltre l’orizzonte della guerra
Che fare allora? Allargare ancora lo sguardo, andare a fondo del tema della guerra e inserirlo nei processi di pseudospeciazione, fino ad oggi costanti della storia umana, individuare le nuove caratteristiche della giustificazione della violenza organizzata e armata, mettere in questione la politica stessa come espressione dei rapporti di forza e della dialettica amico-nemico. Preparare, ma senza l’ansia realizzativa tipica dei moderni, lo sguardo e il fare utopico come orientamento di senso, come ideale della ragione e del sentimento, non come concretizzazione da forzare.
Nell’etologia umana – seguendo qualche indicazione di Eibl-Eibesfeldt – possiamo trovare un suggerimento per guardare alla guerra dal punto di vista della storia della lunghissima durata. La pseudospeciazione è il processo secondo il quale le culture umane trasformano il conspecifico in qualcuno-qualcosa di estraneo e ostile alla specie stessa, lo trasformano cioè in non-umano. Quindi in chi o in ciò che si può uccidere, torturare, opprimere, misconoscere radicalmente. Non è che le altre specie animali, e in particolare i mammiferi, non sopprimano mai conspecifici, ma ciò accade in situazioni molto particolari, poco frequenti, oppure per incidente. Tutto al contrario degli umani per i quali l’uccisione del nemico, la guerra, è una costante di tutti i tempi e di tutte le culture delle quali possiamo sapere qualcosa di abbastanza sicuro.
I ricercatori che hanno scoperto i neuroni specchio hanno anche ipotizzato che determinati condizionamenti culturali riescano a inibire la reazione empatica, producendo una tale deformazione dell’immagine del nemico da non farlo più riconoscere come un altro umano. Questo meccanismo è anche alla base della creazione proiettiva collettiva, familiare e individuale, dei capri espiatori, di solito scelti tra gli estranei, gli stranieri, appartenenti a una condizione sociale disprezzata. All’opposto i capri espiatori possono anche essere scelti tra persone eminenti o privilegiate. In ogni caso vale la legge dei più e le imputazioni del male colpiscono in genere qualche tipo di minoranza.
Ora, invece di moralizzare a sproposito su una storia millenaria, dovremmo cercare di capire la logica e l’utilità di queste dinamiche. Credo che vadano cercate nella necessità della coesione del gruppo, fino a quando – cioè fino alla piena modernità capitalistica – la sopravvivenza è fondamentalmente legata alla coesione sociale attraverso relazioni dirette tra appartenenti alla comunità, e non principalmente mediata da processi di produzione e di scambio di strumenti e di cose. Le abilità di ogni tipo di lavoro, produttivo e riproduttivo che sia, sono incarnate, sono nei corpi addestrati dei membri del gruppo. Tenerli insieme, dare la cooperazione tra loro come scontata, assicurarla con premi e punizioni, è necessario alla sopravvivenza. Il meccanismo della pseudospeciazione e del capro espiatorio sono funzionali a questa continuità. In questa ottica sarebbe presuntuoso, frutto dell’arroganza di chi è venuto dopo e giudica dall’esterno, condannare le guerre del passato.
Ma lentamente, fino al capitalismo globale nella forma raggiunta dopo la seconda guerra mondiale, le necessità di sopravvivenza dei gruppi sono sempre più una variabile dell’interdipendenza da tutto e da tutti nell’economia-mondo. Come si vede la struttura è immensamente più avanti della nostra consapevolezza.
La realtà della connessione globale ha in sé stessa più spirito progressivo di ogni ideologia oggi corrente. Le controreazioni nazionaliste-fondamentaliste-identitarie sono gli inevitabili colpi di coda di un mondo che sta morendo e che non ha speranze di riprodursi. L’interdipendenza non è solo un fenomeno sociale “esterno”, esso plasma la psicologia collettiva, anche se con i tempi della lunga durata. Dobbiamo realizzare che l’interdipendenza diventerà sempre più interintradipendenza. La nostra interiorità sarà sempre più forgiata dal mondo e sempre meno dalle nazioni, da gruppi sociali ristretti e dalle famiglie.
La guerra che, volenti o nolenti, è stata un meccanismo inevitabile della necessaria pseudospeciazione e individuazione di capri espiatori, perderà sempre più la sua utilità e apparirà come una perversione di un mondo passato per sempre. Intanto la cattiva coscienza collettiva si mostra in una perversione che ci mostra, se la sondiamo ben al di là delle apparenze, quanto – sul piano della lunga durata – la violenza collettiva della guerra sia diventata intollerabile.
E la goccia scava e scaverà la roccia. Voglio dire che, a differenza di Pericle (per dire di uno dei più intelligenti capi di stato dell’antichità) che minacciava esplicitamente di sterminio chi non si voleva sottomettere (e così hanno fatto tutte le società fino a un secolo fa, sotto tutte le latitudini), nel Novecento, dopo un lento influenzamento culturale di secoli e secoli, si è fatta strada la necessità di giustificare la guerra come ritorsione a una ingiustizia subita. Da Hitler all’invenzione da parte USA dell’incidente del golfo del Tonchino per attaccare il Vietnam del Nord, da Milošević a Saddam Hussein e di nuovo all’invenzione della presenza di strumenti di sterminio di massa in Iraq per giustificare l’intervento “occidentale”, a Putin contro l’Ucraina, l’aggressore deve travestirsi da vittima. Evidentemente il lavorìo della condanna etica della violenza e in specie della guerra ha prodotto i suoi risultati: da Buddha a Jina (giainismo), da Isaia a Gesù di Nazareth, da Francesco d’Assisi a infiniti altri, fino ad arrivare a Charles Irénée Castel de Saint Pierre, a Bertha von Suttner, a Romain Rolland, a Etty Hillesum, a Thich Nhat Hahn, a Martin Luther King, a Thomas Merton, il pacifismo ha sottratto alla guerra la sua giustificazione. Le è rimasta quella di rivestire il ruolo della vittima. La gara è a chi occupa il posto della vittima, il che ci mostra che la guerra è diventata indisgiungibile dalla cattiva coscienza. Certo questo non consola nessuno nell’immediato e chissà per quanti secoli ancora, ma dice che questa contorsione delle coscienze è sintomo di una malattia fortunatamente mortale per la specie dei belligeranti.
“Noi credevamo” – qui mi riferisco alla generazione delle rivoluzioni e delle aspirazioni dei contestatori dei primi due terzi del Novecento – che fosse necessaria un’ultima guerra, quella di classe, per liberare per sempre l’umanità dal suo mostro. Avevamo torto. Come Marx, ma anche come i rivoluzionari borghesi dell’Ottocento, il nostro senso del tempo era, acriticamente, preso sulla misura della velocità impressionante del progresso economico-scientifico moderno. Per esperienza oggi sappiamo che non è così. Non conosciamo il momento dell’avvento del “tempo messianico”. Ma la sua venuta sta nelle cose. La guerra è diventata controproducente e la realtà dell’interdipendenza si farà valere come un fatto. Anche catastroficamente, naturalmente e purtroppo: ciò vuol dire che non è detto che il nuovo mondo possa evitare ancora guerre, crisi violentissime, tanto sociali quanto ecologico-sociali. Ma se pensiamo dentro il ritmo della lunga-lunghissima durata, allora possiamo vedere il futuro, sognato dai profeti di molte spiritualità e religioni, già albeggiare nella tempesta.
Il vecchio detto derisorio di Keynes che nel lungo periodo saremo tutti morti è ovviamente vero, ma non vale granché: morti saremo comunque, solo che c’è chi muore sperando e sapendo che ciò che infinitamente lo sorpassa vivrà, facendo un passo fuori dalla macelleria della storia che è ancora pre-istoria dell’umano.
Questo ragionamento e questo sentire comportano il superamento della politica politicata come sapere dei rapporti di forza e come calcolo dello scontro tra gli amici e i nemici. Si può alzare la testa, camminare diritti, guardare al di là di questa politica verso una meta-politica che faccia della cooperazione in un patto di equilibrio solidale e di pace il suo orizzonte di senso, regolativo di ogni criterio per valutare la direzione del nostro agire. Preparare un “resto di Israele” che sappia conservare e sviluppare la meta ideale, senza deflettere di fronte alla sua stessa irrilevanza attuale e del prossimo futuro, è uno scopo che trascende, nella storia sperata e progettata, l’autoriferimento egoico che domina senza rivali il mondo di oggi.
L’utopia insomma, come criterio di giudizio della direzione del cammino, non come stato da concretizzare sopra la testa e il cuore dei con-viventi sul pianeta.
Esercizi di spiritualità laica per meditare la guerra e oltrepassarla individualmente e in gruppo
Le utopie per camminare hanno bisogno di essere frequentate quotidianamente, di essere preparate in noi, e noi abbiamo bisogno di diventare quel cambiamento che desidereremmo vedere nel mondo, come diceva Gandhi (e con lui moltissimi altri).
Propongo quattro esercizi delle pratiche filosofiche, cioè della filosofia come stile di vita (di cui Philo e l’analisi biografica a orientamento filosofico, che ha la sua associazione in Sabof, sono ovviamente solo un esempio, tratto da una esperienza di grandezza risibilmente subatomica: ma la spiritualità laica ha la prospettiva di integrare religiosi e non religiosi in una ricerca fondata su regole di comunicazione biografico-solidale, partendo da sé ma non per finire con sé, per abituarci a convivere con ogni differire, purché intenzionato a cooperare nella presa di coscienza e nella speranza di un incremento di consapevolezza e di responsabilità).
Il primo esercizio è tratto dalla filosofia antica greco-romana, rivisitata da Pierre Hadot: guardare il mondo dall’alto. Oggi basta figurarsi un viaggio d’aereo, per esempio sopra le Alpi, e guardare giù, immaginare anche se stessi piccoli piccoli giù in basso. Tutto si relativizza, per esempio i confini scompaiono. Con un’aggiunta di un pizzico di storia si può contemplare l’immane macello delle guerre per una porzione di terra che oggi invece, almeno in una parte dell’Europa, non esistono più. In ogni caso la potenza di qualsiasi dominio – come già ai tempi dell’Impero Romano – viene ridotta a realtà poco rilevante.
Con Leopardi, da “La sera del dì di festa”:
Or dov’è il suono
Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
De’ nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
Che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Il secondo esercizio tiene conto dell’enorme distanza tra noi e gli antichi filosofi. La nostra storia ha sempre più insistito sulle singolarità degli individui, anche se riducendole per lo più alle libertà di mercato e all’ideologia. Dobbiamo ripartire da noi stessi, ma non fermarci al sé, come scriveva Buber. Dunque possiamo sviluppare un dialogo basato sulle nostre esperienze biografiche escludendo, nel tempo dell’esercizio, discussione e interpretazioni dell’altro, caso mai offrendogli anamorficamente una nostra prospettiva, analizzando in silenzio invece le nostre proiezioni d’ombra, cioè le negatività che crediamo di vedere nell’altro. Noi – Philo e Sabof – le chiamiamo le cinque regole della comunicazione biografico-solidale (si può andare a leggerne qualcosa sui siti delle due associazioni: qui e qui). Dopo ventisette anni di esperienze possiamo dire che sono una via all’educazione alla pace, visto che fanno convivere atei e credenti di diverse religioni, estrema sinistra e democratici più o meno moderati, junghiani, freudiani, reichiani e lacaniani etc. etc.
Il terzo esercizio è quello della disputa interiorizzata, utile per passare alla discussione di contenuti veri e propri. Si tratta di una discussione tra due gruppi che sostengono tesi opposte, con la massima tensione possibile a demolire le posizioni degli avversari. Le uniche regole sono i tempi dati a ciascun gruppo. Poi però si rovesciano le parti e ciascun gruppo dovrà sostenere le tesi che aveva attaccato precedentemente. Così si entra nel vivo dei propri dubbi, della relatività delle posizioni e, comunque, come diceva Gramsci, si impara che dobbiamo cercare di dare la versione migliore possibile delle opinioni contrarie: questo è l’unico modo serio per migliorare le proprie, in ogni caso.
Voglio finire però con un esercizio che chiamo “l’esercizio dell’oggetto”, con una funzione di de-feticizzazione.
Prendete il vostro cellulare, guardatelo attentamente, immaginatene, vagamente visto che quasi tutti noi non ne sappiamo niente, i processi di lavorazione, la commercializzazione, il miracolo delle scienze e delle tecniche che lo hanno reso possibile e che sono frutto di secoli di pensiero e di realizzazioni inventive etc. etc. Ma non dimenticate le materie prime, non scordatevi che c’è molto coltan nel nostro cellulare. Da quel vostro oggetto emergerà così una processione di storie, spesso insopportabili, di guerre, di violenze di ogni genere, di sfruttamento secolare.
Questo credo che sia un atto di dolore laico che ci prepara alla possibile conversione, alla metanoia, di mente e cuore.
Per rendere possibili cammini verso l’utopia di una storia liberata dalla oppressione e dalla violenza sui simili – e forse anche sui nonsimili – è necessario, come scriveva Georges Friedmann, “rendersene degni”, spiccare il volo degli esercizi spirituali ogni giorno.