6 settembre 1944 - 14 luglio 2021 / Christian Boltanski: la resistenza all'entropia del tempo
Per tutta la vita Christian Boltanski ha incarnato l'impulso forse più antico e profondo che spinge l'uomo a fare arte: resistere alla morte, all'entropia del tempo, all'indifferenza del caso di fronte al quale siamo tutti unici e tutti uguali. Si è spento il 14 luglio, a 76 anni, ma i suoi atti di resistenza resteranno a lungo, in giro per il mondo, prima di arrendersi all'entropia. Il suo cuore, per esempio, continuerà a battere in una stanza in penombra sull'isola di Teshima in Giappone, pulsando in sincrono con una lampadina che illumina a intermittenza pareti rivestite da pannelli neri specchianti. E batterà finché questa installazione permanente sarà ospitata in quel museo che sembra una bianca astronave aliena affondata sul fianco della collina e aperta verso il cielo e l'oceano. «L’artista per me è come se avesse sulla faccia uno specchio così che ognuno quando lo guarda possa dire: “sono io”», ha detto in questa bella intervista.
Si potrebbe pensare che è un privilegio esclusivo dell'artista, che può lasciare in custodia le sue reliquie in luoghi come questo, adibiti al culto dell'arte. Niente di più lontano da Boltanski. «Il ruolo e lo scopo dell’artista è di scomparire», diceva. E lo ha fatto, paradossalmente, mettendo in scena la sua vita, o meglio trasformando la sua vita e i traumi della sua infanzia in leggende poetiche, a volte grottesche a volte inquietanti, e confondendo la sua storia e il suo volto con le vite e i volti di migliaia di morti sconosciuti. È proprio questo il segno distintivo della sua poetica: la pietas verso noi tutti, vittime anonime dell'inesorabile entropia della memoria, una pietas di cui fa parte la consapevolezza dell'inevitabile fallimento, perché è proprio il fallimento ciò che ci accomuna. «Tutta la mia vita, tutto il mio lavoro sono un fallimento perché sono stati una lotta contro la dimenticanza; ho cercato di salvare dall’oblio, ma questo non è possibile».
Assieme al battito del suo cuore, su quell'isola, sono archiviati quelli, tutti diversi, delle decine di migliaia di persone che hanno registrato il loro a partire dal 2005. E ad essi si aggiungeranno i battiti di coloro che andranno a visitare i suoi Archives du coeur, che ascolteranno le fragili tracce acustiche e decideranno di aggiungere le loro; che vedranno i loro volti apparire fugacemente sui pannelli neri specchianti, volti unici e viventi che col tempo diventeranno volti anonimi su foto sbiadite, come quelle che Boltanski ha collezionato, ingrandito ed esposto nel corso della sua carriera. «Nel mio lavoro ho sempre voluto che ci fosse molta gente: ci sono migliaia di persone, migliaia di oggetti d’inventario, lunghissimi elenchi […] Ciò che tento di mostrare è allo stesso tempo il numero e l’unicità di ogni individuo. È molto importante per me: siamo tutti apparentemente simili e tuttavia differenti, tutti unici, quindi in questo senso tutti salvi».
La sua opera, fatta di installazioni, video, assemblage di oggetti e foto trovate, appartiene interamente al paradigma contemporaneo, ma non indulge mai all'esoterismo cerebrale di molta arte dell'ultimo mezzo secolo. Al contrario, le sue metafore, fatte spesso di cose umili e quotidiane, toccano sempre emozioni universali mettendo in scena domande che ci riguardano tutti. «Lavoro con il senso comune, con l’idea del familiare. […] Ogni oggetto artistico è all’interno di ciò che è familiare, riconoscibile, già conosciuto. […] Parlo di cose che sono davvero universali, quindi tocco molta gente. Però ognuno le ritraduce col proprio vissuto […]. Ognuno completa l’opera d’arte con la propria vita, i propri ricordi».
E la propria vita, la biografia personale, è anche il punto di partenza dell'arte di Christian Boltanski. La sua stravagante saga famigliare è ben raccontata nel memoir scritto dal nipote Christophe qualche anno fa (Il nascondiglio, Sellerio, 2017). Christian Liberté, questo il suo nome completo, nasce a Parigi il 6 settembre 1944, pochi giorni dopo la liberazione della città. Suo padre è un medico ebreo convertito di origine ucraina che durante la guerra aveva finto il divorzio e l'abbandono della famiglia per rimanere segregato in un nascondiglio della casa, all'insaputa persino dei figli. Usciva solo la notte e Christian era stato concepito così. La madre era una scrittrice di origine corsa, zoppicante per colpa della poliomelite, ma volitiva ed energica. I due fratelli più grandi sarebbero diventati degli studiosi: Jean-Elie un linguista, Luc un sociologo di fama internazionale. Christian invece si aggrappa ai lampioni per non farsi trascinare a scuola e rimane chiuso in casa fino a diciott'anni, quando comincia ad occuparsi della minuscola galleria di arte yiddish aperta dalla madre. Aveva cominciato a dipingere a 13 anni e il padre gli aveva pure procurato un incontro con un illustre compagno di liceo, André Breton, che gli aveva consigliato di lasciar perdere perché era un bravo ragazzo e «gli artisti sono tutti cattivi». Christian invece persevera e trova la sua vena nella costruzione di oggetti bizzarri, pupazzi e feticci, e nell'assemblaggio di cianfrusaglie e foto amatoriali, reinventate come ricordi di un'infanzia immaginaria. «Ogni volta distruggeva ciò che aveva fatto e ricominciava», racconta il nipote. «Gli piaceva l'idea del fallimento, della fragilità dell'esistenza, dell'impossibilità di salvare ciò che è stato».
Alla sua prima mostra, inaugurata proprio nel maggio 1968, presenta un film dal titolo assai poco sessantottino: La vita impossibile di CB, un corto in cui recita egli stesso e nel quale, come nei successivi, inventa una sua mitologia che mescola tragicità e derisione, clownerie e orrore, in un universo espressionista ispirato al teatro di Kantor. «Il lavoro artistico è sempre legato a un’ossessione, in tutti i casi a un punto di partenza, un avvenimento che si racconta in tutti i modi possibili. Per me è quasi sempre legato all’infanzia», si legge nell'Abbecedario di C.B.. «Durante l’infanzia si accumula un gran numero di immagini e per tutta la vita si procede a riconoscere quelle».
Anche se nella sua opera non ne parla mai direttamente, nella sua infanzia ci sono i traumi dei racconti della Shoah, gli orrori dei sopravvissuti, i vicini che denunciano i conoscenti mandandoli alla morte, la banalità del male annidato nel bene, la precarietà dell'esistenza sospesa sul filo dell'annientamento. «Io so che il lavoro artistico è limitato, e consiste nel parlare di qualcosa che ci tocca realmente. L’artista è un ossessivo, che fa fatica a modificare se stesso – la sua esperienza, che racconterà per tutta la vita, è allo stesso tempo personale e comune a tutti».
Nel 1969 la sua ossessione si concentra sul tema del tempo e dell'entropia inarrestabile della memoria nel vissuto individuale e collettivo, nella vita quotidiana di persone comuni, dove ogni evento, ogni oggetto è unico e prezioso benché anonimo. Le sue opere diventano collezioni di oggetti trovati, appartenuti a persone defunte, abiti consunti, immagini fotografiche di sconosciuti, messe in scena con scatole di latta, archivi sbilenchi, lampadine fioche. Anche quando i titoli hanno riferimenti autobiografici, le foto, spesso ingrandite e sfocate, sono di estranei e fanno riferimento a momenti di vita generici, a spazi esistenziali in cui chiunque può trovare un riflesso della propria storia personale.
L'opera di Boltanski gira attorno agli enigmi del tempo e della memoria, però non ambisce affatto a risolverli. Piuttosto insiste a mettere in scena, in modi sempre diversi e affascinanti, le loro domande senza risposta. «In linea di principio ogni opera che realizzo è una domanda, alla quale non ho risposta, talvolta è una domanda che conduce a un’altra domanda. Il ruolo dell’artista come lo concepisco io è quello di interrogare, non con un testo ma attraverso le immagini, che pongono la domanda a coloro che le guardano. Ogni opera è perciò aperta perché non conosco la risposta».
Pochi anni dopo il suo esordio, grazie all'incontro fortuito con l'architetto Hashim Sarkis, il suo lavoro viene scoperto da una galleria importante, quella di Sonnabend e Harald Szeemann lo invita a Documenta 5, dove espone anche Les habits de François C. (1971), un lavoro realizzato con abiti trovati e incorniciati come opere preziose. Gli abiti usati diventeranno il medium ricorrente di molte installazioni degli anni ottanta e novanta, che culmineranno con l'opera imponente creata nel 2010 per il Grand Palais di Parigi e ripresa poi a New York, a Tokyo e all'Hangar Bicocca di Milano: un enorme cumulo di indumenti dismessi, con un braccio meccanico che si cala dall'alto, ne afferra casualmente un mucchio e lo lascia cadere più in là. Il titolo, Personnes, oscilla ambiguamente tra l'anonimato delle spoglie di chi non c'è più e la vitalità colorata dei vestiti usati che portano ancora tracce dei corpi unici che li hanno indossati.
«Per me i vestiti usati, le registrazioni dei battiti cardiaci, le immagini fotografiche sono tracce di identità perdute, oggetti di cui il soggetto è scomparso. Tutti possono condividere l’esperienza di trovare le scarpe di un caro estinto e vedere l’impronta nella calzatura, la sua presenza in assenza. Quello che sto cercando di fare nei miei lavori più recenti è creare una sorta di leggenda, sono convinto che un racconto, un mito, sia più potente di un’opera».
Un'altra installazione imponente e suggestiva è quella presentata alla Biennale di Venezia del 2011. Lo spettatore si trova immerso in una selva di impalcature meccaniche in mezzo alle quali si srotola velocissima, come in un'enorme rotativa che stampa giornali, una sequenza di centinaia di foto in bianco e nero, tutti volti di neonati; ogni tanto la rotativa si ferma e seleziona un fotogramma a caso, poi riparte. In una sala accanto, su un grande display, scorrono le cifre dei nati e dei morti nel mondo in tempo reale; nell'altra sala, dei videoproiettori modificano continuamente volti composti da puzzle di parti diverse; premendo un pulsante si blocca su un identikit casuale. Titolo: Chance, cioè caso; o fortuna.
In Italia l'opera più importante è l'installazione permamente per la strage di Ustica nel museo bolognese della Memoria, dove l'artista ha ricordato le vittime con 81 luci che si accendono e si spengono al ritmo di un respiro, 81 specchi neri su cui si riflettono i visitatori e dai quali provengono frasi sussurrate. «Volevo esprimere un sentimento di tristezza per qualche cosa che si ferma bruscamente», ha raccontato l'artista in questa intervista. «Per ogni persona, mi sono chiesto cosa gli stesse passando per la testa in quel momento; e, com’è naturale che sia, sono parole di vita, non parole di morte. Quando sono morti erano pieni di vita».
Boltanski è stato un artista molto prolifico, come dimostra anche la grande retrospettiva Faire son temps, che il Centre Pompidou gli ha dedicato nel 2020 e raccontata in questo pezzo. A uno sguardo d'assieme, l'impressione prevalente è che la sua sia un'arte dominata da un senso di tragedia sempre incombente sulla quotidianità: una serie di variazioni sul tema della vanitas, che avvolgono lo spettatore in un'aura suggestiva ma funerea, spesso desolata come un archivio abbandonato in un obitorio vuoto illuminato da solitarie lampadine. Ma la sua empatia verso la nostra comune fragilità e il senso profondo di pietas possono assumere anche aspetti intensamente elegiaci e luminosi, soprattutto nelle ultime grandi installazioni all'aperto.
Nel 2014 ha piantato centinaia di esili steli metallici nel deserto di Atacama, in Cile. A ogni stelo è appesa una campanella giapponese da cui pende una striscia di plastica trasparente che si agita al vento. «Si crea così una musica che sembra venire dal cielo, qualcosa di celestiale. Il deserto di Atacama è il posto migliore per vedere le stelle, ogni campanello rappresenta una stella, e lì ho riprodotto la sky map della notte in cui sono nato. Allo stesso tempo è una sorta di cimitero delle anime». Animìtas, “piccole anime”, s'intitola infatti questa costellazione di campanelle che tintinnano al vento nel deserto in cui Pinochet ha fatto sparire molti oppositori. Un'altra versione di Animìtas si trova in Giappone, dove la tradizione ha tramandato l'uso delle campanelle votive a cui sono legate le preghiere da far risuonare al vento; una terza spunta dalle nevi del Canada: «Ho sempre immaginato il dopo la morte come un luogo calmo e tutto bianco».
Un'altra opera piena di vita è quella installata in riva al mare, nella sperduta Patagonia, e intitolata Misterios. Sono tre grandi oggetti metallici neri sospesi da terra su dei pali, come enormi banderuole: assomigliano a code di missili o di pesci stilizzati. In realtà sono trombe giganti, dentro cui il vento soffia facendole cantare come balene. Quelle balene che, secondo le leggende degli indios, sono gli unici animali «che hanno vissuto dall'origine dell'universo», dice Boltanski. E non importa se quasi nessuno vedrà le sue trombe nere, «perché oggi contano più le leggende che le opere stesse. Bisogna creare leggende»,
Anche le misteriose trombe delle balene, come le campanelle di Animitas sono destinate a corrodersi, sgretolarsi e diventare relitti abbandonati. Ma le leggende resteranno più a lungo.
Come l'arte di Christian Boltanski, che ci ha dimostrato quanta forza e poesia ci sia anche nei nostri fallimenti. Nell'inutile, ma bellissima resistenza all'entropia del tempo.