Fedeli a se stessi / Pauline Klein, La figurante

6 Maggio 2021

Robert Walser non cercava né la fama né la gloria. No, lui voleva essere dimenticato. Tanto da confessare al fedele amico Carl Seelig, che non smise di andarlo a trovare nei manicomi di Waldau e Herisau fino alla morte nel 1956: “Sono una nullità”. Del resto, molti anni prima, lo scrittore svizzero di Biel aveva affidato lo stesso concetto alla voce del suo Jacob von Gunten. Il protagonista del romanzo omonimo pubblicato nel 1909: “Una cosa so di certo: nella mia vita futura sarò un magnifico zero, rotondo come una palla”.

     

Tutti e due, Walser e il suo alter ego Von Gunten, erano prigionieri di quello che lo scrittore catalano Enrique Vila Matas ha chiamato “il complesso di Bartleby”. Una sorta di estetica dell’ostinato rifiuto delle occasioni che la vita propone. Il medesimo lasciarsi dominare dalla volontà di farsi da parte che ha reso paradigmatico il personaggio raccontato da Herman Melville in “Bartleby the scrivener: a story of Wall Street”, pubblicato in due puntate e in forma anonima nel 1853 dalla rivista “Putnam’s Magazine”. Quel cocciuto scrivano che insisterà a respingere ogni nuova richiesta del titolare dello studio legale dove lavora con il laconico: “I would prefer not to”.

     

Ma la libertà che deriva dal restare sempre defilati, nascosti, indecifrabili, ha fatto crescere altri Bartleby. Ognuno diverso dall’altro. Eppure tutti convinti che vivere può risolversi nel collezionare interlocutorie note a piè di pagina. Basterebbe ricordare la protagonista del monologo Anne-Marie la Beltà, della drammaturga francese Yasmina Reza, tradotto quest’anno da Donatella Punturo per Adelphi. Dove un’attrice mediocre brilla di luce riflessa acquattandosi all’ombra di una collega più fortunata di lei. O ancora, si potrebbe citare la giovane protagonista di Il mio anno di riposo e di oblio della scrittrice americana Ottessa Moshfegh, tradotto da Gioia Guerzoni per Feltrinelli nel 2019, che decide di sottrarsi al ritmo implacabile del mondo ibernandosi in una chimica atarassia creata da pesanti dosi di benzodiazepine.

    

E se i social network regalano ogni giorno visibilità a illustri Signor Nessuno, che durano molto più a lungo dei 15 minuti di celebrità profetizzati da Andy Warhol negli anni ‘70, c’è chi sogna di schivare la realtà. Perché preferisce non urlare il proprio stare al mondo, ma sussurrarlo. Come Camille Tazieff, giovane protagonista del romanzo della scrittrice francese Pauline Klein, La figurante, tradotto per la casa editrice Carbonio (pagg. 140) da Lisa Ginzburg, che è entrata nella dozzina del Premio Strega 2021 con il suo nuovo libro Cara pace (Ponte alle Grazie).

     

Camille decide presto che la sua impronta sul mondo “sarebbe stata l’assenza di tracce. Meno ci si preoccupava del mio destino, meglio io stavo”. Sembra conoscere bene la lezione dell’Ingegnere Carlo Emilio Gadda, quando scriveva in La cognizione del dolore: “L’io, io!... Il più lurido tra tutti i pronomi!... I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero. Quando il pensiero ha i pidocchi, si gratta, come tutti quelli che hanno i pidocchi... e nelle unghie, allora... ci ritrova i pronomi: i pronomi di persona”.

Non è meno intelligente degli altri, Camille. Non le manca il fascino e neppure una certa intraprendenza. Eppure, reduce da un’adolescenza dissestata, capisce che c’è più gusto a percorrere i giorni della vita senza doversi esporre. Per questo decide di fare del proprio tempo una lavagna immacolata. Su cui scriverà, di volta in volta, storie laterali. 

     

Tanto per cominciare, trova lavoro in una galleria d’arte di New York: grandi pretese, poca sostanza. Sottopagata e delusa dal microcosmo di personaggi che le ruota attorno, mentre a casa combatte con il telefono e il forno che non funzionano, lentamente si sfila dai ritmi frenetici dell’essere cittadina di una megalopoli. Approfittando dei frequenti viaggi di lavoro del proprietario, il danese Lars Jensen, si concede attimi di annullamento dell’io: “Ogni volta guadagnavo ore di pace in più, ore durante le quali potevo unire due grandi poltrone beige del suo ufficio che messe una di fronte all’altra formavano un lettino ideale per fare la siesta”.

     

Né il mondo degli artisti di New York, né quello parigino della galleria Extra Muros dove va a lavorare in seguito, impediscono a Camille di stare chiusa nel suo “cantuccio a inventare le definizioni della mia vita”. Quando arriva il momento di licenziarsi, non ha bisogno di risvegliarsi da sogni inquieti trasformata in uno scarafaggio, come Gregor Samsa nella “Metamorfosi” di Franz Kafka. Semplicemente, si finge malata. E la sua recita diventa così convincente da persuadere lei stessa ad accusare tutti i sintomi di quell’immaginario mal stare. Perché è “intorno ai venticinque anni che si prende coscienza di essere la marionetta di se stessi”.

     

Pauline Klein non ha mai fatto mistero di amare Franz Kafka. La “Metamorfosi” dello scrittore praghese, in particolare, le ha insegnato come si possa fare gli stessi sogni di un essere inquietante standosene seduta davanti a un computer. E dal momento che lei non crede nell’identità (“Ho imparato, durante i miei studi di fenomenologia, che ogni identità è stata influenzata da una soggettività infinita”) trasforma la sua Camille in un Gregor Samsa della quotidianità. Forse meno sconvolgente da immaginare, ma di certo capace di ispirare lo stesso sentimento descritto da Sigmund Freud come “Das Unheimliche”: il perturbante.

       

 

Evidente che gli studi di Filosofia fatti alla Sorbonne, poi quelli di Estetica alla Nanterre University e il periodo passato a frequentare la Saint Martin’s School of Art di Londra (“Sono più ispirata da filosofi come Merleau Ponty o Husserl che dalla letteratura”), hanno portato Pauline Klein, come la sua Figurante, a convincersi che l’identità di una persona ha ben poco in comune con il personaggio sociale che si costringe a interpretare. Perché si possono indossare molte maschere, ma forniranno pur sempre informazioni ininfluenti sul volto che coprono. Fino a quando non si smette, diceva Friedrich Nietzsche, di “svolazzare intorno alla fiamma della vanità”.

        

“Da ragazzina, per poter esistere dovevo nascondermi”, confessa Camille. Ma fino a quando ci si può illudere di sfuggire al perverso gioco delle parti? È da lì, dal senso di spaesamento e inadeguatezza, che dovrà partire la Figurante per provare a ritrovare se stessa. Prima si iscriverà a uno SmartSex, sito che fornisce servizi erotici a pagamento. Dopo un po’, disgustata dalla miseria degli uomini incontrati in linea, deciderà di entrare nella chat “per brave ragazze” Auféminin.com. Lì, però, sceglierà di fingersi un maschio voglioso e sporcaccione. Il parente stretto dei disgustosi individui che le sbavavano addosso al telefono.

      

Affascinata dal rapporto che c’è tra la corretta, buona postura sociale e il caos della sessualità nascosto in ogni persona rispettabile, Pauline Klein non può fare a meno di restare in equilibrio tra il richiamo sfacciato del mondo della pornografia e l’ammissione che anche dove la trasgressione sembra sincera scattano meccanismi di mercificazione del desiderio. Lo aveva spiegato bene Pier Paolo Pasolini nella sua onesta e amara “Abiura dalla Trilogia della vita”, firmata il 15 giugno del 1975 dopo aver girato i film Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte. Scriveva il poeta e regista nato a Casarsa, in Friuli: “Tutto si è rovesciato. Tutti si sono adattati o attraverso il non voler accorgersi di niente o attraverso la più inerte sdrammatizzazione”. Perché perfino l’erotismo, il coito, gli organi genitali mostrati sullo schermo hanno perso la loro carica eversiva. Sono diventati strumenti di divertimento elargiti a piene mani dal nuovo potere consumistico. In un presente che si è arreso al conformismo.

       

Esiste, allora, un sistema per demistificare la mistificazione dell’apparire? Certo, si chiama arte, letteratura. Osservando la realtà, e costringendola a reinventarsi secondo uno schema narrativo, si riesce a mettere a fuoco con maggiore lucidità le tecniche della finzione identitaria. Si sbugiarda l’intero campionario di menzogne raccontate nell’illusione di costruirsi una vita perfetta. Così, l’analisi smaliziata dello scrittore finirà per strappare la maschera a quel maledetto incubo borghese che è il dichiararsi produttivi, realizzati, riconosciuti. In una parola: felici.

      

“Tutte queste creazioni borghesi – ha spiegato Pauline Klein, insignita nel 2010 del Premio Murat del Group de Recherche sur l'Estreme contemporain dell'Università di Bari per il suo romanzo Alice Kahn, ancora inedito in Italia – sono sintomi di altrettante bugie. E l’arte è una metafora molto buona di questa impostura. Mi è sempre piaciuto usarla nei miei libri: simboleggia la differenza tra ciò che si vede e ciò che c'è dietro”. Come non ripensare, allora, alle parole di Theodor Adorno, il filosofo e musicologo della Scuola di Francoforte, quando vedeva “l’arte come magia liberata dalla menzogna di essere verità”?

       

La Figurante Camille cercherà nella letteratura la sua dimensione. Ben sapendo che “la parte autobiografica della mia vita era una domanda alla quale già adesso faticavo a rispondere”. E che non si può ingannare se stessi scrivendo. Perché il romanziere è il più bravo a destreggiarsi in un mondo dove tutto è finzione. Dal momento che lui stesso illude i lettori di raccontare la propria vita. Ben sapendo che metterà sulla carta soltanto quello che gli fa comodo. E glisserà sul resto.                 

       

Se volessimo cercare ancora più lontano nel tempo, per trovare i primi sintomi del profondo disagio esistenziale che accompagna la Figurante, dovremmo chiamare in campo Jean Floressas Des Esseintes. Quel decadente, aristocratico personaggio che Joris Karl Huysmans raccontò in À rebours nel 1884. Perché il suo rifiuto di una società in cui imperava “la tirannia del commercio delle idee venali, dagli istinti scaltri e vanitosi”, in fondo, era la constatazione della perdita di se stessi in un tempo governato dalla mistificazione e dal profitto.

      

Des Esseintes trovava come antidoto alle ingannevoli verità, alla volgarità, alle false credenze, una fuga quasi mistica dalla realtà. Si costringeva a sussurrare la bellezza. Mentre la Camille di Pauline Klein conclude il suo viaggio alla ricerca di un senso, del tutto personale, con “il sentimento di essere nient’altro che la mia propria ricerca”. Come uno specchio che si specchia nella complicata arte di rimanere fedeli a se stessi.

    

Lo stile immediato, la costruzione linguistica stratificata, il parlare di problemi immanenti senza mai farsi tentare dal consolatorio rifugio del trascendente (non era profezia dei critici menagramo che restassero a Huysmans due sole vie per salvarsi, dopo la pubblicazione di À rebours: un colpo di pistola o i piedi della croce?), fanno di La figurante di Pauline Klein uno dei più interessanti sguardi dentro l’abisso dell’identità. Una ricerca del proprio posto nel mondo e di una seppur transitoria felicità operati per sottrazione. Perché è umano, del tutto umano, il compito di trovare un senso al proprio esistere. Altrimenti si finisce per incarnare, come diceva Georges Bataille, solo l’immagine di sé.

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