E quindi uscimmo a riveder le stelle / Lucio Fontana. Ambienti|Environments
Un viaggio nel futuro fatto dal passato: la mostra Lucio Fontana. Ambienti/Environments, inaugurata il 21 settembre presso gli spazi industriali riconvertiti del Pirelli Hangar Bicocca di Milano, è la prima esposizione di un autore storico realizzata dalla fondazione milanese. Ed è una strana macchina del tempo, un meccanismo diacronico che mette in scena le opere ambientali dell’artista argentino, concepite a partire dalla fine degli anni ‘40 ma ricostruite oggi, facendole di nuovo venire alla luce come cloni da una cellula madre. Il polo espositivo, solitamente votato al contemporaneo, ha scelto di omaggiare il più avveniristico degli autori del secolo scorso, proponendo una mostra intrinsecamente rivolta al domani e perciò in grado di inserirsi a pieno titolo in una programmazione contemporanea. Una variazione di percorso che colma un vuoto espositivo importante, presentando per la prima volta al pubblico in maniera esaustiva il lavoro meno noto di Fontana, ossia gli ambienti spaziali.
Il nucleo degli ambienti rappresenta il vertice del percorso artistico di Lucio Fontana ma, sfortunatamente, si tratta di opere quasi totalmente andate perdute, non più visibili da decenni. Grazie al lavoro filologico dei tre curatori – Vicente Todoli, Marina Pugliese e la restauratrice Barbara Ferriani – e alla preziosa collaborazione di Nanda Vigo, è stato possibile ricostruire nove ambienti spaziali e due interventi ambientali: Struttura al neon per la IX Triennale di Milano, (1951), collocata originariamente sopra lo scalone d’onore e qui riproposta nella versione originale con il sovrastante “cielino blu Giotto”, e Fonti di energia, soffitto di neon per “Italia 61”, a Torino (1961), situata a chiusura della mostra. Bisogna infatti ricordare che Fontana, per tutta la propria esistenza, ha cercato di rivoluzionare il linguaggio dell’arte inseguendo una forma che trascendesse tutto ciò che era stata fino ad allora la pratica artistica. Fondatore dello Spazialismo, Fontana teorizzò un’arte nuova in antitesi alla “forma chiusa” che considerava essere la pittura e la scultura del tempo, una forma che fosse in grado di unire colore, spazio, tempo e suono.
Allievo di quel genio che fu Adolfo Wildt – già autore sublime in grado di saldare antichità e presente attraverso un’arte del marmo prodigiosa – fu il cigno nero che incarnò la variabile imprevedibile, quella terza via del fare che muoveva dall’alpha e dall’omega della scultura, rappresentati da Medardo Rosso e Brancusi, figure chiave del passaggio tra i due secoli.
In quest’ottica, gli ambienti spaziali costituiscono il capitolo più avanguardistico e forse il più emblematico della sua ricerca. Rappresentano il tentativo dell’artista di costruire delle opere nelle quali la relazione tra arte e architettura trovi piena espressione, alla luce delle intuizioni condensate nel celebre Manifiesto Blanco del 1946. È il Dopoguerra, Fontana da tempo cerca una strada che lo porti oltre il limite della tela ed è in quella tensione, in quel passaggio reale e simbolico attraverso la superficie del dipinto che si può rinvenire la genesi dei suoi tagli e la struttura concettuale su cui verranno costruiti i suoi ambienti. La relazione tra spazio reale e immaginario si salda e il superamento della prospettiva rinascimentale si compie. Le suggestioni scientifiche, costituite dalle immagini delle prime missioni aerospaziali segnano profondamente il suo immaginario da lì e per sempre, un anelito di assoluto alimentato dall’entusiasmo nel progresso tecnologico. Sul versante formale, il Futurismo è la cornice e Boccioni il maestro di riferimento, con le sue Forme uniche nella continuità dello spazio che hanno rappresentato l’indicazione di un linguaggio plastico che si propaghi come un’onda, nello spazio e nel tempo, finalmente libero.
Eppure Fontana parla una lingua incomprensibile al mondo dell’arte a lui contemporaneo e, dopo il primo ambiente, deve attendere fino al 1960 prima di riuscire a proporre un nuovo intervento installativo. In anticipo su tutto e tutti, Arte Concettuale, Arte Povera, Land Art, Optical: solo gli architetti sembrano capire appieno la portata innovativa del suo pensiero e proprio a Milano l’artista riesce a stabilire dei rapporti proficui con alcune delle figure più significative del tempo, a partire dall’intervento nel Salone della Vittoria alla VI Triennale di Milano datata 1936, di Persico, Palanti e Nizzoli, e poi con Luciano Baldessarri, BBPR, Figini e Pollini, Marco Zanuso e altri.
Attraverso un meticoloso lavoro di ricerca, reso possibile anche dalla Fondazione Lucio Fontana che ha messo a disposizione il prezioso fondo di documenti, si sono potuti analizzare i progetti degli ambienti per poi ricostruirne fedelmente nove dei quindici originali. Sono state raccolte piantine, schizzi, foto d’archivio, pagine delle riviste d’architettura e design che, all’epoca, pubblicarono gli scatti degli interventi dell’artista. Nel caso della Galleria del Naviglio, negli anni mantenutasi invariata negli spazi, sono stati fatti sopralluoghi che hanno permesso di risalire alle dimensioni esatte dell’Ambiente spaziale con luce nera (1948-49). Una volta raccolta l’enorme mole di dati, questi sono stati elaborati e trasformati in modelli 3D. Parallelamente, sono stati meticolosamente recuperati tutti i materiali dell’epoca per la ricostruzione filologica degli ambienti, a partire dai neon – per l’occasione fabbricati utilizzando la stessa linea produttiva del tempo, ancora oggi in funzione – i colori fluorescenti, importati da Fontana dopo il suo viaggio negli Stati Uniti, quelli che usò anche per decorare il cinema Arlecchino di Milano, così come le luci di Wood e la moquette dell’ambiente Utopie (1964), per la XIII Triennale di Milano, ricostruita grazie alla consulenza di Nanda Vigo, sodale di Fontana. Senza dimenticare il tessuto rosa dell’Ambiente spaziale con neon (1967), presentato allo Stedelijk Museum di Amsterdam, a cui è stato possibile risalire grazie a un frammento che fu donato dallo stesso artista a un collezionista. Una ricerca complessivamente durata anni e che dona alla mostra un valore storico indiscutibile.
Ambienti/Environments offre un’esperienza temporale straniante allo spettatore, la possibilità di osservare il futuro (ormai presente) attraverso la lente del passato. Se la portata rivoluzionaria dell’opera fontaniana è innegabile, ed è espressa pienamente negli ambienti spaziali, le sue opere più ardite, è altrettanto vero che addentrarsi nei silenziosi spazi immaginati dall’artista comporta un senso di déjà vu destabilizzante. Noi tutti abbiamo assorbito la lezione di Fontana perché la cultura popolare l’ha inglobata: dal teatro al design, dal cinema alle architetture dei luoghi del divertimento, quella visione è penetrata nel quotidiano ed è diventata pop. Con buona pace di chi lo vorrebbe nel Parnaso degli artisti intoccabili, Fontana si è disgregato e le sue molecole sono divenute parti del bagaglio visivo collettivo. In una certa misura, quindi, il suo lavoro è profondamente contemporaneo, e il suo sguardo gettato ben oltre l’orizzonte della sua esistenza. Sebbene ancora oggi i suoi tagli siano il paradigma dello scandalo, soprattutto per chi con l’arte non ha una relazione di consuetudine, la sua idea di un’arte spaziale si è compiuta e ha forzato i confini che hanno tentato di cingerne il perimetro disciplinare.
Partendo da Ambiente spaziale a luce nera, attraverso un arco temporale di vent’anni è possibile osservare l’evoluzione delle forme, dalla matrice surrealista e informale attraverso la progressiva rarefazione dell’oggetto, fino alla sua scomparsa a favore di un puro piano percettivo, un primato della luce sulla materia. Sono luoghi talvolta severi, talvolta non privi di intrinseca giocosità, come il pavimento morbido di Ambiente spaziale (1966), proposto da un Fontana già malato di cuore per il Walker Art Center di Minneapolis e realizzato, su sua indicazione, dall’architetto Duane Thorbeck in occasione della prima grande personale negli Stati Uniti, intitolata The Spatial Concept of Art. Nella messa in discussione della percezione, tra stupore e trascendenza, gli ambienti si offrono come un percorso meditativo che si conclude nel bianco assoluto di Ambiente spaziale in Documenta 4, a Kassel (1968), opera ascetica che riassume idealmente la parabola terrena di Fontana. L’ultima stazione è uno sguardo rivolto al vuoto, un vuoto inseguito per anni, che ha accomunato le ricerche dell’artista a quelle di Yves Klein, Piero Manzoni e di Mark Rothko, ma anche a Gutai, al Gruppo Zero, i Gruppi T e N, che ne evidenzia le suggestioni captate dalle mistiche orientali e che trova un punto di non ritorno nel bianco incandescente, squarciato da un taglio totemico. Una stanza sacra, per una mistica del nulla che ci riconsegna senza sconti a noi stessi.
Passeggiando tra quelli che Vicente Todoli ha definito i “monologhi” di Fontana, viene da chiedersi se oggi l’autore fosse vivo, cosa avrebbe fatto di questa mostra. Domanda capziosa, certo, perché si fonda su un paradosso: se Fontana fosse ancora in vita il suo percorso di ricerca sarebbe continuato e oggi saremmo testimoni di una storia differente. Ma concedendosi la licenza di un’ucronia, immaginandolo oggi qui, probabilmente ci avrebbe donato qualcosa di difficilmente catalogabile, una performance o un’installazione interattiva.
Forse, avrebbe ripensato da capo i suoi ambienti, superando definitivamente i limiti imposti dai materiali e avrebbe sperimentato opere digitali fatte di pixel, ologrammi, installazioni sonore e utopie progettuali, dirigendosi verso territori ancor più immaginifici. Entrare nei suoi corridoi, fare il bagno nelle luci di Wood, ascoltare il vagolare dei pensieri che si assottigliano al cospetto dei suoi spazi è ancora un’esperienza emozionante, che mantiene intatto quello che gli anglofoni definirebbero uno specifico sense of wonder. Ma è una meraviglia che porta con sé anche un sottile velo di malinconia, per qualcosa che viene dal passato e transita qui, per un attimo fugace, destinata a proseguire la propria traiettoria di desiderio infinito nel buio del cosmo, come il brillare di una stella che giunge a noi dal passato dell’universo.
“L’opera d’arte è distrutta dal tempo. Quando, poi, nel rogo finale dell’universo, anche il tempo e lo spazio non esisteranno più, non resterà memoria dei monumenti innalzati dall’uomo, sebbene non un solo capello della sua fronte si sarà perduto.”