Jean Malaquais. La città distopica

27 Maggio 2020

Un autore è “radicale” quando ha la capacità di andare alla radice delle cose, di ricercare la sua identità, di rimanere come “rumore di fondo” per dirla con Calvino, anche quando gli eventi dominano la scena imponendo la loro produzione di senso. Jean Malaquais è uno di questi. La sua radicalità è testimoniata dalla vita vissuta che, al contrario di quella del protagonista del romanzo ora letto, La città senza cielo (Cliquot, Roma, 2019), fatica ad essere riassunta come una successione coerente di eventi. 

Si chiamava in realtà Wladimir Malacki, ebreo polacco arrivò in Francia nel 1926, imparò il francese, si dedicò ai mestieri più disparati (minatore in Provenza, lavapiatti a Dakar, lavoratore nei mattatoi di Les Halles). Deciso a partecipare alla guerra di Spagna, entrò in contatto con il Partido Obrero de Unificación Marxista, e in particolare con la Colonna internazionale Lenin composta da simpatizzanti stranieri. Durante questo periodo incontrò André Gide, con cui instaurò un rapporto non sempre lineare. Inizialmente cannoneggiò contro di lui con alcune lettere livide di rabbia e rimproveri per un’idealizzazione romantica che gli era estranea in quanto convinto antistatalista e individualista. Poi cambiò idea e tono, anche se rimase tra loro una sotterranea tensione, tra la figura di intellettuale dell’uno e quella di lavoratore di Malaquais che non si stancava di ricordare l’impossibilità di scrollarsi di dosso la "psicologia del povero". 

 

In politica assunsero posizioni comuni, soprattutto dopo che Gide tornò dall'URSS nel 1936 pubblicando quel noto, tetro resoconto, nella cui difesa si impegnò Malaquais accusando i critici di essere “patrioti professionisti”. Nel 1939 Gide, quando lesse il romanzo appena uscito I giavanesi (ora Derive Approdi, 2009), si dichiarò “notevolmente sorpreso. . .  per lo straordinario lirismo di una qualità molto rara e speciale che mi delizia, per una grandiosità epica, al contempo comica e tragica”. I giavanesi è ambientato nella Provenza degli anni trenta, quella delle vecchie miniere di piombo e argento in cui si condensa un’umanità composita di migranti di mezzo mondo. Sono tedeschi che fuggono la Germania nazista, russi in rotta con il credo rivoluzionario, spagnoli con l'odio dei falangisti, italiani già stanchi di Mussolini e poi croati, polacchi, armeni, cinesi e arabi. Sono considerati banditi dai paesi da cui scappano e miserabili per quello in cui migrano, biografie impazzite di un’Europa che si sta avvicinando al baratro.

 

Per la Francia sono “giavanesi”, una masnada arrivata da chissà dove e le baracche in cui vivono diventano l’“isola di Giava”. La comunità letteraria fu prodiga di elogi e nello stesso 1939 fu assegnato al romanzo il premio Renaudot, sconfiggendo nientemeno che La Nausea di Jean-Paul Sartre. Dopo un prolungato silenzio interrotto solo sporadicamente, nel 1953 esce Le Gaffeur, comparso in Italia con il titolo Il Venditore di fumo (1958, Martello, Milano) ed ora riproposto e riverniciato come La città senza cielo. Ma che romanzo è? Politicamente impegnato? politico? realistico? Drammatico? Voce di denuncia sociale? In realtà si tratta di un romanzo distopico e quindi onirico, in cui l’individuo con la sua identità si pone in rapporto con il mondo circostante che lo avvolge e lo stritola, schiacciandolo grazie anche a un’architettura asfissiante espressa da costruzioni anonime e grigie.

 

La narrazione si snoda con semplicità allucinatoria. Il protagonista è tale Pierre Javelin, venditore di prodotti cosmetici che vive in una città senza nome e in un tempo sospeso. Un giorno sigla alcuni documenti con una firma che non riconosce come propria e presto si rende conto che quella che aveva considerato una banale distrazione cambierà invece la sua vita. In realtà quello è il segno di un disagio ben più profondo: “sbagliai a firmare. Non me ne resi conto immediatamente; fu solo dopo… mi accorsi della mia sbadataggine (p. 33). La sera Pierre rientra a casa, ma scopre stupito che la chiave non apre la porta. Al posto dell’amata moglie Catherine compare la sagoma grottesca di due russi, Mr. Bomba e Ms. Kouka, che sostengono meravigliati di non conoscerlo e di aver sempre vissuto lì. È l’inizio della fine. Dai registri amministrativi situati in archivi inaccessibili, l'identità di Pierre Javelin viene cancellata e questi si ritrova, sballottato e spiato dal governo, ad aggirarsi per le vie della città alla ricerca di se stesso, di un senso al momento perduto. Ognuno, nel romanzo, svolge la sua parte assumendo un ruolo preciso, ingranaggi di una macchina ben oliata, comparse all’interno di una sceneggiatura controllata millimetricamente.

 

 

Il romanzo presenta i grandi temi della distopia, in particolare quella urbana e architettonica, e come tale assume le forme di uno spaccato angoscioso, esposto ad ansie e timori, anticipativo di una realtà a venire. Con questi lineamenti si inserisce nei paradigmi che caratterizzano questo speciale genere e su cui ci si è intrattenuti (Distopia giudiziaria, qui su doppiozero), paradigmi riassunti di recente nelle categorie di “poteri dominanti” e “poteri suadenti” (Di Minico, Il futuro in bilico, Meltemi, Milano, 2019). Tra i “poteri dominanti” un ruolo preminente è assunto dalla Città. Per Malaquais non è tanto e non solo una Citta asfissiante, alienante, lugubre, plumbea alla Blade Runner o come condominiale animata da microgruppi autoisolati e generatrice di violenza come in Ballard. Il pensiero corre invece ad Asimov e ai suoi Abissi di acciaio (Mondadori, 1986) in cui l’architettura ossuta ed opprimente, la città perimetrica e squadrata non consente smarrimento, ma induce all’oppressione perché fagocita, toglie il respiro, mina l’identità, opprime come la Metropolis disegnata nel film di Fritz Lang. E infatti la Città domina Pierre con un’architettura disumanizzante che si staglia verso il cielo sempre troppo distante per essere visto, inghiotte con una griglia di parallelepipedi sfalsati, con blocchi di cemento. “La Citta continua a schizzare in alto come una freccia e a bardarsi di parafulmini, il cielo ha preso un’altezza tale che per scorgerne un angolo bisogna stendersi schiena a terra sul marciapiede ed aspettare l’ispirazione” (35).

 

Il volto della strada ridiventava un volto di pietra. Attraversavo tra due versanti di muratura: muraglia contro muraglia scolpite da alveoli, traforate da pozzi, tunnel e passaggi, uomini e donne dentro sotto sopra di traverso” (62). In un ambiente di questo tipo, descritto come una sequenza di parallelepipedi tutti identici in un’atmosfera cubista, si dipana l’odissea di Pierre Javelin. Questi si ritrova lentamente ma inesorabilmente spogliato della propria vita, del suo ruolo nella società, della sua identità attraverso una serie di peripezie (la scomparsa della moglie, l’occupazione del proprio appartamento da parte di due personaggi surreali, l’interazione con vari altri personaggi di La città senza cielo), sempre rappresentate sotto una luce onirica venata di allegoria. Il romanzo ha una chiara fisionomia anticipativa: orizzonte popolato da palazzoni altissimi, con computer e macchine ovunque, con la consapevolezza di ciascuno di essere il dominatore-dominato, dove l’aria intrisa di plastica gira perennemente nelle bocche dei condizionatori, dove ovunque si diffondono opprimenti odori maleodoranti e luci fatiscenti, dove il verde è un semplice segno cromatico e non uno spazio urbano.

 

Altro potere dominante è la burocrazia che si esprime come una presenza totalitaria, e di cui la Città è un segmento. A questo proposito il richiamo ad Orwell di 1984 è tanto chiaro quanto inevitabile. Questi e Malaquais hanno una vita parallela e contemporanea, (nato il primo nel 1903, il secondo nel 1908, entrambi attivi tra il 30 ed il 50) e con intersezioni continue di esistenza e di stili, come è stato ricordato di recente (J.Rodden, Becoming G.Orwell, Princeton Press, 2020). Nella società totalitaria del futuro si chiude la morsa della burocrazia e Pierre viene scardinato dalla sua specificità e cancellato socialmente. Prova a destreggiarsi ma finisce inghiottito senza scampo, iniziando a sprofondare nella sofferenza, nel contempo riflettendo su questi assurdi spazi urbani da cui non è possibile vedere nemmeno il cielo. 

Nel contempo però il romanzo sviluppa una variabile imprevista. Si sfalda l’ordinata sequenza dei passaggi della vita del protagonista, che si impegna a svelare l’illusione secondo cui l’esistenza sarebbe la successione coerente e leggibile di eventi. Lo fa partendo da quella nominazione assegnata alla nascita e per questo immutabile, primo elemento nel disegnare la traiettoria dell’uomo vivente: il nome proprio. Reagisce e non subisce, resiste e non si lascia travolgere, “la mia libertà, nella sua forma di rifiuto, durerà ciò che la Città durerà: è così che è provvisorio”.

 

Ai poteri “dominanti” si affiancano quelli “suadenti”, e cioè il controllo, la persuasione, la propaganda. L’ossuta schematicità urbana fa da contraltare a una censura governativa dettagliata e pervasiva, una sorta di Grande Fratello tentacolare e multiforme che trova il proprio nutrimento nella totale assenza di libertà, nella limitazione del pensiero e della cultura (Pierre scrive poesie, forma d'arte malvista), nel conformismo imperante, nell'assuefazione e nella condanna dei sentimenti. Impossibile persino trovare un hotel in una città in cui tutti dovrebbero avere la propria casa, disporre di una carta che non può essere ottenuta senza un’altra carta consegnata sotto la copertina di un’altra carta ancora. Gli specchi che sostituiscono i vetri delle finestre a triplo spessore spingono al culmine la tragedia burocratica. Da un ufficio all'altro compare l’immagine vana del riflesso e le parole perdono significato ripetendosi come una girandola. È inimmaginabile per il protagonista fare un discorso senza essere spiato, i telefoni invadono ogni stanza, i vicini osservano attraverso il binocolo, la città non è mai silenziosa, nulla può essere segreto, nemmeno il silenzio. Tutto è sospetto, soprattutto la poesia perché della scrittura la Città si appropria. 

 

In questo quadro i domini e i controlli portano allo schiacciamento dell'individualità, alla perdita dell’identità. E il romanzo si rivela per un’ulteriore peculiarità. Colpevole di aver violato le regole, Pierre come già detto non si lascia manipolare. Non smette di denunciare la “poltiglia” servita dai mass media, segnalare che ogni cittadino è una “pedina nel gioco anonimo di uno sforzo collettivo”. Non compare alcun capo supremo, alcun leader politico o governo: il corpo della Città è costituito da migliaia di piccoli corpi che le appartengono, delicatamente conservati nell’uniformità delle loro tristi scatolette. L'errore è stato rifiutare di essere solo "tollerato". 

Certamente questo testo è un saggio sul rapportocon la nostra storia”, ed è anche l’emersione rivelatrice dell’essere il soggetto elemento centrale, luogo di incontro e scontro di potere. Il romanzo è la narrazione del come si produce l’identità, del come si sviluppa il discorso fluttuante e non lineare sulla soggettività, come ricorda Bourdieu in L’illusione biografica. Nel contempo Pierre Javelin rifiuta di farsi riconoscere, si imbatte in un desiderio recondito e si incastra nel processo burocratico che organizza il mondo, lavorativo e quindi sociale. Naturalmente è una briciola troppo piccola nel meccanismo per generare danni, e di conseguenza viene travolto dalla macchina del sistema che mette in scena il tentativo di riassorbirlo e di punirlo. 

 

La città senza cielo invita a tutelare l’individualismo, la ricerca costante della diversità e dell'emancipazione. La chiave della felicità non la si può trovare nella rassegnata tolleranza, ma nell'integrazione delle diversità, nella consapevolezza che solo dall'amalgama delle differenze può scaturire la sincera positività. La ribellione consiste nel non accettare quello che viene silenziosamente imposto dall'alto, nel non piegarsi con cieca rassegnazione, ma nel confrontarsi, nell'avere uno sguardo curioso e rispettoso verso tutto ciò che è "altro" da noi. Il testo originale enfatizzava il ruolo del protagonista come gaffeur, pasticcione, imbranato. Forse è tale chi sbaglia a scrivere il proprio nome in calce a un documento importante, ma questo “idiota” è cacciato lontano dagli immensi palazzi della Città, è inghiottito in un apparato “ideologico” dello Stato, si sarebbe detto molti decenni orsono riprendendo saggi francesi, nel quale si colloca come soggetto definito, con una storia personale che può essere identificata e percorsa, quindi premiata o punita. 

Non a caso per Gide l’autore è un “Céline di sinistra”, non a caso Geneviève Nakach titola il saggio su di lui Malaquais rebelle (Cherche midi, Paris,2011).

 

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