Manifesta a Pristina: reclamare spazi pubblici
Quest’anno Manifesta si svolge a Pristina, capitale del Kosovo; una scelta significativa per una biennale itinerante interessata alle aree di confine e nata con l’idea di favorire il dialogo interculturale.
Il Kosovo ricopre infatti una posizione emblematica in Europa. Originato dalla drammatica dissoluzione della Jugoslavia con la fine dell'internazionalismo socialista di Tito, proclamatosi indipendente nel 2008 con una secessione dalla Serbia, il suo equilibrio interno ed esterno è estremamente fragile.
Sul piano interno il nuovo premier riformista Albin Kurti, eletto alle elezioni legislative del 2021, fatica a individuare processi di sviluppo adeguati ad alleviare le numerose disfunzioni del paese, mentre le relazioni tra comunità albanese e serba restano tese e complesse: il ricordo degli anni in cui gli albanesi subirono violenza e vennero estromessi da ogni attività è tutt’ora estremamente vivo.
Anche sul piano della politica estera il rapporto con la Serbia è ancora tutt’altro che risolto.
E tra i membri delle Nazioni Unite ad accreditare il Kosovo come stato indipendente sono sinora solo centodue su centonovantatré stati. Anche diverse nazioni dell’Unione Europea non lo hanno ancora riconosciuto.
Questa situazione contribuisce a un senso di isolamento dei cittadini, anche a livello culturale, cosa resa più grave dal fatto che la percentuale di giovani è straordinariamente alta – metà dei 2.000.000 di cittadini del paese è sotto i venticinque anni – e che per la maggior parte di loro, come per i loro genitori, il punto di riferimento è l’Occidente.
È chiaro che per il paese rientrare nel circuito di un evento di dimensioni globali come Manifesta significa avere l’occasione di entrare in un’onda lunga di riconoscimento internazionale.
D’altra parte per Manifesta, che vede tra i princìpi base quello di mantenere le distanze dai luoghi mainstream e dai centri riconosciuti della produzione artistica – principio che peraltro nella storia della manifestazione è stato rispettato a fasi alterne – lo stato magmatico del Kosovo deve aver reso la sua candidatura a paese ospitante particolarmente interessante; a maggior ragione considerando la tendenza crescente della manifestazione a concentrare gli sforzi sull’ambiente urbano e sociale; l’edizione del 2018 a Palermo e quella del 2020 a Marsiglia lo avevano dimostrato chiaramente.
Il risultato è una mostra basata su un’attenzione per le energie, ma anche per i concreti bisogni della città di Pristina; intesa quindi come incubatore e come catalizzatore urbano di processi di risignificazione e rigenerazione territoriale.
E infatti la direzione di questa edizione è stata affidata a due diversi “mediatori creativi” – questa la definizione che per decisione della fondatrice e direttrice di Manifesta Hedwig Fijen sostituisce il termine “curatori”: Carlo Ratti, progettista urbano, con la bolognese Agenzia Carlo Ratti Associati, e Catherine Nichols, australiana di stanza a Berlino, per la parte artistica. Con la sua visione urbana Ratti ha fortemente ispirato il programma complessivo, oltre ad avere realizzato alcuni dei principali interventi urbani.
Il titolo dell’iniziativa, intraducibile, è It Matters What Worlds World Worlds: How to Tell Stories Otherwise. Le sedi sono venticinque, distribuite in tutta la città: per lo più luoghi pubblici e semi-pubblici, in alcuni casi storici. Reclamare spazi pubblici è il leitmotiv della manifestazione.
Pristina è una città ibrida, variegata, proliferante. Modi di abitare tradizionali e moderni vi convivono. Il tessuto urbano è costituito da un insieme di vestigia ottomane, zone commerciali che ricordano i bazar, edifici e impianti viari del periodo comunista e segni della guerra recente. Comprende moschee da cui si espande il richiamo dei Muezzin e un’enorme chiesa mai inaugurata, costruita in pieno centro cittadino, senza pianificazione e senza negoziare lo spazio, rimasta a testimoniare le tensioni irrisolte con i Serbi.
Soprattutto, la città è il regno dell’edilizia spontanea: della superfetazione e dell’innesto, dell’incompiuto e del diversamente compiuto. Le infrastrutture sono carenti. Numerosi spazi pubblici sono stati, o rischiano di essere sottratti all'uso comune. Pullula invece di luoghi di incontro: qui uscire in compagnia è un’usanza diffusissima; evidentemente la cultura del caffè, tipicamente ottomana, è connaturata alla storia della città.
Pure gli spazi culturali, anche informali, sono numerosi e straordinariamente vibranti; il fatto che siamo nella più giovane capitale d’Europa rende la cosa a maggior ragione palpabile.
Se, dunque, Manifesta è incentrata sulla possibilità della cultura di contribuire a una rigenerazione territoriale, diversi progetti vertono proprio su questo: per esempio una ex fabbrica di mattoni collocata in piena città, ormai fatiscente, è stata trasformata dal collettivo raumlaborberlin in un punto di riferimento per la creatività interdisciplinare e riportata così all’interno delle dinamiche cittadine dopo esserne stata per decenni esclusa. Il percorso ferroviario ormai inutilizzato che collegava l'ex fornace con tutta la Jugoslavia e oltre consentendo di trasferire ovunque i mattoni è stato in parte trasformato in Green Line, ossia un corridoio pedonale piacevolmente inverdito da alberi attualmente in fase di piantumazione, e infrastrutturato in modo che ci si possa anche sostare.
Un altro spazio sul quale si è intervenuti è l'ex Biblioteca Hivzi Sulejmani, per la quale la città stava cercando una destinazione. Trasformato in Center for Narrative Practice, ossia sede in cui testare nuove possibili modalità di storytelling all’interno di un ambiente sociale, urbano ed ecologico, l’edificio è arredato, dotato di una piccola ma selezionata scelta di libri e di un bar nel piacevole giardino alberato. Dopo i cento giorni di durata di Manifesta dovrebbe poter proseguire la propria attività, dapprima con il sostegno economico dei fondi predisposti da Manifesta stessa, poi autonomamente.
Altri spazi d’importanza storica sono stati rivisitati grazie a interventi ad hoc di artisti invitati; da vedere il Palazzo della Gioventù e degli Sports, esempio architettonico di modernismo socialista costruito nel 1977 come gigantesco centro polifunzionale grazie a uno sforzo collettivo che vide coinvolti tutti i cittadini di Pristina. Qui, nell’immensa palestra del piano terreno, andata a fuoco anni fa e mai più recuperata, è visibile l’installazione di Lee Bul: un dirigibile argenteo di diciassette metri fluttuante in alto sulle teste dei visitatori, che evoca l’Hindenburg, dirigibile Zeppelin tedesco costruito in alluminio, schiantatosi spettacolarmente nel 1937 sotto gli occhi di pubblico e cronisti, in un incidente che pose fine all’epoca dei dirigibili: un modo, da parte dell’artista, per evocare la fine di molti sogni, di cui lo stesso Palazzo della Gioventù e degli Sports è simbolo eloquente.
La biblioteca Nazionale del Kosovo, edificio di straordinaria originalità realizzato nel 1982 dall’architetto Andrija Mutnjaković integrando linguaggio modernista e motivi dell’architettura rurale, coperta di cupole e rivestita di rete metallica e progettata all’interno sin nel minimo dettaglio, ospita una serie di esercizi performativi di riposizionamento e riorientamento inframmezzati da racconti relativi alla libreria e alle storie di alcuni tra coloro che in passato l’hanno utilizzata. Ospita inoltre la RomaMoMa Library: un progetto sovranazionale che mira a sollevare la questione della cultura Rom.
A due passi dalla biblioteca, su un muro esterno dell’università, ma in posizione riservata, c’è il murales LOVE is LOVE is LOVE con due figure strette in un abbraccio, su un fondo arancione. Realizzato dalla ONG Sekhmet Institute con Emira Murati l’opera dà visibilità alla storia di due persone di identità non binarie; scelta dirompente per un paese in cui gli individui LGBTQI sono ancora discriminati. Il giorno dell’inaugurazione di Manifesta il murales era già stato vandalizzato.
Anche la questione femminile è ancora aperta nel paese. A questo fa riferimento Alicja Rogalska, che all’interno di un appartamento, crea una situazione domestica in cui tutto, dalle figure della tappezzeria alle tende realizzate con biancheria dismessa, parla di emancipazione come orizzonte a cui tendere, a partire da azioni di solidarietà fra donne. Di lunedì, quando è chiuso al pubblico, lo spazio diventa rifugio discreto per donne bisognose di consulenze legali su condizioni da sanare.
Tra le opere che più efficacemente si innestano sulla realtà del luogo c’è Brutal Times di Cevdet Erek, realizzata presso quella che fu la sede di Rilindja, giornale e casa editrice che pubblicava in albanese, serbo e croato, punto di riferimento per gli attori culturali del paese fino a quando, all’inizio degli anni Novanta, il dialogo interculturale fu messo a tacere. Più tardi, all’insegna della musica elettronica, l’edificio divenne luogo della vita notturna di Pristina. L’intervento di Erek è una spazializzazione sonora e luminosa che sintetizza la storia di Rilindja attivando una parte abbandonata dell’edificio con allarmanti fasci di luce rossa e suoni in cui si coniugano ritmi techno, rumore delle rotative e delle tastiere.
Le opere dei centotre artisti invitati sono visibili nella maggior parte delle sedi, ma un vero e proprio concentrato si trova nei nove piani del Grand Hotel Pristina, con la sua mostra organizzata in modo piuttosto classico, per temi: transizione, migrazione, acqua, capitale, amore, ecologia, speculazione. Opere preesistenti convivono con interventi specifici, come quello di Petrit Halilaj che ha riacceso un’insegna luminosa in cima all’un tempo famosissimo albergo, e ha riconfigurato poeticamente la posizione delle sue cinque stelle; o come quello di Driant Zeneli con la sua trilogia di video ambientati all’interno di tre dei maggiori esempi di architettura brutalista dei Balcani; i protagonisti sono piccoli robot in forma di animali, e su di loro è anche incentrato un workshop per bambini che si tiene a più riprese nell’albergo stesso per la durata della mostra.
La crescente attenzione al tessuto territoriale da parte di Manifesta e il suo progressivo avvicinamento a questioni di urbanismo strategico fa della manifestazione un interessante spazio pubblico di discussione e di riflessione.
D’altra parte l’insistenza sull’incidenza sociale della mostra e sul mutuo interesse dell’organizzazione e della città che la ospita, e viceversa il fatto che nella narrazione pubblica, in particolare nelle pubblicazioni realizzate per l’occasione e nell’ambito degli incontri inaugurali la parola arte sia stata raramente menzionata suscitano alcune domande.
Una riguarda gli interventi che si presentano come opportunità di ripensare l’uso di strutture o di aree preesistenti, o di rivendicarne di nuove: nel momento in cui si passa da interventi temporanei capaci di suggerire modi alternativi di vivere la città a interventi che si vogliono permanenti, occorre pensare alla loro reale sostenibilità, e in termini non solo economici. Per esempio: qual è il significato nel tempo della nuova realtà, la sua area di riferimento? Come si innesta sull’area di pertinenza, in quale orizzonte istituzionale si va a inserire? Come sarà gestito? Sarà dotato di figure di riferimento competenti, di staff, di un direttore?
L’altra questione riguarda il ruolo dell’arte nel discorso istituzionale.
L’arte è calata nella realtà, legata a scelte valoriali, capace di riflettere su socialità, geopolitica, di inserirsi nelle dinamiche territoriali, anche interagendo con discipline limitrofe, comprese quelle urbane; è dotata di agency, in grado di partecipare e di favorire coinvolgimento, di contribuire a percorsi di cambiamento ecosistemico a lungo termine facendo leva sui paradigmi fondamentali.
Ma lo fa necessariamente in modo alternativo, non lineare, combinando i piani, confondendo i confini, muovendo, spesso idiosincraticamente, tra dimensioni diverse, tenendo in conto la stratificazione, la complessità, i tempi lunghi della trasformazione profonda.
L’impressione è che rispetto alla sua capacità di incoraggiare cittadini e visitatori a cambiare prospettiva, a interrogare la propria realtà e a immaginarne una nuova, la dirigenza di Manifesta si sia mostrata, a Pristina, piuttosto timida, delegando molto all’apparente maggiore concretezza e immediatezza delle strategie urbane. Un atteggiamento curioso per una delle maggiori iniziative del mondo in termini di arte contemporanea.
Manifesta, European Nomadic Biennial
Manifesta 14 ha aperto a Pristina il 22 luglio.
Si svolge fino al 30 ottobre 2022.