Per le vie delle città / Leggere con i Piedi
Le città sono libri da leggere con i piedi, in cui ciascuno si crea la propria mappa delle stelle formata dagli indirizzi dei suoi beniamini, come a comporre delle costellazioni personali che guidano i nostri passi. Ma per fare poesia con gli indirizzi ci vuole talento e spirito di sacrificio, ci si arriva per via di levare, togliendo “il soverchio”, come diceva Michelangelo.
Uno dei primi a praticare la poesia degli indirizzi fu lo scrittore austriaco Peter Altenberg, morto di stenti nel primo dopoguerra e oggi usato come attrazione per turisti dal Cafè Central di Vienna, dove un fantoccio con le sue sembianze accoglie i clienti all’ingresso del locale. Seguendo i dettami dell’amico Adolf Loos, quello di Ornamento e delitto, Altenberg scartò così tanto che giunse a scrivere versi composti unicamente col nome e l’indirizzo delle donne amate.
James Joyce invece preferì ispirarsi alle sue residenze per la sua opera più sperimentale. Nel terzo libro del Finnegans Wake, come puntualmente segnalato dai traduttori Fabio Pedone ed Enrico Terrinoni, Joyce gioca con i molti indirizzi che cambiò nella Dublino della sua giovinezza, oltre a uno di Zurigo, intrecciando questa odonomastica familiare ad allusioni storiche ed enigmistiche (come la data 1132) e a qualche divertente calembour (tipo "Opened by Miss Take").
Ma la poesia degli indirizzi non è appannaggio esclusivo della letteratura. Per Saul Steinberg la vita era essenzialmente una questione di collocazioni e prospettive, tanto da sostituire la parola “autobiografia” con “autogeografia, come nella celebre copertina del New Yorker che mostrava il mondo visto dalla Nona Avenue. Steinberg non offrì un’indicazione precisa del crocevia di Manhattan in cui aveva fissato il suo punto di vista, cioè con quale strada s’intersecava la Nona avenue. Alcuni ipotizzarono che si trattasse dell’indirizzo di casa sua, come se quel disegno testimoniasse il suo amore per un angolo di mondo al quale sentiva di appartenere, dove lui, ebreo errante nato in Romania, trasferitosi in Italia e approdato negli States, aveva finalmente trovato pace e messo radici. C’era insomma il desiderio di dare un riscontro biografico a quel recapito, la convinzione che, come sosteneva Walter Benjamin, “si scrive sempre per conoscere la propria geografia”, forse perché se la si guarda con attenzione, la realtà poi ti riguarda, come nella storia dell’incrocio di Brooklyn fotografato ossessivamente da Harvey Keitel in Smoke, il film basato su un racconto di Paul Auster, il cui indirizzo di finzione corrisponde al domicilio effettivo di Paul Auster. Ma la verità è che quella fortunata illustrazione di Steinberg più che un omaggio alla sua tana era soprattutto un paesaggio psichico, una sorta di mindscape dei cittadini di Manhattan e insieme una parodia del provincialismo e dell’arroganza della loro way of life, del loro porsi sempre al centro del mondo.
Ma se si eleva la flânerie a pratica estetica, coniugando il gusto per l’esplorazione urbana all’ascolto delle infinite suggestioni che generano i nomi delle strade, si possono scoprire le affinità segrete tra i luoghi e le persone. In questo caso il senso di appartenenza deve confrontarsi con l'ampio repertorio di segni disseminato nella città, perché i luoghi non parlano da soli, ma grazie al filtro della sensibilità e della cultura di chi li legge. Lo dimostra Marco Follini, l’ex vicepresidente del Consiglio, che col suo bel libro Via Savoia. Il labirinto di Aldo Moro (edito di recente da La Nave di Teseo) ripercorre la parabola umana e politica di Aldo Moro a partire dall’indirizzo dell’ufficio in cui si rintanava come in un “guscio”, scelto volutamente lontano dai palazzi del potere “per poter riflettere in silenzio filtrando uomini e cose”. L’originale punto di vista dell’autore, che nulla concede a tentazioni nostalgiche perché il regno dei padri non appartiene alla storia ma al mito, conferma l’idea di Giorgio Agamben secondo il quale la cartografia è il modo migliore per studiare una vita, e al contempo ci rammenta che perfino il tragico epilogo del leader democristiano si consumò ad un indirizzo simbolico, la famigerata via Caetani, in cui il 9 maggio 1978 fu rinvenuto il suo corpo, proprio a metà strada fra Piazza del Gesù e via delle Botteghe oscure, le sedi della DC e del Partito Comunista di allora.
La poesia degli indirizzi ha pure a che fare con la teoria di Gerard Genette sulle soglie, il cosiddetto paratesto, come se l’indirizzo di casa di un autore fosse il punto ideale per accedere alla sua opera, al pari di una bandella, una prefazione o un esergo, dato che lì fu concepita e prese forma. Ecco perché è anche questione di accostamenti, di far combaciare lo spirito di un autore col genius loci. Ma per farlo è necessario muoversi, perché se leggere può essere un modo elegante per tenersi lontano dagli altri, leggere con i piedi è un fatto eminentemente sociale.
A volte gli accostamenti sono palesi, basta conoscere anche sommariamente l’autore e ti si rivela subito il nesso, come per le ultime abitazioni di Georges Perec e Giorgio Manganelli. Il primo, il più tassonomista degli scrittori del Novecento, morì a Parigi a soli 46 anni in rue Linné; mentre il malinconico tapiro, autore di un Pinocchio parallelo, finì i suoi giorni nel quartiere Prati di Roma con una filastrocca degna di Collodi: via Chinotto 8 interno 8.
Altre volte serve conoscere la storia della strada, dettagli all’apparenza irrilevanti, ma che in realtà dicono molto di chi ci abitava. Penso all’ultimo indirizzo parigino di Emil Cioran, la mansardina lillipuziana di rue de l’Odéon, a pochi passi dai Giardini del Lussemburgo, dove il rumeno amava passeggiare da solo all’alba, al punto che per continuare a farlo senza essere importunato declinò un ambitissimo invito di Bernard Pivot a partecipare al programma televisivo Apostrophe. In questo caso l’illuminazione giunse sfogliando una comunissima guida del Touring Club, in cui si faceva notare che rue de l’Odéon fu la prima via di Parigi a dotarsi di marciapiedi.
Un indirizzo, al contempo reale e fittizio, che appartiene alla mappa delle stelle di tanti lettori si trova a Londra, in una strada attraversata continuamente dalle carrozze sotto una pioggia incessante. Al 221b di Baker street, infatti, il tempo si è fermato. Dentro, davanti al camino perennemente acceso, Sherlock Holmes e il Dottor Watson discutono l’ennesimo caso intricato, mentre fuori Moriarty progetta un’altra diavoleria e il calendario è fermo al 1895.
Ma l’indirizzo più poetico di questa cartografia non fa riferimento a qualche personaggio illustre e non compare sulle mappe, sebbene vi risieda tanta gente. Google Maps, infatti, colloca via Modesta Valenti a metà di via Marsala a Roma, come se fosse un suo slargo, eppure nessun cartello la indica. Chi è di Roma però sa che quello non è un punto qualsiasi, ma un’entrata della Stazione Termini. Modesta Valenti era un’anziana senzatetto che bazzicava la stazione, e il suo stesso nome sembra indicare qualcosa di irrilevante, di poco conto. Di lei si sa solo che era nata a Trieste nel 1912 e che campava di elemosina, chiesta sempre con discrezione, e che fu ricoverata in un ospedale psichiatrico. Morì la mattina del 31 gennaio 1983, dopo aver trascorso l’ennesima notte all’addiaccio, perché si sentì male e nessuna ambulanza volle soccorrerla a causa dei pidocchi. Con un intelligente e nobile atto riparatorio, il Comune di Roma ha reso omaggio alla sua memoria intitolandole una strada fittizia nei pressi della stazione dove far risiedere i clochard della capitale, per consentir loro di usufruire di servizi come l’assistenza sociale e l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale, così che oggi Modesta Valenti è diventata la madrina degli ultimi e insieme il recapito dei senza fissa dimora.