Television

16 Novembre 2013

Il Festival Asiatica di Roma dedicato al cinema asiatico più recente è stato chiuso dal bellissimo film Television di Mostofa Sarwar  Farooki, un giovane trentenne del Bangladesh. Il film, recensito entusiasticamente su Variety e su Hollywood Reporter è un modo intelligente e sottile per affrontare un argomento che i migliori antropologi fanno fatica a dipanare. Farooki ha fondato un movimento di registi d’avanguardia, Chabial, che trattano con realismo ed ironia le situazioni urbane e semiurbane del Bangladesh.

 

In questo caso siamo in una comunità prevalentemente islamica in una isoletta sul delta immenso del Gange. L’isolamento, il controllo da parte degli anziani fa sì che il mondo circostante filtri con lentezza. L’imam, un personaggio bonario e severo al tempo stesso, ha proibito i cellulari e la televisione, perché dice che i primi corrompono i giovani e la seconda è proprio “haram” perché contraddice il divieto del Corano di raffigurare esseri viventi e in più spinge verso l’immaginazione che è la prima causa di abbandono della realtà e di origine di tutti i mali.

 

 

Ovviamente, come in tutti i paesi che somigliano al Bangladesh i giovani sono in numero sempre crescente ed è difficile convincerli delle tesi dell’imam. Il figlio stesso dell’imam vorrebbe un cellulare e quando si innamora di una ragazza del villaggio lei gli pone come condizione che possano chiamarsi, chattare e skypare. I bambini del villaggio vanno tutti improvvisamente a ripetizione di matematica dal professore hindu che ha appena comprato un televisore. Insomma il presente o la globalizzazione – sempre che questa parola abbia ancora un senso- bussano alle porte. Farooki ci presenta la situazione senza moralismi, dando ragione sia al vecchio imam e alle sue corte vedute che ai giovani e ci mostra la realtà locale per quello che effettivamente è, un contrasto tra generazioni ed un Islam che ne è il riflesso e dentro cui si muovono le perenni inquietudini dell’umanità.

 

Si ride molto e in maniera intelligente come quando l’assistente dell’Imam fa costruire una tv “halal”, un enorme teatro di cartapesta a forma di televisione dove fa mettere in scena edificanti storie . Ma l’imam è irremovibile , perché tutto ciò che è rappresentazione è contrario al Corano. Il figlio alla fine si ribellerà a lui messo alle strette dalla fidanzata che lo ha lasciato. Ma poi si pentirà, proprio mentre il padre imam sta partendo per fare il pellegrinaggio alla Mecca che sogna da una vita. Ma la realtà irrompe con la sua forza e il vecchio si troverà bloccato a Dacca, dall’imbroglio che l’agenzia di viaggio ha inventayo per rubare i soldi di tutti i pellegrini. Avvilito, nella sua stanza di un hotel squallidissimo scoprirà che l’unico modo che gi rimane per andare alla Mecca è di farsi accendere il televisore in camera e di partecipare in questo modo ai rituali dell’ hadij e di celebrare il suo Bayram almeno con l’immaginazione attiva che le immagini “dal vivo” della Mecca gli consentono.

 

Un film dove c’è tutta la questione della modernità, del senso delle immagini, del senso della realtà, e il conflitto tra mondi, non il conflitto di civiltà, ma il conflitto perenne e sano delle generazioni.

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