India divisa / Nominare e orientarsi: Shilpa Gupta

10 Aprile 2016

Al lettore di mappe l’India si dà chiaramente. Scorri il dito su un mappamondo (esistono ancora?), su un atlante (qualcuno li consulta ancora?), o sul tuo telefono intelligente e la vedi subito: una forma triangolare quasi perfetta che emerge dall’oceano e si stacca dalla terraferma. Un po’ come l’Italia, il subcontinente indiano sembra definito chiaramente dai suoi confini naturali. I problemi semmai vengono quando si guarda la sua mappa politica. Se provate a scontornare i suoi confini dal contesto, se guardate alla sola silhouette che ne ricaverete, quella forma che sembrava chiaramente definita mostra qualche linea più tortuosa, come se la geometria che ci appariva inizialmente euclidea si sia frammentata, originando profili più complessi. Queste linee rizomatiche che si sviluppano nelle propaggini del grande triangolo/rombo indiano, che tagliano in due la regione del Bengala e girano intorno alla valle del Gange per far posto al Bangladesh, allungandosi poi verso la Birmania e la Cina in territori etnicamente ben poco indiani; questi margini (tratteggiati) che s’inerpicano a nord nelle terre ancora contese del Kashmir a maggioranza mussulmana: queste sono le linee di tensione che la politica e la religione, e non più la natura, hanno definito. 

 

Se la dominazione inglese ha introdotto una prima idea dell’India come un territorio politico unificato, là dove esisteva un mosaico di regni autonomi, l’indipendenza del 1947 dividerà l’India a maggioranza indù (Unione Indiana) dalle aree a maggioranza musulmana (Pakistan), a sua volta diviso in due parti geograficamente distanti come l’attuale Pakistan e l’odierno Bangladesh. La nascita improvvisa di questo mostro bicefalo causerà un transito di circa quindici milioni di persone verso i territori della loro nuova patria: la partizione non solo rappresenterà la più grande migrazione forzata del Novecento (durata fino al 1955), ma sarà accompagnata da una pulizia etnica pianificata con il tacito assenso dei governi, da infiniti massacri e scontri che dureranno ininterrottamente per quarantadue mesi. 

 

 

La storia dell’India indipendente è indelebilmente marcata dalla tragedia della partizione. Da questa separazione alla nascita deriva quello stato di tensione, se non di guerra permanente, che dura ancora oggi tra i due stati e lungo alcuni confini della repubblica indiana. Da qui ha origine anche la questione del Kashmir: non inclusa nel trattato d’indipendenza, la regione fu donata dal suo raj all’Unione Indiana, seppur includesse una popolazione a stragrande maggioranza musulmana. Dalla stessa divisione discende la successiva indipendenza del Bangladesh dal Pakistan (1971) cui seguirà la terza guerra indo-pakistana, provocata dall’intervento dell’India nel conflitto tra i due stati islamici allontanati alla nascita. Da questa storia recente e, ovviamente, da una lunghissima storia di invasioni musulmane dell’India settentrionale, deriva il continuo conflitto religioso, sociale e politico tra la maggioranza indù e l’ampia minoranza musulmana (circa il 15%) che abita lo stato indiano: tensione che, in alcuni casi, s’inquadra nel più ampio quadro del terrorismo islamista internazionale. Così, ad esempio, dietro agli attentati terroristici che colpirono Mumbai in dieci diversi punti causando quasi duecento vittime, il 26 novembre 2008, si sospetta ci sia stata la mano di Al-Qaeda. Molto più recentemente, quando la breve e inaspettata visita di Modi (la prima di un suo pari grado in undici anni), sembrava aver aperto la strada a un clima di nuova distensione, l’attacco alla base militare indiana di Pathankot (Punjab) da parte del gruppo terroristico del Kashmir Jaish-e-Mohammed (alleato di Al-Qaeda e ora sostenuto dall’Isis), il 3 gennaio di quest’anno, ha fatto ritornare la tensione tra i due paesi agli abituali livelli di guardia.

 

Il lavoro dell’artista indiana Shilpa Gupta (Mumbai, 1976) attraversa questo stato perenne di tensione e incertezza che pervade la vita degli abitanti del subcontinente e, per estensione, quella dei cittadini della nostra modernità paranoica. Cancelli di ferro collegati a un timer che sbattono su un muro creando crepe sempre più evidenti (Untitled, 2009); una grande nuvola nera fatta di migliaia di microfoni che sussurrano una sorta di contrappunto tra desiderio di libertà e peso delle credenze religiose (Singing Cloud, 2008-09); valigie avvolte in una copertura che dichiara There is no explosive in this (2007) e che, su richiesta dell’artista, vengono portate in giro per le strade, al lavoro, sui mezzi pubblici; un nastro adesivo, simile a quello con cui si delimita la scena di un crimine, con impressa la scritta There is no border here (2005-07), che circoscrive porzioni di spazio pubblico; diversi gruppi di persone in altrettante conformazioni che chiudono la alternativamente la bocca, gli occhi e le orecchie ad un’altra persona accanto a sé (Untitled, 2006-08), una serie di mappe, testi, immagini, oggetti, performance che alludono alla vita nei territori di confine tra India e Bangladesh (entrambi Untitled, 2013-15).

 

Le opere di Shilpa Gupta si muovono in quel terreno vischioso in cui il controllo delle libertà dell’individuo è l’altro lato della sicurezza; nel quale globalizzazione e terrorismo sembrano due gemelli di una stessa madre; dove l’erosione dell’identità personale trova la sola risposta nell’estremizzazione religiosa; in cui uno stato di guerra permanente prende le sembianze del tessuto mimetico all’ultima moda. 

 

 

Anche se lei stessa dichiara una serie di debiti verso artisti indiani delle precedenti generazioni (Prabhakar Barwe, Nalini Malani e Anita Dube, tra gli altri), nel linguaggio di Gupta non c’è traccia di alcuni caratteri evidenti dell’arte indiana come sto imparando a conoscerla. Non c’è nessun minuzioso decorativismo della mano, nessun ricorso a forme vernacolari e volutamente naïves, nessun utilizzo di tecniche più o meno desuete, nessun eccesso cromatico, magari distribuito in grandi installazioni ambientali. Al mio sguardo indirizzato da Occidente, il lavoro di Shilpa Gupta appare piuttosto famigliare, come l’espressione di certe pratiche che hanno la base nell’arte concettuale che investiga i sistemi di potere (Hans Haacke?) e quelli che ordinano e misurano i fenomeni (Boetti?), in ricerche che stimolano il valore politico della partecipazione e l’interazione dello spettatore (Antoni Muntadas?), anche attraverso la diffusione e “sparizione” dell’opera nel contesto urbano, seguendo una linea ideale che va dalle pratiche situazioniste, a quelle relazionali, passando ancora per certo concettuale più attivista (Adrian Piper?).

 

Insomma, un orizzonte di riferimento in cui la mia generazione è cresciuta nella seconda metà degli anni ’90, ma che si è tinto di colori più cupi nel post 11/9, quando si è iniziato a intravedere il lato più problematico della promessa liberatrice della globalizzazione e, all’abbaglio della “fine della storia”, si è sostituito il senso di un conflitto multicentrico, sfuggente e pervasivo. 

 

Se la sintassi della sua lingua è una sorta di esperanto globale della post-modernità, forse è a questa capacità di parlare con sufficiente universalità di una condizione odierna cui Gupta deve il fatto di essere una degli artisti indiani più conosciute internazionalmente. A livello di contenuti, come ha notato la critica indiana Nancy Adajania, molti temi affrontati da Gupta — il concetto di avatar originario della religione induista, la riflessione buddista sull’ombra, ad esempio — affondano invece nella millenaria cultura indiana e sono rivisti da Gupta con fotocellule, mouse e sensori. Insomma, se la sintassi è globale, le parole che la costituiscono derivano non solo da una lunga eredità culturale ma, come abbiamo detto, dalle contraddizioni che attraversano la società e la politica indiane. Soprattutto due delle pratiche più ambigue dell’esercizio del potere mi sembrano tornare con insistenza nel lavoro di Gupta: quelle di nominare e di orientarsi. Entrambe fanno parte di quella percezione del limite che, come lei stessa ha detto, è alla base della sua ricerca: “I am interested in perception and therefore, with how definitions get stretched or trespassed, be it gender, beliefs, or the notion of a state.” 

 

 

L’arbitrarietà che presiede all’atto di nominare è evidente in un’opera come Untitled (2001-02) nella quale un video mostra i pellegrinaggi dell’artista in alcuni luoghi sacri indiani e presenta a parete una serie di piccole tele bianche sulle quali è scritto che questo oggetto (la tela) è stato benedetto da una qualche figura spirituale. Stiamo parlando di un oggetto votivo o di un’opera d’arte? A quale fede ci riferiamo? Quella nella religione o nell’arte?

L’istallazione video Hardly bear to speak (2009) rimanda al clima di tensione che accompagnò la divisione del Pakistan dall’India e al momento drammatico di tracciare un confine in aree che facevano parte dello stesso paese, di nominare lo stesso territorio in due modi diversi, di separare famiglie, legami e consuetudini con un semplice tratto di penna.

Della porosità e incertezza di quella linea che chiamiamo confine parla anche un’opera come 100 hand-drawn maps of India (2007-08) che consiste in cento mappe dell’India disegnate a memoria da cento diverse persone di età e estrazione sociale diversa: le variazioni di uno stesso modello, di una identica immagine condivisa evidenziano la relatività della toponomastica, il conflitto tra definizione della legge e percezione personale. 

 

Queste e altre opere tra la fine degli anni ’90 e la fine del decennio successivo, stimolavano un ampio registro sensorio, ricorrevano a forme di tecnologia interattiva o di confronto diretto tra opera/artista e pubblico, per sollecitare un coinvolgimento dello spettatore in una trama partecipativa. Sia nel museo che in strada arrivavano a manifestarsi anche sotto le sembianze di una falsa immagine pubblicitaria, di un improbabile esercizio commerciale, addirittura di un inaspettato tranello. 

Se, nelle opere degli ultimi anni, questo stato di tensione non è scomparso, ha però sicuramente preso un carattere più silenzioso e una scala più ridotta, forse più intima. Le opere con cui Gupta ha partecipato all’ultima Biennale di Berlino e ha condiviso (con Rashid Rana) il padiglione (non ufficiale) di India e Pakistan all’ultima Biennale veneziana, si davano come narrazioni elusive e sintetiche di un soggetto d’indagine (le zone di confine tra India e Bangladesh), si presentavano come una serie di ipertesti nei quali lo spettatore doveva orientarsi, ma nei quali l’interazione avveniva su un piano soprattutto immaginativo e sentimentale. 

Ancora dell’atto di nominare e della difficoltà di orientarsi si parla nel recente gruppo di lavori (2013-15) che ha origine nella ricerca di Gupta sulla barriera in costruzione tra India e Pakistan e, successivamente, su quella in costruzione tra India e Bangladesh. L’istallazione all’ultima Biennale di Berlino aveva come oggetto le così dette Chitmahal, enclave indiane nel Bangladesh e viceversa, e la condizione di una popolazione che vive all’interno di un altro stato e i cui diritti sono costantemente messi in discussione, se non annullati, per la quale essere al di qua o al di là di una linea ha conseguenze decisive.

 

La questione dei confini tra India e Bangladesh era anche al centro dei lavori veneziani. Se le opere pre-Biennale di Berlino, sembravano adottare una “regola d’ingaggio” (per usare volutamente un termine militare e poliziesco) piuttosto diretta, a Venezia Gupta, complice anche il contesto di un antico palazzo, ha organizzato un itinerario variegato, costruito per frammenti e allusioni, in una progressione di vetrine e documenti raccolti attraverso un’esperienza diretta sul campo e l’incontro con le comunità di queste regioni. In questa nuova fase del suo lavoro, la scrittura, “medium dell’assenza” come l’ha definita Freud, sembra aver sostituito l’immagine e il suono; la lettura sembra aver preso il posto dell’interattività, l’archivio aver sostituito la presa diretta. Brevi testi incorniciati, laconici appunti che parlano delle misure di un confine e che misurano distanze; disegni di percorsi e itinerari per orientarsi in una geografia malata; confessioni di piccoli e grandi azioni di contrabbando (dalla porcellana alle mucche). 

Infine, nell’ultimo grande salone, la tessitura giornaliera di una lunga stoffa che misura in scala 1:998.9 la barriera da anni in corso di costruzione tra India e Bangladesh, potenzialmente la più lunga del mondo. Iniziata in Bangladesh, la tessitura è continuata a Venezia e sta proseguendo al Louisiana Museum, in Danimarca. Non abbiamo alcuna prova che, questa volta, la tela verrà disfatta.

 

Tutte le immagini sono di Luca Cerizza, scattate nello studio di Shilpa Gupta, Bandra, Mumbai.

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