I padroni dell’arte contemporanea
Me le ricordo bene, le pile di libri sui tavoli della FNAC, alla fine del secolo scorso. Le copertine color senape, indaco, carta da zucchero; portavano titoli come L’arte allo stato gassoso, L’inverno della cultura, Un’arte contestuale, Forme di vita.
La misura era quella del saggio breve, dell’allocuzione bruciante, della puntualizzazione “necessaria”. Argomenti e stile oscillavano dal marxismo rococò all’esistenzialista perplesso. Gli autori erano quelli ancora disponibili, brevi manu, nelle aule universitarie.
Io restavo inebriato dall’etere di quella fraseologia che non di rado declinava nell’anacoluto, nella prosopopea, nella fuffa. Uno scaltro e gentile amico parigino poi mi spiegò con molto cinismo che il tutto in fin dei conti poteva rinchiudersi nella formula da lui battezzata come “chosité de la chose”. Con infinita gratitudine mantenni con me quella clausola a guisa d’imperituro antidoto.
Io infatti quei libri ogni tanto li compravo. In fin dei conti, costavano pure poco. Erano pagine sparute su carta mediocre, e mi pareva in tal modo di poter vivere facilmente il frisson del “discorso”. Era una maniera ingenua, lo riconosco, di sentirsi in qualche modo organici a quel mondo d’intellò e di pamphletaires. Faceva provare a prezzo vile il vivido brivido della polemica o dell’apologia, sia pure per interposte persone. Potevo far finta di capire le colonne domenicali di “Libération”.
Poi però ci restavo un po’ male perché a tutti quei libri e libretti mancavano le immagini e io mi dicevo, capisco a Udine o a Pisa dove non c’è un cazzo, ma come si fa a parlare di arte contemporanea a Parigi senza parlare delle opere di arte contemporanea? Senza farle nemmeno vedere? Eppure si faceva. Tanto tutto era in movimento. L’Ottantanove, la “fine della storia”, l’apertura dei mercati, i Magiciens de la terre, l’arte via via sempre più globale e relazionale, il fenomeno delle biennali, i baracconi delle fiere, gli artisti-influencer, anche se la parola non esisteva ancora, le meteore, Matthew Barney, Mariko Mori. Chosité de la chose.
A un certo punto però arrivò Natalie Heinich a mettere giù le cose con una certa chiarezza. Lo fece con un libro intitolato Il triplo gioco dell’arte contemporanea. Altro campionato e altro gioco. Qui si era in zona Gallimard, analisi dura, sociologia seria, tante toste pagine.
Heinich non giudicava né polemizzava, constatava. Trasgressione dei limiti dell’arte da parte degli artisti, reazioni negative o derisorie da parte del pubblico, per finire con l’integrazione e l’assimilazione a buon titolo operata da una casta di moderni mandarini. Tolleranza encomiastica e inclusiva, altro che Marcuse.
Il triplo gioco era un modo per spiegare in maniera abbastanza semplice un fatto difficile da capire semplicemente osservandolo lì, e cioè per quale ragione le cose che ormai tutti incontravano da Templon o all’Air de Paris o da Emmanuel Perrotin o alla Maison Rouge o chissà dove altro, erano “arte contemporanea” senza somigliare affatto a quello che fino a quel momento era considerata tale.
Però niente piagnistei, niente cupio dissolvi. Parlare di gioco significata anzitutto accettare una finzione governata da regole, e spiegare bene le regole. Heinich non offriva ragioni storiche, dimostrava procedure. E d’altra parte, praticamente nessuno ormai s’illudeva che si potesse capire qualcosa di quel mondo affidandosi alla tradizionale, benemerita e consapevole storia dell’arte. Poteva piacere (a me per esempio non piaceva granché: decostruiva un mito, estingueva un’illusione) ma insomma ormai nel mondo le cose andavano così. Inutile lamentarsi. Ne discendeva un linguaggio piuttosto asciutto, che manteneva stile e metodo dell’approccio empirico della sociologia della cultura nella sua declinazione migliore. Quella cioè di Pierre Bourdieu, della sua scuola, degli “Actes de la recherche en sciences sociale”. Insomma, di quelle cose che avevano costituito l’ultima, o forse la penultima svolta metodologica (mentre altrove si parlava al massimo di new art history, non certo ancora di gender studies – non esageriamo).
Tutti questi sono buoni motivi per salutare oggi Il paradigma dell’arte contemporanea, il libro (in originale Gallimard 2014) con cui la sociologa francese ha portato a sintesi e a compimento le sue osservazioni. La traduzione italiana appare per certi aspetti fuori tempo massimo rispetto a come sono andate e a come sono accelerate (e cambiate) le cose, negli anni sin qui trascorsi; ma che importa, in fin dei conti? Chi non ha letto a suo tempo il Triplo gioco o L’élite artista può rifarsi almeno un po’.
In un certo senso Heinich coglie in questo libro uno spazio intermedio tra la tesi di Arthur Danto (e cioè, all’ingrosso, che l’arte contemporanea si definisce mediante un sistema di discorsi intorno a dei significati incarnati, embodied meanings) e quella di George Dickie (e cioè che l’arte contemporanea deve intendersi come un sistema di procedure e di attori sociali che definiscono il c.d. artworld).
Potendosi appoggiare sul decorso ormai trentennale di questa arte contemporanea, Heinich dichiara dunque che essa, prima ancora che essere un oggetto, uno stile, un genere, un movimento storico o un momento evolutivo è, essenzialmente, un paradigma. Senza dover scomodare Kuhn, non è nemmeno una conclusione nuovissima. L’assunto di fondo è che quanto chiamiamo arte contemporanea è un sistema inclusivo/esclusivo fondato su un insieme di regole, perlopiù non scritte ma perentoriamente rispettate da parte di una comunità (di artisti, critici, mercanti, collezionisti, curatori) all’interno di alcune istituzioni (gallerie, fiere, mercati, biennali, riviste). Ciò naturalmente non toglie che a fronte di questi “salvati” non sussistano anche i “sommersi”: che sono liberi di continuare le proprie cose, poveretti, consapevoli o meno di essere al di fuori di quel paradigma. Cioè, in altri termini, del giro che conta.
Non mancherebbero (e non mancheranno) le obiezioni verso questo modello, che parrebbe ratificare come arte “contemporanea” solo quello che passa attraverso la mediazione delle quattro o cinque top galleries internazionali e le fiere più fiche del pianeta, da Basilea a Miami; che si può valutare alla stregua di asset collocati sul libero mercato; che sembra accettare, con irricevibile cinismo, l’esito totalmente reificato dell’opera d’arte come commodity di lusso. Con tutto il suo contorno di record di aggiudicazione, alchimie finanziarie, bizzarrie, furbate e cazzeggi vari di quanti possono permettersi di posare a creativi perché, in fin dei conti, a casa c’è qualcuno che lava i piatti o pulisce i cessi.
Lo abbiamo capito un po’ tutti che in realtà le cose non stanno proprio così. Basterebbe la mossa del cavallo per capire che in fondo sì, Heinich ha ragione, esiste davvero quel paradigma che ci spiega così bene. Ma ne esistono altri, discosti, non parigini né newyorkesi né oligarchici; magari provinciali, di sicuro “resilienti”, per usare un termine da querela che già mi pento di aver scritto, ma che non sarò poi così ingrato da non riconoscerne l’importanza.
L’analisi di Heinich scorre quindi lungo una ricostruzione dei vari attori sociali e delle interazioni tra essi, indugiando, in certe finestre che si aprono nel testo, a utili digressioni. I nomi e gli autori sono un po’ quelli che ci aspettiamo: Duchamp, Klein, Warhol, Koons; e poi Castelli, Gagosian, Pinault e via elencando. Non dissimile, nel complesso, la ricostruzione dei vari fenomeni: la performance, il monocromo, l’elusiva arte concettuale, le installazioni, eccetera. Certo, appare sempre il rischio che la bolla estetica e finanziaria generi una bolla discorsiva; e possiamo qui osservare tutti i pregi, e a onor del vero alcuni difetti, di fare della sociologia dell’atto creativo: o, se si preferisce, del pettegolezzo su un mistero.
Personalmente, ritengo ancor oggi più utile (e più divertente: ma questo è un altro discorso, o forse no) le ascisse e le ordinate sopra cui Pierre Bourdieu in La distinzione sistemava in modo semplice e chiaro quello che in Barthes non di rado appare oscuro e complicato: l’ascolto di Bach e il consumo di mortadella, Picasso e Tin Tin, i miti d’oggi e le abitudini di sempre. Oppure le analisi capillari, di solida base quantitativa come L’artiste, l’institution et le marché di Raymonde Moulin (1992), o anche, seppure più discorsivo, L’art et ses institutions en France (1995). Libri che sono usciti più o meno negli stessi anni in cui iniziò a pubblicare Heinich, ma che non ebbero ugual fortuna.
Scorrevole e informato, il libro di Heinich non manca d’utilità. Per una qualunque classe di sociologia della cultura costituirà una lettura corroborante, irrorata di una vasta casistica. Insegnerà molte cose a molti giovani. Qualcosa inevitabilmente sfuggirà, ed è qualcosa che andrà ricercato, se proprio uno vuole, negli interstizi, nelle faglie, nelle pieghe e negli spurghi di quel sistema (anche senza scomodare Deleuze, s’intende). Siete tutti invitati.
Qualche rilievo però mi sembra doveroso. Ho trovato ad esempio abbastanza irritante l’aver mantenuto proprio a inizio libro certe polemiche, certe puntute rese dei conti, certe polemicucce o piccinerie accademiche forse nella convinzione che potessero interessare il lettore (notizia: non interessano affatto). C’è poi un certo tono compiaciuto e autoreferenziale, quel continuo ribadire “come ho scritto nel mio precedente libro”. È certo importante aver scritto dei libri, lo riconosciamo tutti; un po’ meno elegante ricordarlo a ogni piè sospinto. Probabilmente il lettore mal tollererà l’invocazione, in molte o troppe pagine, delle opinioni di un Maurizio Cattelan, che di tutto quel paradigma può essere inteso come modello, sì, ma soltanto di se stesso.
E poi, ancora una volta, mancano le immagini. Si sarà risparmiato su Adagp e Siae, certo; e poi l’arte è ormai una cosa immateriale e letteralmente un discorso a sé. Non mi arrabbierò più come una volta. Però, che peccato.