Un ritratto / I 107 anni di Boris Pahor

26 Agosto 2020

Per festeggiare i suoi 107 anni, lucidi e combattivi, il 26 agosto, Boris Pahor toglierà a pranzo la sua coppola beige, che gli tiene riparata la testa e da cui non si separa mai. Se ne spoglia poche volte in pubblico, in occasioni speciali, come quando, il 13 luglio scorso, ha ricevuto nella prefettura della sua Trieste dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella la Gran Croce al merito, e un’onorificenza omologa dal Capo dello Stato sloveno, Borut Pahor, nel rispetto della sua duplice identità di cittadino triestino di nazionalità slovena, come tiene ossessivamente a precisare. Per lui, infatti, l’identità nazionale è ed è stata questione di vita e di morte. 

Un copricapo simile, ma verde, lo indossa anche d’inverno per difendersi dalla bora, con una sciarpa rossa, altro oggetto indispensabile allo scrittore anche d’estate. Quel pezzo di stoffa lisa, che nel gelo gli ripara la gola, serve anche nei mesi estivi per tenere al caldo le giunture: “Il corpo è l’unica cosa che abbiamo” ripete, memore della sua esperienza da prigioniero politico, che lo ha costretto per quasi due anni a peregrinare in cinque campi di concentramento: Natzweiler, Dachau, Dora, Harzungen e Bergen Belsen. 

 

Pahor porta sempre gli stessi indumenti da decenni. In particolare ha due soprabiti, un impermeabile bianco ghiaccio che funge da coprispalla in primavera e un cappotto grigio, meticolosamente rammendato, che usa d’inverno. Ci è affezionato, “fanno il loro lavoro”, dice lui. Come la cartella di pelle marrone con il manico sdrucito e le chiusure slentate, dove infila i documenti, gli scritti, gli appunti che gli servono per i suoi interventi in pubblico o per portare con sé  libri suoi o di altri autori, che vuole regalare a qualche persona perché scavi nella storia. Si tratta sempre di pubblicazioni politiche, che mettono in luce la sofferenza del suo popolo, quello sloveno, alla cui causa e per la cui libertà di espressione ha dedicato la vita. 

 

Pahor è nato nel 1913, quando a Trieste c’erano ancora gli Asburgo.  La Prima guerra mondiale, che ha fatto di quel confine un aspro terreno di battaglia, la ricorda dal lettone della casa dove cercava di guarire dalla spagnola, che aveva contratto assieme alla madre e a due sorelle, Maria detta Mimica, ed Evelina. L’anno in cui colloca il primo ricordo della sua vita è dunque il 1918. Sente le cannonate, mentre la malattia si porta via Mimica, cui Pahor è affezionatissimo. Scavallato il conflitto, diventata Trieste italiana, l’avvenire non gli riserva tempi migliori. Il fascismo impedisce qualsiasi forma di espressione associativa e di pensiero agli sloveni, dai ricreatori, ai club sportivi, alla pubblicazione dei giornali in lingua, alla possibilità di mantenere aperte le banche. Pahor comincia subito a sentire la mannaia dell’oppressione politica. Il padre, essendo sloveno, perde il posto da fotografo in questura e deve ripiegare a fare l’ambulante in una piazza del centro triestino. La famiglia è in ginocchio: soldi ce ne sono pochi, pochissimi. In più Boris, che era un buono studente alla scuola slovena chiusa dal fascismo, se la cava male in quella italiana per quella sua profonda coerenza che gli impedisce di riconoscere una lingua estranea come lingua madre. 

 

In questo non è privo peso lo shock cui Pahor assiste a sei anni. Avvertito da una vicina, elude la vigilanza materna per vedere il terribile spettacolo delle fiamme dell’incendio del 13 luglio nel 1920 del Narodni dom, la casa della cultura slovena. Quell’esperienza è il battesimo, secondo lo storico Renzo de Felice, dello squadrismo organizzato, che ha reso palese, autorizzandola, la persecuzione verso il popolo di Pahor.  È un marchio a fuoco per lo scrittore che narra l’oppressione degli sloveni in Qui è proibito parlare e Piazza Oberdan. Dopo le scuole e un breve periodo in seminario, Pahor finisce soldato in Libia sotto l’esercito italiano. All’armistizio rientra a Trieste ed entra nel TIGR, acronimo della resistenza slovena che sta per Trst, Istra, Gorica e Reka/Rijeka, i nomi sloveni e croati di Trieste, Istria, Gorizia e Fiume, la regione e le città diventate italiane dopo il patto di Londra del ’15 e la cui perdita per gli sloveni era avvertita come un furto. Poi l’arresto della gestapo, i vagoni piombati con la stella rossa di prigioniero politico e l’esperienza del campo di concentramento. Nella biografia, che abbiamo scritto a quattro mani, Figlio di nessuno, così racconta l’inizio di quella nuova vita: “Partimmo il 26 febbraio 1944 senza sapere dove saremmo andati. Avevamo inteso solo che la nostra meta era la Germania e che c’era poco da stare allegri. Non potevamo però certo immaginare un’organizzazione strutturata per scarnificare gli uomini succhiando loro ogni linfa vitale con lavori disumani e per svuotarli, lasciando loro solo una scorza rinsecchita a ricoprire un mucchietto di ossa. Viaggiammo da Trieste a Dachau su un treno merci.

 

 

Ci impiegammo due giorni, anche se avremmo potuto raggiungere il lager in molto meno. Per ragioni che nessuno mai ci spiegò, nel tragitto facemmo parecchie fermate. Eravamo tutti triangoli rossi, così i nazisti catalogavano e contrassegnavano i deportati politici destinati a Dachau, Buchenwald, Dora, (Natzweiler- Struthof), Mauthausen e a tutti gli arcipelaghi dei sottocampi, detti kommando. Erano campi di lavoro diversi da quelli di sterminio come Bergen-Belsen e Auschwitz, dotati di forni crematori, vere proprie istituzioni volte a incenerire, nel senso letterale del termine, coloro che vi transitavano: ebrei e malati terminali dei campi di lavoro di cui disfarsi per tenere «pulite» le altre strutture. Nessuno dei «triangoli rossi» è morto ucciso nelle camere a gas, come avvenne per gli ebrei, ma venivamo consumati come cartucce, sfiancati di lavoro, fame e malattie in un percorso più largo che conduceva comunque al forno”.

 

Pahor raccoglie quell’esperienza nel libro più intenso e forte che abbia filiato, Necropoli, in cui descrive il suo ritorno al lager di Natzweiler-Struthof negli anni Sessanta. Lo scrittore rivisita il campo con gli altri turisti, descrive il palo in cui venivano impiccati i prigionieri che si ribellavano, il suo mestiere di fleger, infermiere, che lo ha sottratto ai lavori forzati e gli ha consentito di sopravvivere. Ricorda gli innumerevoli scheletri dei compagni che non ha potuto salvare, la fame, la cattiveria. Dal campo esce alla fine della guerra tubercolotico e trova rifugio in un sanatorio francese dove ritorna alla vita grazie all’amore di un’infermiera, Arlette. Fissa quel rapporto capriccioso e indomato in un libro, Primavera difficile, che per lo scrittore sloveno rimane la sua creazione più bella, forse perché è il simbolo dell’allontanamento della morte.  

 

Quando torna a Trieste, guarito, si cruccia di non aver potuto conservare la sua divisa da deportato a rigoni verticali bianchi e neri. Conservarla sarebbe stata il segno tangibile della disumanità subita.

Il lager ha rafforzato, se ce n’era bisogno, la sua convinzione di strenuo oppositore dei totalitarismi, che ha cristallizzato nel libro Tre volte no. No al fascismo, no al nazismo, no al comunismo. 

Si definisce un cristiano sociale, secondo la dottrina di Emmanuel Mounier, fondatore della rivista Esprit. È una categoria in cui comprime il suo spirito libero, in realtà laico e tendenzialmente di sinistra, ma assai lontano dal comunismo. Nel lager aveva stima dei comunisti che per i loro compagni malati erano capaci di tagliare dalla propria porzione di pane delle fettine sottilissime, sottraendoli a loro stessi. Ma non per questo ha esitato a schierarsi contro il regime di Tito, da cui si è sentito scippato della propria terra, la Slovenia, ricondotta sotto una dittatura socialista. Lo ha affrontato, denunciando sulla sua rivista, Zaliv, Il golfo, la fino ad allora taciuta strage avvenuta nel maggio del 1945, perpetuata da Tito contro migliaia collaborazionisti sloveni, i domobranci, e croati, gli ustascia, a cui si erano uniti soldati regolari croati e le loro famiglie, fuggiti in Austria sotto la protezione dall’esercito britannico. Si parla di un esercito di persone in una cifra compresa tra i 30mila e i 150 mila uccisi, rinviati in Iugoslavia disarmati sotto pressione di Tito, perché ne disponesse come credeva. Pochissimi si salvarono, freddati in fucilazioni o marce sfinenti. Pahor viene a conoscenza dell’eccidio grazie a una lettera di un lettore nel 1966 e decide di pubblicarne una denuncia sul suo giornale ospitando un articolo dello scrittore e poeta cristiano-sociale Edvard Kocbek. Per questo Pahor per anni non ha potuto attraversare il confine iugoslavo senza il rischio di essere arrestato, mentre Kocbek è stato isolato dal regime, misconosciuta la sua attività di intellettuale. 

 

Pahor conserva con rara solerzia un libro ingiallito, stampato nel 1972, delle edizioni Valecchi, Etica, di Baruch Spinoza, fitto di annotazioni a margine. Lì legge e rilegge il Deus sive natura cui aderisce completamente. Ultracentenario, si trova a fare le stesse riflessioni di quando era appena tornato vivo dal campo di concentramento e si interrogava sulla ragione di tanto male e di tanta indifferenza. Si inchina, da panteista, al mistero dell'universo, della forza immane che lo tiene in vita. La sua forma di divinità la trova nel silenzio, che un tempo cercava salendo sull’altipiano carsico o sulle montagne, per cui nutre un amore paritetico al mare. Ora, che la sua mobilità è limitata, ma non compromessa, si raccoglie davanti l’infinita distesa del mare sul terrazzo di casa con gli occhiali bifocali di plastica neri, rettangolari, così pesanti che hanno formato una leggera gobba, nel punto in cui poggiano sul naso. Anche quelli non vi è motivo di cambiarli, “fanno il loro lavoro”. 

Gli rimane il cruccio che il Giorno del ricordo del 10 febbraio, istituito con una legge del 2004, renda onore alle vittime dell’indicibile tragedia delle foibe, e dell’esodo istriano, fiumano e dalmata e della “più complessa vicenda del confine orientale”, senza menzionare esplicitamente i crimini fascisti contro gli sloveni nel ventennio fascista. Continua la sua battaglia perché venga pubblicata la relazione della commissione italo slovena sui rapporti tra sloveni e italiani dal 1880 al 1956 che chiarisce molti punti oscuri in merito. È una lotta sua personale, senza alcuna sponda nei partiti politici. Anzi. Lo sanno bene che lui è capace di dire non tre, ma mille volte no, a tutto quello che non lo rende libero. Ieri come oggi. Auguri professore.

 

Cristina Battocletti ha scritto a quattro mani con Boris Pahor, Figlio di nessuno (Rizzoli, 2012), autobiografia dello scrittore sloveno, premio Manzoni come miglior romanzo storico

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