La rosa e l'albero / Verso una filosofia della natura

19 Maggio 2017

Il 1889 si può considerare l’anno di una biforcazione fondamentale nello sviluppo del pensiero filosofico del Novecento. Esce il Saggio sui dati immediati della coscienza di Henri Bergson, ruotante sulla distinzione tra materia e spirito, spazio e durata, che alla fine il filosofo francese salderà nella cornice monistica del vivente e della sua evoluzione creatrice, e, a Messkirch, nasce colui che porterà al successo il movimento fenomenologico del maestro Husserl, scatenando in Francia la rivolta dei giovani, come Sartre, proprio contro l’egemonia bergsoniana: Martin Heidegger.

 

La linea del primo è quella di una filosofia dell’immanenza assoluta, di una realtà naturale concepita come un’infinita memoria vivente, di cui l’io, l’intelligenza umana diventano una provincia. Filosofia che si pone come il “prolungamento” metafisico della scienza della natura e con la stessa dignità di quest’ultima. È la linea che nel volgere di un paio di decenni soccomberà al cospetto della linea maggiore del Novecento, della quale Heidegger consacrerà i due caratteri principali. Da un lato, l’antropologia, fondata sull’eccezione umana rispetto agli altri enti di natura, in quanto l’uomo è aperto alla possibilità e al senso, nell’orizzonte del quale solo s’incontrano il mondo e i suoi oggetti, ovvero è l’unico destinatario dell’appello dell’Essere, e, dall’altro lato, la dismissione della filosofia, cioè l’articolazione di un discorso filosofico paradossalmente autofago, che verte sull’impossibilità della filosofia stessa e delle sue pretese conoscitive, diventando così ermeneutica, filosofia analitica, decostruzione o genealogia. Il primato antropologico ha avuto, infatti, come risvolto il primato del linguaggio umano, col risultato che la filosofia non solo ha abdicato a se stessa, ma ha dimenticato e messo tra parentesi il mondo, imprigionandosi nei testi e nelle parole, come lamentava quarant’anni fa Michel Serres, che invocava un nuovo Rinascimento con il ritorno ad una filosofia della natura, consapevole del fatto che “il mondo così com’è non è un prodotto della mia rappresentazione, bensì il mio sapere è un prodotto del mondo che si autoforma (della natura naturante)” (Hermès IV. La distribution, 1977).

 

Rocco Ronchi sembra raccogliere l’appello di Serres in questo corposo libro che ripercorre e mappa in modo inedito la filosofia del Novecento, appena pubblicato dalla Feltrinelli col titolo: Il canone minore. Verso una filosofia della natura, dove si indicano anche nuove possibili direzioni di marcia per la filosofia del XXI secolo, che ne ridisegnino statuto e validità e ne giustifichino la necessità nel contesto di quei saperi scientifici in continua trasformazione (innanzitutto, le neuroscienze), che sembrerebbero metterla ancor più sotto scacco. Con l’acribia di un archeologo del sapere filosofico, Ronchi ci suggerisce che il passaggio da Bergson ad Heidegger, non è tanto il passaggio dal “momento filosofico” dello spirito a quello dell’esistenza, su cui indulge solitamente la storiografia filosofica, ma è il passaggio da un canone ad un altro, da un paradigma ad un altro, con l’annesso sottosuolo e costellazione di concetti, categorie, stili di pensiero. Il libro di Ronchi è un’accurata rassegna dei dispositivi fondamentali del canone maggiore del pensiero, puntualmente decostruiti alla luce delle proposte alternative del canone minore, che l’autore propone di rilanciare, attingendolo in filosofi come Bergson, Gentile, James, Whitehead, Deleuze e meno noti come Gilbert Simondon e Raymond Ruyer. 

 

Due simboli, sovente richiamati dal testo, possono aiutarci a rinvenire l’opposizione principale tra i due canoni: l’albero di Sartre e la rosa di Bergson. In un noto saggio brevissimo ma letterariamente eccelso, scritto nel gennaio 1939 (Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità), Sartre spiega il punto di forza della proposta fenomenologica di Husserl rispetto all’“idealismo” di Brunschvicg e al “realismo” di Bergson e, cioè, la “correlazione” data nello stesso momento di coscienza e mondo: l’albero non è qualcosa che, misteriosamente ingurgitato come un alimento, diventa la mia rappresentazione, un contenuto della mia coscienza, esso resta fuori di me; ma nemmeno è un assoluto che entrerà poi in comunicazione con me, dice Sartre. L’albero appare in me perché la coscienza è sempre fuori se stessa, esplode verso l’esterno, è coscienza di qualche cosa, e quindi è sempre fuori presso l’albero, accanto al suo lembo di terra screpolata.

 

Ph Kenro Izu.

Ph Kenro Izu.


Per il Bergson di Materia e memoria e in genere per i filosofi del canone minore, invece, questa coscienza non è là fuori l’albero o la terra, perché è l’albero, è la terra. Il tutto, la natura, è una coscienza in sé prima che venga catturata e ritagliata dalla coscienza intenzionale dell’uomo. Nel caso della rosa – fatto in verità da un critico di Bergson, Maurice Prandines, nel suo Traité de psychologie générale. Les fonctions élémentaires del 1943 –, si può dire che il profumo di una rosa non esiste nel momento in cui odora per noi ovvero noi ci poniamo nell’atto di odorarla. La rosa odora innanzitutto per se stessa, anzi il suo odorare coincide col suo essere, vivere, percepire e anche col nostro godimento. Insomma, l’albero di Sartre è il fenomeno, l’apparire relativo al soggetto umano; la rosa di Bergson è l’apparire stesso dell’apparire, il puro apparire. 

 

In definitiva, i filosofi dell’immanenza assoluta concepiscono la realtà come unitaria. Ma è un Uno che si complica e si moltiplica in sé, è l’evento del suo continuo differenziarsi e indefinito comunicarsi. Quindi, è processo, cambiamento, esperienza pura, da considerarsi come assoluto. Cosa significa questo? Significa che non bisogna pensare in primis l’esperienza come l’esperienza di qualcosa e di qualcuno, cioè a partire da un fondamento che la renderebbe possibile e che si troverebbe miracolosamente fuori dall’esperienza stessa. Questa è l’esperienza come è stata vista dalla filosofia del canone maggiore, vale a dire sempre relativizzata in riferimento all’uomo. Bergson, sempre in quel testo che Ronchi sembra ritenere il più audace della linea minore, Materia e memoria del 1896, descrive l’esperienza pura come un “piano di immagini” che non sono immagini di qualcosa o per qualcuno, ma immagini in sé. Per comprendere una tesi alle prime ingenua e bizzarra, può essere utile il paragone con un film o una pellicola cinematografica prima che un qualsivoglia spettatore la visioni, che fa Deleuze, anche sulla scorta della semiologia del cinema di Pasolini. Non c’è solo la percezione soggettiva dell’uomo.

 

Ogni elemento della natura percepisce, il tutto è cosciente anche se non è una coscienza intenzionale, che del primo è una piega derivata, riflessa. Anzi, all’origine dell’esperienza pura non c’è un soggetto, l’Io penso di Kant o il Dasein di Heidegger, bensì un’intuizione cieca della natura, che “non è esperienza di niente e di nessuno, ma una singolare auto-affezione traumatica che gli empiristi radicali sono soliti metaforizzare con l’ossimoro di uno spettacolo senza spettatore”, scrive Ronchi. Per fare un esempio di questa intuizione cieca, Ronchi richiama l’aneddoto raccontato nell’XI Seminario da Jacques Lacan, lo psicanalista collocato nel guado tra canone maggiore e minore. Un pescatore invita Lacan, a bordo della sua barca, ad osservare una scatoletta di sardine galleggiante e gli fa notare come egli possa vedere la scatoletta, mentre la scatoletta non può fare lo stesso nei suoi confronti. Involontariamente, il pescatore induce, invece, Lacan a pensare alla possibilità che la scatoletta lo guardi senza “vedere”, che faccia comunque esperienza di lui, della barca e del pescatore. 

 

Ecco che ad essere sconvolta è la nostra Weltanschauung, il nostro senso comune, da tempo colonizzato dal canone maggiore, che ci ha abituato a pensare l’esperienza come contingenza, come un’oscillazione tra possibile e reale, tra il non poter essere e l’essere, ma la contingenza non appare mai in verità, non “vediamo” mai come qualcosa sarebbe potuto non accadere o accadere diversamente e l’esperienza pura, sempre in atto, non ne sa nulla del nulla. Anche il pensiero va ricontestualizzato nel flusso superindividuale dell’esperienza e quindi non considerato come l’attività di una sostanza pensante, dell’ego, come se questo fosse l’origine del pensare. Semmai l’ego è il compimento, il risultato, il supergetto del pensare. Inoltre, la filosofia del canone minore, che per Ronchi è la filosofia speculativa ovvero la filosofia tout court, impone di restaurare l’ipotesi di una causalità immanente e di un infinito attuale, laddove il paradigma antropologico e relativista del canone maggiore ha visto nella finitezza umana non un limite, bensì la condizione di possibilità della conoscenza, del sapere.

 

Le parole e le cose di Michel Foucault offrono la prima e la migliore delucidazione di questa svolta “antropologica” nella cultura europea moderna, secondo Ronchi, proprio perché ne fa emergere la struttura epistemica sottostante, quella che opera anche alla base del (neo)kantismo, della fenomenologia e dell’analitica esistenziale, principali correnti demolitrici del canone minore. In altri termini, nell’episteme moderna l’uomo si pone come un duplicato empirico-trascendentale, come quell’essere che acquisisce in se stesso la conoscenza delle condizioni che rendono possibile ogni conoscenza, che eleva, cioè, la sua finitudine a fondamento del sapere e dei suoi limiti di validità. Così, la vita, il lavoro, il linguaggio fanno parte dell’empiricità, della storicità dell’uomo, perché derivano dal corpo, dal bisogno, dall’attività parlante, ma nello stesso tempo diventano la fonte trascendentale del suo sapere. Dal punto di vista del canone minore, che reintegra l’uomo nella natura e nella sua processualità, per converso, il sapere, la conoscenza, la tecnica, diventano una funzione e un atto del vivente: la stessa “scienza della natura è un modo, per la natura, di esistere”, scrive Ronchi, e, citando la splendida definizione di Canguilhem, tra i maggiori epistemologi del secolo scorso, “la tecnica è l’esperienza irriflessa inconsciamente orientata verso la creazione”. 

 

Ma quali promesse contiene la riabilitazione della filosofia speculativa? Come può l’eliminazione dell’eccezione umana e la piena integrazione dell’uomo nella natura modificare la nostra prospettiva rispetto alla complessità del presente? Come può porsi, più in generale, il canone minore del pensiero all’altezza dei nostri tempi? Alcuni cenni importanti vengono fatti dal libro in questo senso, che si pongono come tracce per future ricerche o inducono interrogazioni cruciali. Per esempio, se la filosofia non è solo ideologia o mitologia dell’Occidente, per giunta al servizio del suo progetto imperialistico, come recita uno degli approdi più rilevanti della dismissione della filosofia operata dal canone maggiore, ma diventa filosofia speculativa della natura e dell’assoluto, non può al contrario porsi come ingrediente di una cultura comune della convivenza planetaria?

 

E se siamo parte integrante della natura, questo non ci permette di guardare in modo meno inquieto di quanto facciano le apprensioni o le demonizzazioni della tecnica espresse dal canone maggiore, rispetto al fatto che l’evoluzione creatrice ha prodotto con l’uomo un possibile creatore di evoluzione, considerato le conoscenze raggiunte nelle biotecnologie e nell’ingegneria genetica? Come comprendere questa “eccezionalità” di un uomo che comunque non è un’eccezione rispetto al resto della natura? Pertanto, giunti nell’era dell’Antropocene e posti di fronte alla sfida di recuperare gli equilibri vitali con la biosfera, non abbiamo bisogno di restaurare i concetti e lo stile di pensiero del canone minore? Certo, questi appaiono ingenui o “dissennati” ma, come scrive provocatoriamente Ronchi, “la filosofia non è saggia e ne si tocca con mano la dissennatezza da quanto osa affermare”. E, forse, per fare il controcanto al più grande filosofo del canone maggiore, solo la dissennatezza ci può salvare. 

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