Eschilo tra le macerie / Milo Rau, Orestes in Mosul
L’ultimo spettacolo di Milo Rau ha debuttato a Mosul, Iraq.
Non è forse una notizia, questa? Il regista più à la page d’Europa in azione nelle zone calde del conflitto islamico. Ma forse non tutti, tra quelli che hanno riportato e condiviso la notizia, ricordano cosa è accaduto di preciso in quella piccola cittadina al confine con il Kurdistan iracheno.
Per comprendere lo scenario nel quale hanno lavorato Milo Rau e la sua compagnia, bisogna riportare le lancette indietro, al 2014.
A giugno, il gruppo Stato Islamico conquista Mosul e proclama la nascita di un califfato di stretta osservanza jihadista, a cavallo tra i territori di Siria e Iraq. Nel 2016 una coalizione guidata dal governo iracheno, con il sostegno dei combattenti curdi e degli Stati Uniti lancia una campagna militare per liberare Mosul. Quello che segue è uno dei più violenti e sanguinosi assedi messi in atto dalla seconda guerra mondiale (lo racconta Ben Taub, in una bellissima inchiesta uscita sul “New Yorker”, e tradotta su “Internazionale” nell’aprile 2019). L’IS, con migliaia di civili, si ritira nei quartieri più interni. La città vecchia è un labirinto di vicoli e suq sulle rive del Tigri, i jihadisti scavano gallerie sotterranee per spostarsi senza essere visti. La coalizione perde la pazienza e comincia a bombardare a tappeto: il Tigri per mesi trasporta corpi galleggianti dei civili. Nel luglio 2017 Mosul è liberata. Completamente distrutta, ma liberata.
Nel novembre del 2018 Milo Rau visita la città irachena per la prima volta, per fare ricerca e cercare attori. Trova Mosul ancora in rovina: tetti dei palazzi sfondati, pavimenti crollati, macerie, muri trapassati dai proiettili, pochissimi passanti. Ecco che il panorama dello sfacelo diventa il setting dell’Orestea di Eschilo, e si imprime negli occhi dello spettatore fin dalla locandina.
In primo piano, un uomo seduto sui tavolini di un fast food, accanto a lui una bottiglietta di ketchup. Sullo sfondo, un edificio fatiscente e cumuli di macerie. È la Mosul di oggi, tra la vita di tutti i giorni che continua a scorrere, e il cimitero a cielo aperto dei morti degli ultimi anni.
Nel Gent Manifesto Milo Rau dichiara a chiare lettere che un testo sorgente può occupare al massimo il 20 per cento dello spettacolo nella sua versione finale. Orestes in Mosul si mantiene perfettamente nel canone: della trilogia eschilea non resta molto, a parte alcune inaspettate e folgoranti riprese letterali (la drammaturgia è curata da Stefan Blaske). E allo stesso tempo, lo spettacolo di Rau appare come una delle più radicali e profonde riletture della saga tragica viste negli ultimi anni. L’ago interpretativo del regista pende tutto sulla terza parte della trilogia, le Eumenidi: il momento in cui il sangue versato da generazioni viene ripulito, la guerra è passata e si prova a ricostruire, le Erinni rabbiose contro la polis diventano divinità benigne, e il tribunale sancisce assoluzioni e colpevoli. Ma è davvero possibile restaurare la democrazia lasciandosi alle spalle tutta la violenza? O si finisce inevitabilmente per provocare altra violenza? La storia di Mosul non permette letture rassicuranti. Da 2017 continuano gli arresti per giustiziare i (presunti) simpatizzanti dell’IS, i processi durano pochi minuti, le impiccagioni sono frequenti, le vedove dei jihadisti vengono tenute segregate in campi profughi, gli orfani vivono per strada. Il ciclo della violenza non si ferma, e nuove vendette e nuovo odio si preparano: non c’è lieto fine né catarsi nella parabola tragica disegnata da Milo Rau, e la ricostruzione democratica risuona in tutta la sua implausibilità.
La scena di Orestes in Mosul assomiglia a quella di altri spettacoli di Rau. Computer, microfoni, video in bella vista: sono gli strumenti necessari a rappresentare il processo comunicativo nel suo farsi, a comporlo sotto gli occhi del pubblico, a mostrare costantemente l’osceno. Ma non manca, anche in questo caso, un tributo al vecchio caro teatro di rappresentazione, un solo elemento realistico che nel corso dello spettacolo verrà ripensato e cambiato di segno. In Empire era una cucina, con tanto di fotografie e caffettiere, in The Repetition una Polo grigia: in Orestes è invece un brutto diner in mattoni, con vetrine e insegne. È il luogo dove gli attori si trovavano a mangiare durante le prove – o almeno così ci viene raccontato; ma diventerà anche la reggia degli Atridi, e accoglierà una tanto bizzarra quanto indimenticabile cena a quattro tra Agamennone, Cassandra, Egisto, Clitemnestra. Il palco sembra affollato ma, a ben guardare, sulla scena si muovono soltanto sei attori: alcuni di loro sono iracheni espatriati, che vivono all’estero da qualche tempo (tra loro il bravissimo Pilade/Duraid Abbas), altri sono europei. Sullo schermo, invece, compaiono più di quindici attori. Sono volti di Mosul, che emergono dalle macerie, interagiscono con quello che accade sul palco, bucano il video con i loro sguardi, mescolano il piano del riprodotto con quello del rappresentato.
Tra loro, anche un gruppo di musicisti e un corifeo: è Suleik Salim Al-Khabbaz, che se ne sta seduto sulle macerie e suona il suo strumento a corde, in una delle più struggenti manifestazioni del coro greco viste negli ultimi anni. Le riprese della città riverberano su ogni brano del testo tragico, e ogni passaggio della saga mitica viene fortemente connotato in senso storico-politico: si giustiziano uomini con tute arancioni, la sentinella che aspetta il ritorno degli Atridi è un fotografo di guerra, Atena ha un velo islamico, Oreste perseguitato dalle Erinni trova ristoro in un ospedale da campo. Gli atti di violenza, che siamo abituati a guardare con annoiata indifferenza in molte rappresentazioni della tragedia greca, appaiono qui quasi insopportabili per la loro brutalità: nei rumori gutturali dello strangolamento di Ifigenia pare di sentir risuonare tutti gli abusi che quotidianamente vengono perpetrati dai soldati nei campi profughi.
La temperatura emotiva di Orestes, nonostante tutto, non è incandescente. Milo Rau la raffredda, come è solito fare, vivisezionando ogni meccanismo, scomponendo e fermando la narrazione, moltiplicando i piani. Ma le immagini delle macerie, i volti e qualche frammento del testo eschileo continuano ad agire per giorni dopo l’uscita da teatro. Come i ricordi di un viaggio al termine della notte.
Le fotografie sono di Fred Debrock.