Napoli. Retrospettiva a luce solida / Fabio Mauri. Diffidenza

13 Dicembre 2016

“La mia è un’arte saggistica, cerco di capire i nodi, i temi dell’essere in vita”. Fabio Mauri non ha mai nascosto l’intenzione radicalmente critica della sua ricerca di artista “sperimentatore”. Oltre mezzo secolo di riflessione, di interrogazione e di confronto continuo sulla verità, sempre sfuggente e sempre da cercare, della storia (“La verità non esiste. È verissimo”), sulle ragioni di un’esistenza che si fa, spesso involontariamente, memoria – “Diffidenza verso la memoria, e la sua credulità, come di un delirio arbitrario” si legge nel testo “fuori tema” di Dio e la scena, una delle tante, ineguagliate conferenze con performance in cui Mauri ha più volte condensato gesto, pensiero, scrittura e visione – nel corso del quale l’artista non si è mai sottratto al rischio del giudizio e alla fatica del dubbio, in un costante lavoro di indagine sul passato recente e sul presente che ha trovato la misura cristallina, e non per questo rassicurante, della classicità. 

 

Profondamente radicata nella storia e nella biografia, l’opera di Fabio Mauri ha l’urgenza di un’attualità permanente, una qualità bruciante che si manifesta in tutta la propria crudele, esigente intensità nella mostra antologica, una convincente Retrospettiva a luce solida, che il MADRE di Napoli ospita fino al 6 marzo 2017. Oltre cento opere, azioni, documenti che vanno dagli anni cinquanta del secolo scorso al 2009, anno in cui l’artista, nato a Roma nel 1926, è scomparso, selezionate da Laura Cherubini e da Andrea Viliani e riscritte secondo una prospettiva critica che, tra le tante direzioni aperte da Mauri, ha scelto di privilegiare la riflessione sul rapporto fra mente e mondo, tra realtà e memoria, tra Storia e storie. Una relazione che si esprime, concretizzandosi (solidificandosi, appunto) nella proiezione, processo fisico e metafora di un’azione in grado di trasformare il mondo. Del resto, come dichiarava il titolo di un libro-opera del 1975, per Mauri Linguaggio è guerra, nessun segno, immagine, voce o parola sfugge all’ideologia, non c’è mai innocenza ma sempre responsabilità in ogni atto compiuto. La pratica artistica e l’esperienza esistenziale si confrontano e si compromettono senza sosta nell’opera ibrida, precocemente mixed media e partecipativa, di Fabio Mauri, nella convinzione che solo “l’arte sembra possedere la capacità di registrare essere ed esistenza insieme, come fossero una cosa sola percepita ‘dal vero’”. 

 

Linguaggio è guerra, F. Mauri.

 

L’artista, che fu fra i primi a rileggere già negli anni Trenta l’avanguardia futurista e a riconoscere nel teatro una figura e un luogo irrinunciabili per la sua opera d’arte totale, non ha mai fatto mistero di quanto arte e vita o, meglio arte e (auto)biografia fossero per lui legate, tanto che a corredo del documentatissimo volume pubblicato nel 1994 in occasione della mostra alla GNAM, l’artista aveva voluto firmare proprio un testo autobiografico – Preistoria come storia – in cui ad emergere con chiarezza era il peso che le vicende, per tanti versi avventurose ed anche tragiche, della sua, certo poco ordinaria, famiglia – il nonno paterno, il Cavaliere Achille Mauri, impresario teatrale di fama, lo zio materno, Valentino Bompiani, coraggioso editore, il padre Umberto, primo importatore di Flash Gordon e di Michey Mouse…. – avevano avuto nell’orientare le sue future scelte di artista, determinate anche da alcune amicizie giovanili, soprattutto dal legame, cruciale quanto “imperdonabile”, con Pierpaolo Pasolini, “per nulla amato dall’avanguardia”. Quella che Mauri aveva voluto porre come irrinunciabile premessa al suo lavoro è una storia giovanile segnata dal trauma della guerra, dall’esperienza del manicomio (33 furono gli elettrochoc a cui, come ha ricordato con sintomatica precisione l’artista, venne sottoposto negli anni quaranta), dall’incontro con Dio, “un flirt” intenso e passeggero, che ha poi condotto a una sorta di “rinvenimento certo e analisi critica o poetica di una felice, e dolorosa, precocità, spesa in un luogo e in un tempo dominati da un’abile Bugia…”. 

 

Quella Bugia che Mauri non ha mai smesso di smascherare, svelandone gli inganni come pure le sapienti retoriche, nelle tante opere – tra le altre, Ebrea, 1973, la Sala del Gran Consiglio (Oscuramento), 1975, Il Muro Occidentale o del Pianto, 1993 – oggi protagoniste a Napoli di un allestimento di sicuro impatto emotivo, frutto anche della collaborazione dello Studio Mauri. Nella sala Re_Pubblica Madre, al piano terra del museo è stato infatti messo in scena un impressionante Theatrum Unicum Artium, animato, secondo un preciso calendario, dalla riproposizione di alcune celebri azioni: Ideologia e natura, 1973, L’Espressionista, 1982, Senza titolo, 1992 e, soprattutto Europa bombardata, la cui protagonista è, proprio come nella performance proposta nel 1978 a Bologna, una magnifica Danka Schröder, la cui presenza, in perfetto contrappunto con la fotografia dell’azione originale, fa esplodere in tutta la sua forza la bruciante attualità del lavoro sulla memoria di Fabio Mauri, dando valore all’operazione di re-enactment, resa finalmente efficace dalla natura stessa delle performance di Mauri, progettate e quasi mai direttamente agite, dall’artista. 

Agli schermi, cui Fabio Mauri iniziò a dedicarsi alla fine degli anni ’50 – il primo lo comprò, entusiasta, il poeta Bill Demby – e alle proiezioni è soprattutto dedicato il terzo piano del museo, in una ricca successione di opere (tra le altre, Schermo-Disegno 1957, Schermo in legni bianchi, 1959, Cosa è uno schermo o Schermi ovali , 1962; Schermo II generazione 1973 e ancora Warum eni Deganke einen Raum verpestet?/Perché un pensiero intossica una stanza, 1972, Il televisore che piange, 1972 e Intellettuale, installazione che riprendere la performance realizzata nel 1975 con Pier Paolo Pasolini, “schermo” del suo Il Vangelo secondo Matteo), dove si riconoscono anche alcuni lavori che rimandano al mondo dei media e della comunicazione di massa che la Scuola di Piazza del Popolo aveva precocemente indagato (The End, 1957-1958, Braccio di ferro, 1960). Un ambito di ricerca da cui Mauri si allontanò all’indomani dell’esplosione della pop art alla Biennale di Venezia del 1964, un fenomeno di grande successo, anche commerciale, che finì col travolgere le analoghe esperienze emerse sulla scena romana, come l’artista stesso ha efficacemente ricostruito nel saggio Nel 1960 gli anni ’50 avevano 10 anni: “Roma e New York avevano maturato la stessa idea, nutrivano la medesima febbre, spesso Roma in netto anticipo su New York.

Plinio De Martiis era stato il maestro di tutti, ma giorno dopo giorno veniva surclassato da semplici fatti. Nel metodo, nell’eco, nella durezza, nella strategia, nell’inospitalità, nell’embargo, nel dollaro”. Sempre lucido e inequivocabile, insensibile ai richiami del mercato, Fabio Mauri non è mai venuto meno al rigore di una ricerca sperimentale e di un’attività educativa capaci di lasciare il segno in intere generazioni di artisti e critici, un lavoro di intelligente coerenza che non sempre ha trovato in passato il giusto apprezzamento ma che da qualche anno, grazie anche alla accresciuta presenza delle sue opere nelle grandi rassegne internazionali – e basterà pensare all’ultima edizione di Documenta e alla Biennale veneziana del 2015 – sembra finalmente venire riconosciuto nel suo valore esemplare e, soprattutto, nella sua capacità di offrire sguardi coraggiosi e non convenzionali sulla nostra realtà.

 

 “Gli sperimentatori, come i cascatori nel cinema, sono i più audaci e prolifici in questo esatto senso di aprire varchi, estinguere fuochi fatui o accendere fiamme vere. Vittime della loro perspicacia, spesso travolti sul passaggio stesso che aprono, gli sperimentatori reali patiscono abitualmente la storia che conducono”. Un patimento, quello dello sperimentatore Mauri, che la retrospettiva napoletana restituisce trasformato in visioni e riflessioni di necessaria, ineludibile urgenza.

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