Biennale di Venezia | Gallerie dell'Accademia / Le profetiche caricature di Philip Guston
Il volto tra le gambe
Un volto senza corpo, stempiato, le ciglia folte; il naso prominente a forma di pene, le guance flaccide rese come testicoli pelosi. Una “dick head” che, col naso fallico, annusa o scrive ideogrammi cinesi su un rotolo di carta. L’artista è Philip Guston (1913-1980), il soggetto nientemeno che il 37imo Presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, in procinto d’organizzare il celebre viaggio in Cina del febbraio 1972.
Di queste caricature Guston ne realizzò all’incirca 180, divise in due serie: Poor Richard (agosto 1971) e, dopo l’impeachment di Nixon, The Phlebitis Series (1975), in riferimento alla flebite alla gamba di cui soffriva il presidente. Mai esposte in vita, la prima è stata pubblicata solo nel 1980 e, in un’edizione critica accompagnata da un testo di Debra Bricker Balken, nel 2001. Di recente la sede newyorkese della galleria Hauser & Wirth ha esposto la serie completa (Laughter in the dark, Drawings from 1971 & 1975).
Il volto intrappolato nella sua anatomia sessuale, bastano pochi tratti d’inchiostro a Guston per abbozzare le espressioni del presidente, così come il suo carattere megalomane, la sua dubbia morale, la sua viltà. Lo stesso destino spetta ai suoi collaboratori più stretti: il vice presidente Spiro Agnew (una testa conica), il Procuratore generale John Mitchell (una pipa fumante), il Segretario di Stato Henry Kissinger (un paio d’occhiali con la montatura spessa).
Due esuli a Woodstock
Tutto nacque a Woodstock, dove Guston si trasferisce nel 1967. Nel 1969 – l’anno del mitico concerto – frequenta un nuovo vicino vent’anni più giovane di lui, lo scrittore Philip Roth, qui rifugiatosi dopo la pubblicazione – e lo scandalo – di Lamento di Portnoy che lo aveva reso, agli occhi della critica, un “sexual freak”, con tutte quelle pagine sulla masturbazione del protagonista.
Il pittore e lo scrittore realizzano presto di condividere non solo delle letture classiche come Kafka e Beckett, ma anche una passione per quello che Guston chiama la “crapola”: insegne pubblicitarie, garage, diner, paninerie, junk shops, autofficine. La cultura popolare americana – disprezzata dai colleghi di Guston – costituisce per entrambi un reservoir immaginifico di infinite possibilità estetiche. Al riguardo niente ossessiona più Guston e Roth che il nuovo presidente, una figura che, secondo Roth, sembrava uscire da una commedia di Molière e si prestava, come nessun presidente americano prima d’allora, ad essere ridicolizzato.
Un sentimento di un’attualità bruciante: in una recente conferenza all’università di Ginevra ((Why American Politics Went Insane), W.J.T. Mitchell ha confessato di non riuscir sempre a distinguere gli interventi ufficiali dell’attuale presidente dall’imitazione di Alec Baldwin al Saturday Night Live Show. Così una vignetta pubblicata sul “New Yorker”, dove una donna si precipita nello studio di un disegnatore e urla: “Fermati! Quella vignetta di Trump che ti è venuta in mente stamattina è appena accaduta!”. La caricatura è indistinguibile dal suo bersaglio in quanto il presidente è il primo a utilizzare la satira come arma politica, come nell’infelice imitazione di un disabile in piena campagna elettorale. Se per Marx la storia si ripete due volte, la prima volta come tragedia, la seconda come farsa, il problema è che oggi, conclude Mitchell, sembra darsi simultaneamente come tragedia e farsa.
Torniamo a Woodstock. Qui Roth scrisse La nostra gang (1971), di cui Guston lesse in anteprima alcuni capitoli, traendone spunto per una serie di disegni realizzati in un solo mese (Poor Richard),in parte conservati dallo stesso Roth. Nell’estate 1971, appena tornato da un soggiorno di otto mesi in Italia, Guston dichiara: “la situazione politica dell’America mi disturbava, l’amministrazione in particolare, così ho cominciato a creare dei personaggi da cartone animato. Una cosa tira l’altra, e così in alcuni mesi ho realizzato centinaia di disegni che sembravano costituire una trama, una sequenza”. Guston segue il suo presidente ovunque, dalle apparizioni in televisione al già ricordato viaggio in Cina che, ancora in preparazione, diventa un oggetto di pura immaginazione, un modo per meglio precisare la morfologia sempre più fallica del volto presidenziale. Spingendosi al di là della carriera politica, Guston risale indietro fino agli stenti dell’infanzia di Nixon in una famiglia quacchera nel Sud della California – dove era cresciuto anche Guston, sebbene fosse nato a Montreal – e ai momenti di relax sulla spiaggia di Key Biscayne, suo buen retiro in Florida. Qui, per inciso, ha una dimora faraonica, Mar-a-Lago, anche l’attuale presidente.
Guston scomunicato
L’interesse di queste caricature rischia di sfuggire se non le riportiamo all’evento decisivo che tranciò chirurgicamente in due l’opera e la vita di Guston: la sua prima mostra di dipinti figurativi alla Marlborough Gallery di New York nel 1970. Prevedibile lo sconcerto generale: come osava un artista astratto, identificato con l’Espressionismo Astratto che ripudiava ogni residuo figurativo, un artista che, alla fine degli anni quaranta, aveva l’atelier sulla 10ima strada, vicino a quello di Pollock, de Kooning, Kline e Rothko, un artista che aveva sbattuto la porta della galleria di Sidney Janis quando espose la pop art, mettersi a dipingere figure? Con quel vocabolario personalissimo di anatomie sgraziate, lampadine, scritte, scarpe chiodate, enormi sigari, gambe pelose che anticipano la scultura di Robert Gober, fino ai cappucci del Ku Klux Klan – un richiamo all’infanzia e alle paure dell’artista, il cui cognome di nascita era Goldstein –, Guston si era messo nei guai con le sue stesse mani.
Trasgredendo l’idea che l’astrazione pittorica fosse l’apice – e il destino – dell’arte occidentale, Guston fu bollato come traditore del Modernismo. “A Mandarin Pretending to Be a Stumblebum” o qualcosa come “Un pezzo grosso che finge di essere un deficiente”, come si espresse uno dei critici americani più conservatori dell’epoca, Hilton Kramer.
Guston non la prese bene e visse le reazioni scomposte come una vera e propria scomunica, consolato da pochi amici quali Harold Rosenberg e Willem de Kooning.
Eppure è qui che trovò lo slancio per la sua satira politica: “Quando è arrivato il 1960”, affermò in un’intervista, “mi sentivo lacerato, schizofrenico. La guerra, quanto stava accadendo in America, la brutalità del mondo. Che razza di uomo sono, seduto a casa, a leggere riviste, ad andare su tutte le furie e sentirmi frustrato per qualsiasi cosa, e poi andare a studio per trasformare un rosso in un blu? Mi sono detto che potevo fare qualcosa al riguardo”. Assassinio di Martin Luther King Jr. e di Robert F. Kennedy, “Vietnamizzazione”, pubblicazione dei Pentagon Papers, Enemies list, Watergate: ragioni per essere inquieti non mancavano.
L’uomo di fiducia
Non c’è dubbio che la scelta di reintrodurre la figura non fu presa da Gaston a cuor leggero. Come affermò nel 1958: “Non capisco perché la perdita di fiducia nell’immagine riconoscibile e nel simbolo dovrebbe essere celebrata ai nostri giorni come una libertà. Si tratta di una perdita che ci fa soffrire, e questo pathos sprona e tocca il cuore della pittura moderna e della poesia”. Insistere sul ritorno alla figura come un rappel à l’ordre ci porterebbe fuori strada: Guston seppe intercettare un malaise serpeggiante nella società americana, come Roth con La nostra gang o con Il Complotto contro l’America, il suo romanzo fantapolitico del 2004. Intervistato recentemente dal “New Yorker”, Roth ha precisato che il nuovo presidente non somiglia tuttavia a Charles Lindebergh, l’aviatore antisemita protagonista de Il Complotto contro l’America, ma al picaresco Uomo di fiducia, l’ultimo romanzo di Herman Melville ambientato il 1 aprile su un battello sul Mississippi, amara e satirica allegoria della società americana.
Con le sue figure grottesche Guston si avvicinò, probabilmente inconsciamente, alla grande tradizione del fumetto e della satira politica americana, da Krazy Kat di George Herriman a Robert Crumb, da Saul Steinberg ad Art Spiegelman. Consapevole del contenuto osceno dei suoi disegni, della loro mostruosità politica ed estetica, Guston esitò a pubblicarli in vita nonostante l’incoraggiamento dell’amico Roth. Eppure aveva anticipato di tre anni le dimissioni del presidente Nixon. Come ha appuntato R. C. Baker su “The Village Voice”, osservando questi disegni oggi, sembra che Guston fosse in anticipo sulla storia americana di cinquant’anni.
Dal 10 maggio 2017 il lavoro di Philip Guston è presentato alle Gallerie dell'Accademia di Venezia.