Museo Fortuny, il più blasonato dei Musei Civici / Il rumore del genio, Mariano Fortuny

2 Gennaio 2017

C’è un gran brusio quando Mariano Fortuny vede quella luce tagliare il pavimento, ma forse non lo percepisce assorto com’è in quel che gli salta agli occhi. È il 1899, lui ha 28 anni, e già l’incanto per Parigi e per Venezia lo ha preso. La pittura che ha praticato per anni sul solco paterno e appreso a bottega e dai familiari non riempie la sua insaziabile voglia di nuovo, e la vita di società che gli si prospetta non è per lui un tempo speso bene. Piuttosto è la Ville Lumière a incatenare il suo pensiero con l’elettricità e Venezia a legarlo per sempre con i suoi riflessi di luce. 

 

Palazzo Fortuny ph. Anna Toscano

 

La luce entra dal tetto del suo studio all’ultimo piano di palazzo Pesaro degli Orfei e colpisce il pavimento, un momento epifanico, la rivelazione nel pensiero della ricerca. Il pensiero fa rumore? Poco più in là il palazzo di famiglia sul Canal Grande con madre e sorella e il chiacchiericcio salottiero della società intellettuale europea; molto più in là lo studio parigino e il rumore del realizzare brevetti con gli operai. E sotto, al primo e secondo piano di palazzo Pesaro degli Orfei, segni di un fasto passato ora occupato da piccole stanze con decine e decine di persone che ci vivono. Costruzione dell’ultima stagione di gotico fiorito di metà del Quattrocento, che per una manciata di secoli è stato abitato da collezionisti d’arte e Accademia di musici, ora, nell’Ottocento, è specchio di quella Venezia viva e abitata, di artigiani, famiglie numerose, maestranze che alloggiano stipate. Un centro storico veneziano che conta 146.682 residenti che, paragonato ai 55.583 di oggi, immaginiamo un fermento di genti.

 

Palazzo Fortuny ph. Anna Toscano

 

Mariano sceglie l’ultimo piano di questo maestoso palazzo per studio, non affacciato sul Canal Grande come tutte le persone di una certa classe sociale esigono, non tra calli affollate e ammirate, ma in campo San Beneto, un piccolo campo appartato, nel cuore della città ma al contempo isolato. A Parigi qualche anno prima con Boldini a teatro lui va a guardarle dietro le quinte, luogo che diverrà per lui incrocio delle sue fantasie sul futuro: le applicazioni elettriche, la fisica, l’ottica, gli scenari, i costumi, i modellini teatrali. Mariano ama guardare dietro le cose, capirne il loro funzionamento e il loro segreto.

 

“Nella soffitta di Palazzo Orfei, in cui lavoravo, una lama di sole tagliava nettamente il pavimento. Nel disporre la carta, questa mi cadde proprio nella zona illuminata dal sole. Ristetti sorpreso. La luce che rimbalzò intorno dal foglio illuminato, nella soffitta bassa e cupa, era la luce che cercavo: non luce diretta, ma riflessa”. Da qui prende le mosse la sua complessa riforma teatrale nel sistema dell’illuminazione. La cupola Fortuny, di sezione concava in forma di quarto di sfera a luce indiretta, permette di potenziare l’effetto illusorio della profondità di scena.

 

È il 1902 quando il suono dello stupore che prende le cose come dopo l’amore entra nella vita di Mariano: Henriette Negrin diverrà ispirazione e spalla di ogni sua creazione, compagna di vita e musa. Le commissioni di scenografie, cupole, illuminazioni, arrivano da piccoli e grandi teatri attenti alle innovazioni. Tuttavia sono ora i costumi ad attirare sempre più l’attenzione di Mariano, non solo il disegno, pure la loro completa ideazione e realizzazione con la presenza di Henriette.

 

Palazzo Fortuny ph. Anna Toscano

 

Il sottofondo a Palazzo inizia a mutare, man mano che Mariano ne abita anche gli altri piani. Al via vai quotidiano di numerose persone al secondo piano nobile succedono i macchinari del laboratorio di stampa su seta e su velluto: quasi cento lavoranti ed Henriette dietro a matrici lignee per la stampa e per la plissettatura della seta. Il 1907 è l’anno del brevetto dello scialle Knossos e dell’inizio dell’avventura nel campo della moda. Il suo studio sui pigmenti per le applicazioni sulle stoffe portano come segno distintivo i suoi studi sulla pittura a cui aggiunge il lancio di nuove e inaudite forme di abiti come il Delphos.

Cambiano i rumori anche al primo piano nobile del Palazzo, che diviene l’“Atelier Fortuny”, è il suono di passi ovattati da grandi tappeti: un luogo magico di 45 metri di lunghezza, con velluti alle pareti, quadri di Mariano e del padre, lampade e cupole di sua invenzione, arredi e opere d’arte tra cui accogliere e mostrare. Eleonora Duse, Peggy Guggenheim, Isadora Duncan, Sarah Bernhardt sono tra le più costanti indossatrici, nella vita e sul palco, degli abiti di Mariano. Marcel Proust nella Recherche lo cita tre volte, aprono negozi a Parigi, a Londra, a New York. 

 

È il rumore dei pennelli, i cui segni sono evidenti sui muri del suo studio di pittura al primo piano nobile, il leitmotiv della sua vita, tanto da brevettare un tipo di tempera per completare le sue esigenze, la “Tempera Fortuny”. A questo si aggiunge il suono dell’otturatore delle sue macchine fotografiche, macchine che lo accompagnano nei viaggi, in casa come base di lavoro alla pittura, ma anche nella sua amata laguna a fissarne per sempre luci e forme. Pure qui declina la fotografia alle sue esigenze brevettando una carta fotografica ai pigmenti di carbone che meglio realizza i suoi scatti. I suoi brevetti e le sue innovazioni ormai non si contano più.

I grandi rumori di distruzione e morte delle due guerre rallentano ma non frenano la voglia di Mariano di andare sempre oltre. Il teatro, i modellini, le scenografie, gli abiti, le invenzioni nel campo dell’illuminazione, sempre sono accostati dal suo costante allontanarsi e tornare alla pittura continuando a esporre nelle più importanti esposizioni europee. Le difficoltà economiche, come conseguenza delle restrizioni al lavoro dovute al regime fascista, e la stanchezza dovuta all’età iniziano a frenare la meravigliosa inventiva di Mariano.

 

Palazzo Fortuny ph. Anna Toscano

 

I rumori di questi primi decenni del Duemila a Palazzo Pesaro degli Orfei sono quelli dei visitatori del Museo Fortuny, il più blasonato dei Musei Civici, sono gli stessi passi ovattati dai tappeti e commenti a bassa voce assorbiti dai velluti alle pareti dell’Atelier, rimasto così come allora. Quante parole possono contenere i velluti? Quante ne possono ovattare i tappeti? Sono il frastuono del secondo piano nobile dove le pareti portano i segni di muri, porte, finestre, affreschi, disegni che si sono succeduti nei secoli, le genti, i macchinari, il bisbiglio delle lavoranti, il sospirare di Henriette china sui tessuti. A quanti rumori possono rinviare i segni del tempo? Per quanto ancora si potrà udire l’eco di lontano dell’Accademia Filarmonica degli Orfei che per decenni, prima di Mariano, ha vissuto questi spazi? L’ultimo piano ha un soffitto basso, infilate di finestre che si succedono una all’altra sui tetti, e conserva il rumore dello stupore della luce che entra a tagliare il pavimento.

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