Mauro Libertella: scrivere sulla terra del padre
“Prendine ancora un po’, prendine ancora un po’, gli chiedevamo ostinati, ripetendolo come una supplica. L’ultimo sorso gli spezzò il respiro, che già era un filo tenue e fragile. Così lo vidi morire, con la testa appoggiata al cuscino e gli occhi chiusi. Immagino che sia stato un bel modo per andarsene, in mezzo ai suoi libri e nella sua casa, dove negli ultimi anni aveva cominciato a morire poco a poco” (p. 10).
Mauro Libertella descrive così, in una delle prime pagine del suo libro, gli istanti che precedono la morte del padre. Per anni perseguitato dalla bestia del confronto con il suo giudizio, ha saputo elaborare una scrittura autobiografica la cui pacatezza è frutto di un lungo periodo di elaborazione del lutto, un intervallo che gli ha permesso di prendere le distanze tanto dal dolore della perdita quanto da insidiosi toni celebrativi post mortem della figura del padre.
Quest’ultimo, Héctor Libertella (1945-2006) – sinora pressoché sconosciuto in Italia – ha lasciato una profonda traccia nel panorama letterario argentino della seconda metà del Novecento. Nella duplice veste di narratore e saggista, ha contribuito infatti all’affermazione, nel Cono Sud, di una narrativa caratterizzata da un ermetismo di stampo avanguardista, dove la testimonianza esistenziale si avvita su esperienze formali a tratti ipertrofiche e dissacranti, in cui l’affabulazione s’innesta nella pratica della riscrittura. Con il suo controverso saggio Nueva escritura en Latinoamérica (Ed. Monte Ávila, inedito in Italia), Héctor Libertella propone, nel 1977, una cartografia di autori – tra i quali Severo Sarduy, Osvaldo Lamborghini, Enrique Lihn, Salvador Elizondo e Manuel Puig – che diventeranno punti di riferimento di alcune proposte narrative del Continente successive al fenomeno editoriale del Boom.
Sono necessarie queste brevi precisazioni sulla figura di Héctor perché è proprio dalla ricostruzione del difficile rapporto di Mauro con il padre, il suo lavoro e l’eccentricità della sua posizione nel dibattito letterario argentino che nascono le pagine di Scritto sulla tua terra, con cui il giovane autore, già collaboratore di diverse testate giornalistiche argentine, salta a piè pari nel territorio della finzione, d’ora in poi occupato da due Libertella.
Mauro Libertella
“A un minimo contatto di sguardi, il becchino comincia a gettare le prime palate di terra sulla bara. Io mi avvicino e lui mi offre la pala. [...] è pesante e mi trema tra le mani, ma mi faccio forza e butto giù altra terra con determinazione” (pp. 89-90). Dal primo ricovero, già in pieno decadimento fisico, “con lo sguardo perso nel vuoto” (p. 9), all’ultimo giorno di vita, nel 2006, in ottobre, quando la luce e il clima sembrano perfetti per i cortei funebri, sono trascorsi solo due mesi. La malattia ha un decorso così veloce da stordire; Mauro e Malena, la sorella, si alternano al capezzale del padre. Quest’ultimo, tuttavia, ha ancora lo spirito e la forza di trasformare la sua stanza d’ospedale in un laboratorio di racconti, “un ultimo salotto letterario, dove approdavano solitari e lunatici per rendere omaggio all’amicizia” (p. 47). Come César Aira, il quale, con la storia delle mucche sindacalizzate, partecipa a uno degli ultimi “momenti di puro delirio” (ibid.) dell’amico, ex frequentatore del bar Varela Varelita, di cui animava l’atmosfera, dal pomeriggio fino a notte inoltrata.
È nel misurarsi solitario con l’accudimento del corpo malato del padre che Mauro intraprende un viaggio a ritroso nel passato, un percorso che parte dal momento in cui cominciano a esserci i suoi occhi a guardare, “nascosti tra le righe” (p. 51), tutto ciò che prova a scrivere, fino a giungere “al momento fondante del nostro legame condiviso con la letteratura” (p. 49). La prosa zigzaga nel tempo, si alternano il passato, che è depositario dei segreti di un’esistenza il cui impianto è andato frantumandosi a causa del bere, e il presente del rapido abituarsi del protagonista a convivere con l’immagine del padre indifeso che, seduto sul letto assegnatogli, “sembra un emigrato [arrivato] con la sua valigia dalla vecchia Europa” (p. 11). Nel frattempo quest’ultimo ha assunto le sembianze di un fantasma, “aggrappato a un filo trasparente” (p. 55): la narrazione, di un’asciuttezza lapidaria, è un brulicare di ricorrenze lessicali relative all’area semantica della trasparenza, la cui funzione retorica è quella di creare un solido appoggio al sistema espressivo del testo. Così, se il corpo di Héctor è trasparente perché annientato dagli effetti del consumo smodato di alcol e dal cancro, l’aggettivo ritorna nel suo giudizio sulla “chiarezza” della scrittura del figlio: “Io però non gli credevo. Perché mi chiedevo come poteva, chi aveva predicato per anni la purezza della forma ermetica, additare come virtù centrale di un testo il suo carattere trasparente” (p. 50).
Il peso del confronto con un’intera generazione letteraria è notevole, costante (non solo per Mauro, verrebbe da aggiungere), ma è anche il motore di una proposta narrativa coraggiosa: il tono misurato della scrittura, riprodotto abilmente nella versione italiana, rafforza e intensifica la feroce onestà nella rappresentazione della lunga agonia. Da un po’ di tempo, dopo la separazione, Héctor viveva autotumulato in un appartamento dove Mauro, a distanza di molti mesi dalla scomparsa, si è trasferito, quasi a volere trasformare il luogo di quell’intimità domestica inaccessibile, caratterizzata dal lavoro della scrittura, nella rappresentazione spaziale tangibile di un’appropriazione che, essendo ad opera del figlio, non può che essere indebita. Dalla terra gettata sul corpo del padre, così come dalle pagine scritte impunemente in sua assenza, nasce nuova materia di cui la letteratura si appropria.
Il libro: Mauro Libertella, Scritto sulla tua terra, trad. it. di Vincenzo Barca, Caravan Edizioni 2015, pp. 96, € 9,50