Machines like me / Ian McEwan. Queste macchine così inumanamente perfette
Sliding doors, si dice così, no? Le cose vanno in un modo, ma – se avessimo imboccato un’altra porta girevole – avrebbero potuto andare diversamente: «il presente è il più fragile dei costrutti improbabili. Avrebbe potuto essere diverso», secondo Charlie Friend, narratore e coprotagonista del più recente romanzo di Ian McEwan, ambientato nell’Inghilterra di “un” 1982, anno di uscita nelle sale di Blade Runner. Come sarebbe potuto andare se alcuni avvenimenti avessero preso una piega differente. Quali?
Primo: se la Thatcher avesse perso sanguinosamente la guerra delle Falkland contro la Giunta argentina e si accingesse a lasciare Downing street al laburista Tony Benn. Il quale, al di là dell’assonanza, non somiglia a Tony Blair, ma a Jeremy Corbin che, “con la sua banda di trotzkisti”, avrebbe condotto trentacinque anni in anticipo la Gran Bretagna fuori da una EU pronuba delle grandi multinazionali, prima di venir assassinato in un attentato.
Secondo: se Alan Turing – il genio che aveva decrittato Enigma, mossa risolutiva per sconfiggere i nazisti nella II Guerra Mondiale – invece di farsi prima castrare chimicamente e poi suicidarsi a 41 anni – fosse sopravvissuto abbastanza da resistere al carcere per omosessualità e quindi, riabilitato, avesse ispirato una stagione di folgoranti evoluzioni tecnologiche, a petto delle quali i computer e gli iPhone di oggi impallidiscono. Dando vita così ad una prima generazione di androidi apparentemente molto simili a noi, grazie agli sviluppi dell’intelligenza artificiale e della biologia computazionale. Eguali a noi nel bene, ma forse non nel male.
Terzo: se i Beatles (i Fab Four al completo), riunitisi dopo dieci anni di separazione, fossero di nuovo primi in classifica con “Love and Lemons”, album enfatico, ma illuminato dalla voce di John Lennon. Qui e là, nel plot, altre notizie: John Kennedy sarebbe sopravvissuto in qualche modo all’attentato a Dallas, e anni dopo Jimmy Carter avrebbe sconfitto Reagan alle elezioni del 1980.
Un mondo parallelo in cui le scienze avrebbero dato frutti copiosi, e l’opera di fisici quali Albert Einstein, Erwin Schrödinger, Richard Feynman, Paul Dirac (tutti citati nel romanzo) avrebbe inciso profondamente anche nel quotidiano.
Per il resto, McEwan non si cura troppo del contesto: come altri ha scritto, «ha portato un elefante in una stanza, ma non si è poi curato di riorganizzazione il mobilio». Tiene più all’impianto etico-filosofico del racconto. Spesso, tra le righe, spunta un quesito filosofico. Come una versione del cosiddetto “problema del carrello”: un’automobile elettrica a completa automazione, nell’imminenza di un incidente che coinvolgesse chi è a bordo e chi è in strada, chi dovrebbe “scegliere” di salvare? Quesito attuale. L’anno scorso in Arizona una Volvo sperimentale della Uber a guida autonoma ha investito e ucciso un pedone di 49 anni che stava attraversando non sulle strisce. Nel processo, Uber è stata fin qui sollevata da ogni responsabilità.
Ecco il quadro che accoglie, in apparenza, una storia a tre: tra Charlie, che utilizza l’eredità materna per comprare uno di questi "umani sintetici", un maschio chiamato Adam, con scarsa fantasia (le Eva sono subito andate a ruba), e la giovane vicina di casa Miranda, il cui nome è uno dei tanti riferimenti a La tempesta. Il terzo è proprio Adam. Tuttavia, la vicenda non si limita alla narrazione di un pur impervio e insolito ménage à trois. Intanto, perché c’è un quarto: Mark, un bambino in carne e ossa di 4 anni che entra in scena interagendo coi sentimenti dei tre adulti, provocando l’affetto filiale di Miranda e la gelosia di Charlie e di Adam. E poi perché McEwan non intende aggiungere un’altra voce al dibattito secolare su differenze e prossimità tra uomo e macchina, ma di rappresentare quanto l’imperfezione sia il sale della vita, ciò che ci fa umani. Insomma, McEwan sembra omaggiare l’amato Philip Roth, autore di un altro romanzo ucronico, Il complotto contro l’America ordito da Charles Lindbergh e i suoi, alleandosi con la Germania nazista, parente di quel La svastica sul sole firmato dal vero genio della narrativa fantascientifica, Philip K. Dick.
Questo quindicesimo racconto potrebbe anzi riportare in epigrafe una delle frasi-chiave dello scrittore di Newark: capiamo di esser vivi sbagliando, e sbagliando ancora. Il che non vale per l’uomo-macchina che apprende sì dagli errori, ma seguendo una logica tanto intelligente, quanto disumana proprio perché perfetta, dettatagli dal sistema di algoritmi in base al quale è costruito. Un sistema come quello che regola il gioco degli scacchi: «Ma il punto è che gli scacchi non sono una rappresentazione della vita», puntualizza Alan Turing in una conversazione con Charlie. «Si tratta di un sistema chiuso. Le sue regole sono incontrastate e prevalgono costantemente su tutta la linea. [...]. È un perfetto gioco d'informazione. Ma la vita, nella quale applichiamo la nostra intelligenza, è un sistema aperto. Disordinato, pieno di trucchi e finte e ambiguità e falsi amici». Infatti, la vera epigrafe del romanzo è una citazione da una poesia di Kipling, The Secret of the Machines: «But remember, please, the Law by which we live, | We are not built to comprehend a lie…». McEwan avrebbe svelato troppo della storia, se avesse completato il verso: «We can neither love nor pity nor forgive. | If you make a slip in handling us you die!»
Chi ha intenzione di leggerlo (in italiano è previsto in autunno per Einaudi), salti pure questa sinossi di un romanzo discusso, per quanto ineccepibile dal punto di vista tecnico; a tratti esangue e a tratti divertente, come quando Charlie ammette di essere “l’ultima novità in tema di cornuti”, o quando Adam giustifica la propria splendida forma con una "semplice dieta a base di elettroni". McEwan conosce a puntino le regole del romanzo: il ritmo, il susseguirsi delle scene, quando rallentare e quando spingere.
Insieme all’amata Miranda, conturbante studentessa di 23 anni, il trentatreenne Charlie progetta la personalità di Adam. Trasfondono le loro preferenze nella memoria del robot, creando una specie di corredo genetico-culturale frutto di entrambi e generando le attitudini di un androide dalle caratteristiche quasi perfette: un bel tipo moro, “un portuale del Bosforo”, dalla pelle morbida e calda, forte e intelligente, capace di un vocabolario degno di Shakespeare e di mille espressioni facciali. Appena succhiata la vita dalla presa elettrica (evidente reminiscenza shelleiana), Adam acquisisce competenze culinarie, impara a versare elegantemente il vino, a strappare le erbacce identificando le piante con i loro nomi latini, a leggere e apprezzare poesia e letteratura. Un soldato della vita, perfettamente inquadrabile in una società che non vuol più esser romanzata, tutt’al più riassunta dalla lapidarietà degli haiku, capaci di celebrare le cose come sono. Ma, si chiede Turing, chi sarà mai capace di «scrivere l'algoritmo per la piccola, bianca bugia capace di risparmiare i rossori di un amico?»
Anche Adam s’innamora presto di Miranda. E ci scopa, eiaculando acqua distillata. Charles non è entusiasta di esser cornificato da un artefatto. Ma la giovane fa notare che Adam non è granché diverso da un dildo; che il suo alito somiglia all’odore del retro di un televisore acceso e che si è preso cura di lei più o meno come una lavatrice dei piatti. Tuttavia, si ha il sospetto che Charlie intenda vendicarsi schiavizzandolo, quando – scoperte le capacità di broker del replicante – lo mette al computer per far fruttare i propri investimenti. Che nel giro di poco prosperano. Adam invece mostra di saper crescere nei sentimenti e di porsi profondi dilemmi morali. Il principale dei quali inerisce il drammatico Segreto di Miranda.
Qualche anno prima, infatti, la ragazza ha fatto condannare per stupro un compagno di scuola, Gorringe. Sei anni di reclusione. Miranda però non è stata stuprata. Ha mentito per vendicare un’amica di origine pakistana, Mariam, lei sì violentata da Gorringe. Mariam non ce l’ha fatta e dopo qualche tempo si è uccisa. Miranda se ne assume tutta la colpa per non aver trovato il coraggio di disubbidire all’amica, raccontando la verità ai genitori e ai fratelli di Mariam. Novella Antigone, si sente obbligata da una legge interiore a vendicare l’amica, come un androide dai suoi algoritmi: «Quell'anno penso che sarei potuta finire completamente a fondo, se non fosse stato per la mia unica ambizione nella vita: la giustizia. E intendo con questo, vendetta».
Intanto il plot si arricchisce di Mark, un bambino di 4 anni praticamente senza famiglia. Miranda da subito sente l’impulso ad adottarlo. Charlie comprende la tenerezza provata dalla compagna, ma vede anche l’insidia comportata dal nuovo arrivato che potrebbe spodestarlo dal cuore dell’amata. E c’è un non detto: questo bambino già fatto potrebbe divenire il figlio di un’altra coppia, costituita da Miranda e da Adam. Il quale riconosce Charlie pur sempre come “suo padrone”, e gli promette che non farà più sesso con Miranda, anche se – lo mette in guardia – «non posso intervenire sui miei sentimenti. Devi concedermi i miei sentimenti». L’androide è programmato per agire conformemente all’ideale dell’Altro.
La liberazione di Gorringe dalla prigione sembra costituire una prima minaccia per Miranda. Ma non è la sola: pur amando Miranda, Adam non può fare a meno dal ritenerla una criminale. La questione è uno dei poli etici su cui s’impernia il romanzo. Pervaso com’è dal proprio senso di giustizia, deve denunciarla alle autorità, avendo cura di consegnare alla polizia anche la confessione registrata di Gorringe dello stupro di Mariam.
Adam è una macchina a sangue freddo: non ha Edipo né ha mai sognato, non è mai stato bambino, né ha mai giocato come un bambino, imparando dal gioco. È una macchina cosciente, ma senza inconscio. Se quindi è in grado di porsi dilemmi morali, non può risolverli che con soluzioni nette, impossibilitato com’è a concepire eccezioni. È infatti la sua etica programmata e irrinunciabile a decretare il destino di una vicenda che per lui non ha sfumature: «Ma che mondo volete? La vendetta, o il corso della legge. La scelta è semplice».
Convince dunque la coppia a far visita a Gorringe per anticipare l’eventuale vendetta. Ma l’uomo in carcere è cambiato. Adam non capisce: nella sua logica, Gorringe non può non vendicarsi. Una volta emersa la falsa testimonianza di Miranda, il Tribunale arresta il processo di adozione di Mark e condanna la ragazza. Privo com’è di fessure, non mancante di niente, l’androide si mostra in tutta la propria disumana mostruosità e Charlie lo colpisce alla testa con un martello, rompendolo. Adam si spegne lentamente, alla HAL 9000, e la coppia ne nasconde il corpo (non è un cadavere!) in uno sgabuzzino.
Ormai il rapporto di Adam è nelle mani delle autorità e Miranda finisce in carcere. Ne uscirà dopo mesi, in qualche misura rasserenata, tornando a vivere con Charlie. Senza una lira: prima di “rompersi”, animato dal proprio senso di giustizia, Adam ha regalato ad associazioni no-profit tutti i proventi delle sue transazioni sul web, ritenendole – con qualche fondamento – frutto del proprio lavoro.
Machines like me non è un romanzo di fantascienza. La storia dice piuttosto della sottigliezza irripetibile della mente umana, che consente errori e perversioni. Adam è in grado di desiderare, ma non di delirare, di scartare, cambiando logica e binario. Prova sentimenti, sa comporre haiku e dedicarli a chi ama, ma lui e nessun altro robot potrà mai incarnare (et pour cause) le nostre imperfezioni. «Se iniziamo a costruire umani artificiali o anche computer capaci di prendere decisioni, potremmo voler infonder loro le parti migliori dei nostri sé», ha detto McEwan a “The Times”. «Ma poi scopriremmo che è piuttosto scomodo stare accanto a persone artificiali più gentili di noi, e più coerenti di noi dal punto di vista morale».
Il nuovo McEwan celebra quindi i nostri difetti, le mancanze che ci rendono umani. È un salutare elogio dell’incoerenza che ci distingue dalle macchine. Come diceva Lacan, se un uomo che si crede un re è pazzo, un re che si crede un re non lo è di meno. E Adam crede ostinatamente nel proprio sé ingenuamente autonomo, solo cosciente: non sa che non si dà opposizione semplice tra inconscio e coscienza. Non può fare a meno della certezza di sé, è costruito così, anche se talmente bene da essere attraversato dal dubbio: «È il modo in cui sono fatto. Devo concludere che ho un senso molto potente del sé e sono certo che sia reale e che le neuroscienze un giorno lo descriveranno pienamente. Ma anche quando lo faranno, non saprò di più di questo io di quanto non sappia ora. Ho dei momenti di dubbio al punto da chiedermi se sono soggetto a una forma di errore cartesiano». Non è stato costruito per essere in grado di capire quanto male possa causare un uomo. Un altro androide, quando apprende che gli uomini sono stati capaci di Auschwitz, altera il proprio software fino al “suicidio”.
Nel nostro mondo, robot come Adam non sono certo destinati a spassarsela, dovendosi confrontare con chi, come noi, è per lo più le proprie contraddizioni: «Creiamo una macchina intelligente e consapevole di sé e la spingiamo nel nostro mondo imperfetto. Concepita secondo linee generalmente razionali, ben disposte verso gli altri, una tale mente si trova presto in un uragano di contraddizioni [...]. Milioni che muoiono per malattie che sappiamo curare. Milioni che vivono in povertà mentre c’è abbastanza per sopravvivere tutti. Degradiamo la biosfera mentre sappiamo che è la nostra unica casa […] e tutto il resto – genocidi, torture, schiavitù, omicidi domestici, pedofilia, sparatorie a scuola, stupri. ... Viviamo accanto a questi tormenti e poi neanche ci stupiamo di provare ancora felicità, persino l'amore. Le menti artificiali non sono così ben difese».
Resta la domanda di McEwan: se mai riuscissimo a costruire una macchina capace di scrutare nei nostri cuori, siamo sicuri le piacerebbe ciò che vedrebbe? Come potrebbe mai capirci un artefatto, se non siamo capaci di comprendere noi stessi prima che gli altri?
Insomma, Sunt lacrimae rerum. Nella natura delle cose c’è del pianto, chiosa McEwan con Virgilio. Saremo mai in grado di codificare negli androidi questa consapevolezza? «Vogliamo davvero che i nostri nuovi amici accettino che la sofferenza e il dolore sono l'essenza della nostra esistenza? Cosa succederebbe se chiedessimo loro di aiutarci a combattere l'ingiustizia?»
Un interrogativo per gli androidi di domani. Per l’oggi, non sarebbe male ce lo ponessimo noi umani.