Morto il caput spunta la testa / Che testa!
Pochi lo sanno e nessuno ci pensa: in origine, “testa” era una metafora. Ed è ancora oggi una metafora, ma spenta, come dicono gli specialisti con altra metafora. Cos’è allora una metafora spenta? È come un vulcano spento, l’orifizio di una vena di lava non più incandescente e ormai solidificata.
Fuor di metafora, una metafora spenta è una metafora che non pare più tale a chi se ne serve. Chi la usa, lo fa come fosse parola qualsiasi, dal piano significato denotativo. E “testa” è proprio così: è metafora spenta esemplare. Chi oggi in italiano proferisce “testa” a cosa si riferisce banalmente se non a ciò che, nel caso di un essere umano, gli sta sul collo?
Per dir lo stesso, chi parlava latino diceva “caput”, che nel naufragio del latino non si è completamente perso. Lo continua l’italiano “capo”. “Capo” fa qui e lì concorrenza a “testa”, ma sono come Pepsi e CocaCola: si sa qual è la più popolare. Non è dappertutto così. Varianti di “capo” prevalgono nei dialetti meridionali. Non in Sicilia, però, e lo si nota perché si tratta di un caso curioso. Nel Medioevo, capitava che l’emigrazione si orientasse al Sud invece che al Nord e, laggiù, “testa” pare l’abbiano portata i “continentali”, che avevano già perso “capo”. I Siciliani hanno accolto “testa”, abbandonando quel po’ di “capo” che era loro rimasto, per vicende complesse qui trascurabili.
Se in latino si diceva “caput”, “testa” da dove viene? Sempre dal latino. “Testa” era la parola per dire ‘vaso di terra(cotta)’. Un giorno, non si sa quando, qualcuno prese a dire “testa” al posto di “caput”. Perché lo fece? Per fare dello spirito. Dare della “testa” al “caput” di qualcuno era un modo per riderne o per denigrarlo, fino all’insulto. La metafora era trasparente: un “caput” vuoto come una “testa”. La spiritosaggine piacque. Piacque tanto. Piacque a tanti. Si sa come va: un andazzo, nessuno lo ferma. “Testa” oggi, “testa” domani, “testa” a destra, “testa” a sinistra, non ci fu quasi più un “caput” che non fosse una “testa”.
Casi del genere fanno sospettare che nel cambiamento linguistico talvolta prevalga ineluttabilmente il cretino. Anzi, i cretini. Il cretino designato, una “testa”, e quello designante, che è corso dietro all’andazzo. Tra gli esperti, c’è quindi chi è corso ai ripari, sostenendo che a cominciare a dire “testa” per “caput” sarebbero stati i medici: metafora tecnica per indicare la scatola cranica, invece di metafora spregiativa. Sarà. Forse è solo un tentativo di venire a capo di una faccenda in cui non si sa dove sbattere la testa.
Comunque sia, come metafora, “testa” pian piano si raffreddò. Infine, si spense. Da allora, “testa” è una parola qualsiasi. Pochi sanno e nessuno pensa che, in origine, era altro. Per fare gli spiritosi, oggi bisogna trovarle un sostituto metaforico, un traslato che emani ancora qualche calore: “zucca”, “pera”, “coccia”, “cocuzza” e così via.
È andato tanto avanti, il vuoto e spregevole vaso di terracotta che, come valutazione, può esprimere proprio il suo contrario. “È una testa”, “Che testa!” sono lodi. Ci sentissero dire cose del genere gli antichi promotori della metafora, si terrebbero la pancia dalle risa: “Tempi di teste, quelli in cui essere una testa passa come lode”, penserebbero. E magari avrebbero ragione.
Ma la natura è clemente. “Capo” o “testa”, il tempo è un boia che mozza tutto. Così gli eredi non si trovano esposti al certo ludibrio dei loro antenati, se questi avessero mai la ventura di ascoltarli e di vederli all’opera.
Pubblicato, sotto altro titolo, sul Corriere del Ticino (19 gennaio 2017).