Schermi
In uno degli spot pubblicitari con cui la Apple presenta i suoi prodotti – vere e proprie opere d’arte contemporanea e insieme “testi” ideologici della azienda di Cupertino –, uscito nel 1984, una platea guarda su un grande schermo un personaggio che parla senza tregua. Poi entra una ragazza e lancia un martello contro lo schermo.
Nell’interpretazione che ne dà Vanni Codeluppi, all’inizio del suo L’era dello schermo (Franco Angeli), lo schermo rappresenterebbe il “nemico” di quel momento, l’IBM, mentre la ragazza è Apple stessa che combatte il Grande Fratello. Il risultato di quel colpo è mandare in mille pezzi lo schermo. Da allora la profezia si è realizzata: oggi siamo in presenza di tanti piccoli schermi, dall’iPhone all’iPad, dai tablet allo smartwatch, quest’ultimo presentato pochi giorni fa. Le persone oggi trascorrono molto tempo davanti agli schermi presenti in casa e in ufficio, in viaggio, lungo le strade, nelle stazioni, nelle piazze. Siamo sempre davanti a uno schermo sia che scriviamo o che comunichiamo, che guardiamo la pagina Facebook o cerchiamo un vecchio filmato su You Tube.
Lo schermo è diventato il nostro compagno abituale sostituendo, nel campo visivo, lo specchio e la finestra. Secondo Marshall McLuhan, che ne ha scritto in tempi pre-web, lo schermo sarebbe un passaggio verso qualcosa. Ma dove ci conduce questo passaggio?, si chiede Codeluppi. Prima di provare a rispondere, è bene capire cos’è uno schermo. Un recente numero della “Rivista di estetica”, curato da Mauro Carbone e Anna Caterina Dalmasso, è dedicato a questo argomento schermi/screens (Rosenber & Sellier, pp. 272, € 35). Carbone spiega che la parola deriva dal longobardo skirmjan, “proteggere”; si tratta di una superficie che mette al riparo una persona creando una barriera contro qualcosa di fastidioso o di minaccioso. Ma già nell’Ottocento il termine aveva cambiato significato: lo schermo è un luogo dove avviene una proiezione d’immagini in movimento create da una lanterna magica. Qualcosa che da un lato nasconde – è il significato tradizionale –, e dall’altro mostra.
Lo schermo prende il posto della finestra quale metafora visiva prevalente, a partire dal trionfo del cinema, dato che la prima possiede la frontalità della visione, mentre il secondo, lo schermo cinematografico, propende all’avvolgimento visivo. Codeluppi distingue tra il “vedere attraverso” della prospettiva rinascimentale, la finestra dell’Alberti, e il “vedere sopra” dei supporti fissi, come il cinema, e il “vedere dentro” degli schermi elettronici che realizzano un doppio sogno: la trasparenza e anche la possibilità di partecipazione allo spazio virtuale. Lo spettatore resta all’esterno, ma ha la sensazione di essere in continuo contatto con il mondo virtuale e di accedervi. L’implementazione della tattilità ha ulteriormente aumentato questa sensazione. Nel numero della rivista diretta da Maurizio Ferraris c’è un interessante saggio di Francesco Casetti, studioso di cinema e docente a Yale: “Cosa è uno schermo, oggi?”. Dopo aver spiegato quello cinematografico e quello televisivo – sul primo si proiettano le immagini luminose, mentre il secondo emette luce ed è fluorescente – Casetti cerca di enucleare nuove metafore dello schermo.
Sandy Smith. Green / Blue Horizontal
La prima è quella del “monitor”. Qui lo schermo è uno strumento per ispezionare quanto ci circonda e per tenerlo sotto controllo; è quello presente nei centri commerciali, nei grandi hotel, nei complessi abitativi: a circuito chiuso 24 ore su 24. Si tratta di uno schermo che non implica uno sguardo, raccoglie prima di tutto dati. La seconda metafora è quella della “bacheca” o “lavagna”. Sono i visori delle stazioni ferroviarie e aeree: ci aiutano a passare il tempo proiettando previsioni del tempo, telegiornali, spot, oppure ci informano sull’arrivo di un treno o di un aeromobile. Anche i videogiochi sono di questo tipo: valori e menù d’azione con punteggi. Si tratta in definitiva di segnali, spezzoni, non di visioni complete del mondo. Il terzo modo è quello dei “mail box” o “scrap box”. Lo spettatore contemporaneo, secondo Casetti, fa fatica a riflettersi in un personaggio o in una storia, per questo costruisce un’immagine di sé assemblando foto, testi, commenti, spesso prelevati altrove. Sono materiali eterogenei provenienti dal web, dai social network per lo più, con cui si costruisce una pagina ritagliando e incollando. Sono ritratti veri, ma scomposti e ricomposti, che in definitiva potrebbero applicarsi a tutti, rappresentazioni della soggettività. I social network del web 2.0, tipo come Tumblr, sono così. Ma anche i blog composti di post sono schermi di questo tipo: “il proprio discorso è sempre un’eco del discorso altrui”.
Però, scrive Casetti, tutto questo è già superato: si passa dallo schermo al “display”, che è il nuovo schermo. Questo “rende presenti” le immagini. Con touch screen l’occhio si collega alle dita, e queste ultime segnalano quanta e quale attenzione si presta allo schermo. La mano sollecita nuove immagini, le ingrandisce, le sposta, le impila. La mano ha il sopravvento. In questo modo non è lo schermo a impadronirsi dello spettatore, bensì il contrario: lo scorrere conta più della cattura. La logica dominante è quella del pull e push. Fine dell’epoca della finestra, della cornice e dello specchio.
Con gli smartphone oggi intercettiamo dati nello spazio sociale e in quello virtuale, li usiamo per un momento, poi li congediamo. L’obiettivo dei device è di bloccare qualcosa, poi rilasciarlo. Non più lo scambio, bensì la circolazione, tema già evocato negli anni Settanta dal filosofo Michel Serres. Ora ci siamo. La novità ultima è che l’immagine appare come il prodotto di dati provvisori e in movimento che risponde a bisogni momentanei. Vilém Flusser in un libro del 1985, Immagini (Fazi Editore) l’ha descritto così: “Il mondo nel quale l’uomo è collocato non può più essere contato o raccontato: si è dissolto in elementi puntuali (in fotoni, quanti, elementi elettromagnetici). E la sua stessa coscienza, i suoi pensieri, i desideri e i valori si sono dissolti in elementi puntuali (in bit informazionali)”. La domanda è: ma chi sta ora davanti allo schermo? Ancora noi oppure un Altro?
Precedentemente pubblicato su La Stampa