Diario 6 / Sgomento del professore di lungo corso

16 Marzo 2022

Lunedì 7

 

Il professore di lungo corso, anche il più solido, il più corazzato, può essere preso da sgomento. Ancora qui? si chiede dopo decenni di servizio prestato dietro la cattedra. Ma davvero sto salendo di nuovo queste scale? È uno stato d’animo che sopraggiunge improvviso, e nel varcare la soglia dell’aula il professore sente un peso schiacciante sulle spalle. Per un momento indugia. Entro o non entro? 

Ma poi si fa coraggio, lotta con questi pensieri ed entra in classe mascherando lo scoramento. Però, proprio sul punto d’iniziare l’appello, come ogni mattina, lo assale un ricordo fulminante. Ma là in fondo, a sinistra, là dove adesso c’è Bertolini, là c’ero io! Lo sapeva anche prima che in quella stessa aula aveva passato i suoi anni di studente, ma adesso è un sapere immediato, un’intuizione, e nelle orecchie sente riecheggiare una frase pronunciata dopo l’esame di maturità: mai più qui dentro! 

Invece, lì dentro, ci è poi tornato e ci ha passato una vita intera, come una scheggia ferrosa attratta da un invincibile magnete. Ecco perché ci vuole dell’umorismo, per non buttarsi giù dalla finestra, che sarebbe anche di cattivo gusto di fronte agli alunni.

 

E io devo ringraziare quei colleghi ormai veterani che mi hanno accolto tanti anni fa, quando ero all’inizio. Ringrazio quei senatori che mi hanno dato il buon esempio dell’umorismo, Giovanni in particolare, che un giorno, seduto dietro la cattedra, mentre stava scrivendo su un foglio, si era accorto di aver sbagliato nello scrivere la consegna di un tema. 

E cosa fa? L’ho sentito raccontare nell’aula docenti, innumerevoli volte. Alza la testa, guarda verso gli studenti, e invece di chiedere un bianchetto chiede se per caso hanno un bianchino. 

Erano dotati di talento umoristico e di vasta esperienza, questi vecchi professori. Esperienza di vita, compresa quella che si acquista nelle sale da biliardo. Tutti aspetti che garantivano loro una personalità poliedrica, oltreché la profonda stima della popolazione studentesca. E nel dare un’insufficienza, mai che nessuno di loro accompagnasse il voto con la tipica smorfia del risentimento professorale, o con quelle sfuriate che in alcuni provocano un sottile rigurgito di bava alla bocca. 

 

 

Di certo il senso dell’umorismo non mancava nemmeno a una mia indimenticabile collega di matematica andata in pensione l’anno scorso, una che si sedeva spesso vicino a me, durante i collegi docenti, o io vicino a lei. 

Un pomeriggio era dietro di me quando stava intervenendo una professoressa di latino che rivendicava il diritto di sollevare dei dubbi su una certa proposta del Dirigente Scolastico. Io ero distratto, ero assorto in certi miei pensieri sulla vanità dell’essere umano. 

E mentre sono lì, preso da queste riflessioni esistenziali, lei, la mia collega di matematica, si sporge in avanti verso di me, e riferendosi alla professoressa di latino che sta intervenendo dice: cagadóbi. Io non capisco, le chiedo di ripetere e lei ripete la parola: cagadóbi. Ma continuo a non capire, allora, non senza una certa asprezza nonostante la simpatia nei miei confronti, lei dice: cagadubbi, capito adesso?

Certe battute le trascrivo proprio per superare lo sconforto, è una tecnica di sopravvivenza, e da veterano la consiglierei ai colleghi più giovani. 

 

Ma se la storia del bianchino potrebbe anche essere una leggenda, non lo è lo scambio di battute al quale ho assistito durante un consiglio di classe tra due colleghe, una d’inglese e l’altra di italiano. Si guardavano in cagnesco, come al solito, vecchie frizioni, un’antipatia di fondo. 

All’improvviso quella d’inglese solleva una critica, rinfaccia un’inadempienza a quella d’italiano, che a sua volta risponde irritata: ho le mie istruzioni da coordinatore! Ma l’altra contrattacca velenosa. Sì, le mestruazioni da coordinatore! 

 

Martedì 8

 

Qualche anno fa ho chiesto un parere agli studenti di quinta. Ragazzi intelligenti e vivaci. Uno di nome Niccolò alza la mano e risponde. Per me l’umorismo ha l’effetto di mandare avanti l’umanità, esattamente come il rossore della vergogna che si diffonde sulla faccia di chi fa una porcheria. In mancanza dell’uno e dell’altra diventiamo animali. Anche questo l’ho trascritto.

Invece, oggi, al termine dell’intera giornata, mi ritrovo ad aver trascritto un’unica frase, pronunciata da uno sconosciuto in compagnia di alcuni altri che camminavano questa mattina verso la scuola. Erano in cinque e li avevo notati anche la settimana prima. 

Arrivano precisi alle 7,30, parcheggiano il furgoncino e si avviano in gruppo con delle borse a tracolla. Indossano abiti da lavoro con delle toppe sotto il ginocchio. Passo deciso, aria allegra e parlano tra di loro a voce alta. Non come fanno gli studenti al momento di entrare a scuola, ma piuttosto con quell’allegria che gli studenti hanno al momento in cui suona l’ultima campana della mattinata, e dalla scuola se ne vanno.

 

Nell’affiancarmi al gruppo, uno di questi sconosciuti, uno che ha l’aria del condottiero rinascimentale, un po’ la faccia di quello dipinto da Antonello da Messina, si gira verso di me e mi saluta. Un buon giorno vigoroso, deciso. E nel ricambiare io chiedo dove stanno andando, e se sono dei piastrellisti. 

No, siamo muratori d’assalto, dice con orgoglio. Arriviamo, scassiamo, ricostruiamo. Un’efficacia degna delle parole che Cesare invia a Roma dopo la vittoria su Farnace, se è vero quello che riferisce Plutarco. 

In tarda mattinata, quando arrivo a casa parcheggio e mi avvio verso il negozietto di Bonini per comprare il pane. Hanno anche degli ottimi cannellini alla crema. Ne compro uno e all’uscita mi vien voglia di sgranchire le gambe. C’è anche un bel sole che scalda l’aria, così prendo per via Rivaltella, la strada che porta all’azienda di Ferrarini, dove fanno il prosciutto cotto. Ma non ci arrivo perché a metà strada giro a sinistra e vado a curiosare lungo una striscia di bosco che cresce tra i campi coltivati. 

 

 

Anni fa c’era un orto rigoglioso dove crescevano pomodori San Marzano, cipollotti di Tropea, melanzane, zucchine, aglio e ravanelli, lattuga, carote e fagiolini. Lo coltivava un pensionato, ma dopo la sua morte è andato tutto in rovina. Dicono che questo lembo di terra l’abbia comprato Ferrarini, e adesso al posto dell’orto c’è un groviglio di rami dove trovano rifugio lepri, fagiani e caprioli. 

Da anni non viene più nessuno a potare gli alberi, che però continuano a produrre susine, amarene e anche ciliege di piccolo calibro. Ci sono noci e noccioli, peschi, querce, ma tutto inselvatichito, lasciato al disordine naturale. Anche la capanna costruita dal vecchio è diroccata. Era poco più di un ricovero attrezzi, ma lui la faceva sembrare un’isba, e sotto la veranda lui ci aveva messo due poltrone e un tavolino. 

 

In questo paradiso ci passava ore e ore. Vangava, zappava, sarchiava e rincalzava. Attingeva l’acqua per innaffiare da bidoni posti sotto gli scarichi delle grondaie, e d’estate portava delle taniche piene a bordo di una FIAT 127. Era tutto curato in ogni dettaglio, un po’ come negli orti urbani disseminati nella periferia cittadina, quelli di Baragalla o quelli del Canale di Secchia, che fanno pensare alla precisione dell’orafo. 

Io ci venivo spesso da queste parti, e avevo cominciato a salutarlo. Quell’uomo solitario m’incuriosiva, sembrava una specie di anacoreta. Ci siamo conosciuti un saluto dopo l’altro, e un giorno m’aveva invitato a sedermi in poltrona poi aveva stappato una bottiglia di lambrusco. Lo faceva con l’uva di tre filari che crescevano dietro la capanna. Aspro, nero, spumeggiante. E mentre io lo ascoltavo parlare della lotta che ingaggiava con talpe e caprioli, ci eravamo scolati l’intera bottiglia.

Adesso è tutto in rovina ma ci vengo ancora. A fine primavera viene anche mia moglie. Raccogliamo prunelle e amarene, e il giorno dopo facciamo la marmellata. Invece d’inverno ci vengo con mio figlio per raccogliere legna da ardere. La stessa cosa che faceva con me mio padre. E proprio qui, in questo boschetto, all’insaputa di mia moglie, mio figlio ha imparato a usare la roncola.

 

Mercoledì 8

 

Per tornare al comico, e nel contempo al pensiero divergente, da cui il comico scaturisce, durante una conferenza dal titolo Il comico è una cosa seria, il relatore ha fatto un esempio. A cosa serve un berretto? Il pensiero comune risponde: a metterselo in testa. Il pensiero divergente risponde: a chiedere l’elemosina.

E in queste settimane di guerra, pochi giorni fa, ascoltavo un’intervista radiofonica mentre ero in mezzo al traffico. Parlava uno storico. Diceva che nelle proteste di piazza Maidan, a Kiev, quando nel 2014 manifestavano contro l’allora presidente Viktor Janukovyč, per reagire alle leggi che impedivano di manifestare con casco e volto coperto, molti cittadini si erano presentati in piazza con maschere da carnevale e in testa indossavano pentole e scolapasta. 

Invece adesso ha preso il sopravvento l’elmetto militare e un giorno bisognerà pur capire se c’è un antidoto al nazionalismo, all’imperialismo, e per quale motivo gli esseri umani cerchino il rimedio alla loro misera vita sparandosi addosso, un evidente cedimento al pensiero convergente, così poco umano e privo di umorismo.

 

 

Usano missili balistici, razzi, bombe, tutte armi che procurano la morte a distanza, perfino le armi termobariche, le quali disintegrano i corpi, li riducono in polvere, se è vero quello che ho letto. Ma tutto questo impedisce di fare l’esperienza della morte. Quando un’arma la procura a distanza, non si vedono né il sangue né l’agonia del morente. La morte è resa astratta, concettuale. E forse anche per questo le guerre contemporanee sono così atroci, perché rendono più difficile guardarsi in faccia. 

E mi scuso se insisto ancora con Guerra e pace, ma c’è un punto in cui il russo Pierre incontra il generale francese Davout, famoso per la sua crudeltà. Sono nemici, Davout sospetta che Pierre sia una spia, ma i due “per alcuni secondi si guardarono, e questo sguardo salvò Pierre. In quello sguardo, al di là di tutte le condizioni della guerra e del processo, fra quelle due persone si stabilirono dei rapporti umani. Entrambi in quell’unico istante sentirono vagamente un’immensa quantità di cose e capirono che erano entrambi figli dell’umanità, che erano fratelli”.

 

Giovedì 9

 

Entro in terza e una mia studentessa, prima che io mi metta a interrogare, alza la mano. Professore, posso dirle una cosa? Per un momento ho temuto che volesse commuovermi con una storia lacrimevole per schivare l’interrogazione. Non è il tipo ma non si sa mai. Di’ pure, le rispondo. Be’, io sto leggendo La morte di Ivan Il’ič, e visto che ce l’ha consigliato lei, mentre leggo me lo immagino con la sua stessa faccia. Ah! dico io. Non so bene cos’altro aggiungere, se non che lui, Ivan Il’ič, è destinato a morire presto, e faccio il segno delle corna con le mani.

In classe si mettono a ridere. Poi, aggiungo subito, se mi ammalo gravemente devi venirmi a trovare. Verrò, professore, promesso, vengo a sollevarle le gambe. Una citazione perfetta di quello che fa Geràsim con Ivan Il’ič. Questo sarebbe troppo, ma venirmi a trovare in punto di morte me lo devi, è una promessa.

E a proposito di pensiero divergente, ieri pomeriggio, sfogliando un vecchio quaderno ho ritrovato il ritaglio di un articolo in cui lo scrittore inglese Ian McEwan racconta di una spedizione di antropologi in Nuova Guinea, negli anni Venti. 

 

È il primo incontro tra un uomo del ventesimo secolo e gli anziani di un villaggio rimasti all’età della pietra. L’atmosfera è tutt’altro che distesa perché agli anziani non è per niente chiaro chi siano questi sconosciuti, se sono spiriti o uomini. E nel dubbio se ne vanno rimandando al giorno dopo la decisione se continuare o no l’incontro. 

Nel frattempo, per indagare sul conto di quegli sconosciuti, gli anziani incaricano un ragazzo di rimanere lì nei paraggi, a spiare quegli strani esseri e scoprire come si comportano. L’indomani, quando tornano gli anziani, il ragazzo li avvicina tutto soddisfatto. Ha scoperto qualcosa d’importante e li porta dietro un cespuglio dove la sera prima, a turno, s’erano intrattenuti gli sconosciuti. Gli anziani si avvicinano, scostano le fronde e vedono che c’è pieno di merda. Allora tirano un sospiro di sollievo. Uomini come noi, dicono fra loro, e svanisce ogni sospetto.

 

Venerdì 11

 

Però riconosco che è facile perdere la leggerezza. È successo oggi pomeriggio a mia moglie, che dopo aver accompagnato sua sorella alla stazione, ha bucato la gomma anteriore destra dell’auto. Si è squarciata, mi ha detto al telefono, non so cosa fare, devi venire subito, sono in mezzo alla strada. Io naturalmente mi metto in macchina e la raggiungo subito, poi andiamo dal gommista procedendo a passo d’uomo, io davanti, sulla mia auto, e lei dietro sulla sua. 

Forare una gomma è indubbiamente negativo, difficile prenderla con leggerezza, c’è poco da fare. A volte l’umorismo è come una ruota sgonfia, si prospettano contrattempi, spese impreviste, ma lì in officina facciamo una di quelle scoperte che ribaltano il modo di pensare al negativo. Proprio come diceva Hegel, che preferiva cercare il positivo nel negativo. 

Certo, Schopenhauer liquidava quest’idea come una pagliacciata filosofica, chiacchiera vuota e priva di senso, un guazzabuglio simile al delirio dei pazzi, ma lì in officina ho avuto la conferma che qualche volta ha ragione Hegel. 

 

 

Me lo fa capire il gommista quando esamina le due gomme anteriori. Queste sono di una mescola difforme rispetto alle gomme posteriori, dice, e voi avete corso un grave rischio. 

Per essere chiaro utilizza la terminologia tecnica. I due pneumatici anteriori, di tipo normale, non sono compatibili coi posteriori, di tipo runflat, che sono rinforzati, a bassa deformazione. Cioè in caso di frenata improvvisa a velocità elevata, avremmo corso il serio rischio di sbandare. Andrebbe messo in galera, chi vi ha montato queste gomme.

 

Poi, mentre mia moglie torna a casa sulla sua macchina equipaggiata di gomme a norma, io vado a casa di un mio amico. Ho voglia di passare un’ora a casa sua, perché entrando da lui è po’ come uscire da questo mondo. Si entra nel suo appartamento e si esce dal presente, dalle bombe della guerra, dallo stress del traffico, dallo smarrimento quotidiano. È un effetto benefico dovuto alla sua casa, dalle pareti completamente tappezzate di libri. E dove non ci sono librerie ci sono quadri e dischi. In quella casa si sta come in una tana. Volumi di ogni tipo: storia della matematica, letteratura, libri sulla Cabala ebraica o di storia del cristianesimo, le opere di Freud, quelle di Wittgenstein, e questo mio amico se ne sta assorto nella lettura come succedeva al bisnonno di Erich Fromm

Ho letto da qualche parte che aveva un negozietto a Wiesenbronn, poco più a Nord di Norimberga, e si arrabbiava quando entrava un cliente mentre lui stava studiando il Talmud. Ma non c’è un altro negozio dove puoi andare? Non vedi che sono occupato?

 

Sabato 12

 

L’ultima ora del sabato è sempre una fatica per me. È una mattinata a orario pieno. E oggi ho interrogato solo in terza, venti minuti. Per il resto ho parlato ininterrottamente. Adesso ho anche fame e provo a cercare nella tasca della giacca dove trovo ancora tre mandorle in un sacchetto che tengo come scorta.

Entro in quarta mentre sto sgranocchiando l’ultima mandorla, una ragazza chiede di andare in bagno, un’altra finisce di bere un caffè, e prima di iniziare la lezione faccio vedere un video su YouTube, sul modello di Line Rider basato sulla Sinfonia n. 5 di Beethoven. Poi, dopo l’eccellente commento di una ragazza che studia arpa al conservatorio, mi alzo in piedi e inizio a parlare.

 

 

In questi giorni non ho nessuna voglia di affrontare le guerre del passato ma devo soffermarmi sulla ritirata di Napoleone, che dopo aver preso Mosca s’accorge di stringere un pugno di sabbia, Allora riparte verso Ovest incalzato dal freddo, dalla guerriglia cosacca e da Kutuzov il temporeggiatore, proprio come Quinto Fabio Massimo. Cito anche il principe Andrej, quando dice che la guerra è la cosa più schifosa della vita. Quindi passo alla battaglia di Lipsia, alla sconfitta di Waterloo, col duca di Wellington e il generale Blücher. È lo spettacolo della storia, ragazzi, dove va in scena quella forza misteriosa che tratta l’umanità come uno sciame. Poi accenno a Cambronne, e quando suona la campana tiro il fiato.

  Spengo il computer di classe, spengo le luci dell’aula, e mentre mi avvio lungo il corridoio mi affianca Paolo, il mio collega ciclista. Procede a passo svelto e io fatico a tenergli dietro. A quest’ora è nettamente al di sopra della mia portata. 

 

Comunque gli sto a ruota, anche perché con aria preoccupata dice di avere un problema. Io ascolto in attesa che continui. So che si esprime senza preamboli, e aggiunge subito che non riesce più a dare brutti voti. Sarà un segno dell’età, aggiunge. Ma la stessa cosa che succede anche a me, dico io, e succedeva anche a Luciano, un nostro collega andato in pensione anni fa. 

All’uscita da scuola faccio un tratto di strada con una collega che mi chiede se anch’io ho iniziato a fare delle scorte. Scorte? Scorte alimentari, intende, e mi guarda preoccupata. No, dico io, sarà una reazione simile a quella che c’è stata quando hanno annunciato il lockdown. 

Appena arrivo a casa trovo mia nipote. Una bella ragazza allegra che si chiama Silvia. Da settembre lavora in una scuola di Trento però abita a Sopramonte, vicino al Bondone, un paesino di tremila abitanti dove ha preso casa, e sta bene nonostante si senta un po’ isolata. D’altronde viene dal Salento, dove ha lasciato famiglia e fidanzato, e naturalmente le mancano anche il mare e il sole. 

 

Sono fatti così, i salentini. Si adattano, sanno affrontare la vita, hanno una gran forza di carattere, ma lontani dai loro posti sono soggetti alla nostalgia, molto più di quanto siano disposti ad ammettere. Non lo esprimeranno mai apertamente, per orgoglio, ma nascendo nel Salento è come se ricevessero una particolare impronta percettiva e di conseguenza sentono la mancanza di parecchie cose: le pucce di pane alle olive nere, l’odore di finocchio selvatico, anche i muretti a secco che scorrono ai lati delle strade. Manca loro perfino il vento.

Però mia nipote apprezza le persone che ha incontrato in Trentino, e dice che si sente ricambiata. La colpisce il fatto che nel paese dove abita si vestano quasi tutti con abbigliamento sportivo, tute, felpe, scarpe da ginnastica, e non appena tornano dal lavoro si dedicano a una qualche attività all’aria aperta. 

La finestra della sua cucina dà su una casa a tre piani e quando lei lava i piatti guarda le scene che si svolgono in quella casa. Vede due vecchi al primo piano e il loro figlio con la sua famiglia che abita sopra di loro. E adesso un nipote si è appena sposato e occupa l’ultimo piano. È come una famiglia allargata di cinquant’anni fa. 

 

 

Li vede andare e venire. Sembrano contenti, dice. Trascorrono il loro tempo nella concordia, sempre operosi, indaffarati, e mai che alzino la voce. I due vecchi zappano nell’orto, i nipoti si fermano a chiacchierare con loro, qualcuno parte in mountain bike e spesso arrivano degli amici. Una vita che sembra trascorrere come fosse un film sulla felicità possibile.

Nel parlarne, Silvia dà l’impressione che piacerebbe anche a lei una vita del genere. E tu di figli ne vorresti? le chiedo. Prima non ci pensavo ma adesso vorrebbe averne. Però sono sicuro che una vita del genere la vorrebbe in riva al mare, in Salento, non in Trentino. 

   

Domenica 13

 

La diagnosi sinottica fornita dall’aeronautica militare dice che lo scenario europeo è caratterizzato dalla presenza di un promontorio a sviluppo meridiano, con asse proteso dall’Italia fino a tutta la penisola scandinava, che separa due ampie saccature, la prima delle quali va dalla Russia fino al mare di levante. Cioè, in sostanza, fa molto freddo, considerato che fra una settimana inizia la primavera. 

Un freddo che fa pensare a chi fugge dalle case bombardate in Ucraina, dice mia zia al telefono. Sento dalla voce che ha bisogno di conforto. È preoccupata per quello che ha sentito. Alla televisione hanno detto che nel Veneto stanno facendo la scorta di pastiglie allo iodio. Ma cosa vuol dire, chiede, c’è da aver paura? Ma no, zia, non ci pensare, in televisione hanno bisogno di esagerare, altrimenti non li ascolta nessuno. Ma quando metto giù ho l’impressione di non averla convinta.

E comunque adesso mi vado a fare una bella camminata verso Rivaltella, per vedere a che punto è la fioritura delle amarene, ma spero che non sia troppo in anticipo, che se arrivasse una gelata avrei poco da raccogliere a fine maggio.  

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