Günter Grass la sentinella
Ora che se n’è andato, al di là delle parole di cordoglio e dei riconoscimenti di rito, non saranno pochi in Germania quelli che tireranno un sospiro di sollievo. Con lui è uscita di scena una figura scomoda, uno che conosceva le fibre profonde dei suoi connazionali, che ne sapeva riconoscere l’ipocrisia con un fiuto infallibile nell’istante preciso in cui si manifestava, e non solo nella politica, anche nel costume nazionale, nei silenzi collettivi, nell’accettazione dell’esistente, nei tratti in cui l’ethos collettivo si rispecchia nella politica.
Ha criticato l’America negli anni della Guerra fredda, è stato nemico giurato delle politiche di riarmo della Nato negli anni Ottanta, ha denunciato i limiti della riunificazione tedesca. Con grave imbarazzo di Angela Merkel è stato dichiarato ‘persona non grata’ dallo stato d’Israele per le sue recenti critiche al suo ruolo di potenza atomica in Medio Oriente e nell’ultimo anno ha assunto le difese della Grecia contro la politica di austerità della UE volute dalla cancelliera tedesca.
Il ruolo di sentinella morale della nazione e di ermeneuta delle sue convulsioni nascoste – ruolo scomodo, non richiesto e disapprovato da molti –, lui lo ha svolto nella militanza politica attiva, schierandosi ad esempio a fianco di Willi Brandt nella campagna elettorale del 1969 che valse al candidato socialdemocratico l’elezione a cancelliere. Ma lo ha declinato soprattutto nella sua lunga attività letteraria a cominciare dal suo capolavoro giovanile, Il tamburo di latta, un romanzo in cui le atrocità della storia sono narrate dalla prospettiva straniante di un bambino che si rifiuta di crescere perché intuisce l’inganno di quel romanzo di formazione a cui i tedeschi hanno legato a partire dal Settecento e fino alla catastrofe novecentesca il loro modello di socializzazione.
Grass ha decostruito quel modello, lo ha disarticolato, ne ha mostrato tutta la vacuità ideologica, dalla specola grottesca del bambino che suona imperterrito il tamburo mentre il mondo intorno crolla. La sua capacità rabdomantica di cogliere i lati oscuri e di auscultare i movimenti tellurici della sua nazione, soprattutto di quella di cui ha seguito la crescita, quella democratica rinata dalle rovine della guerra, gli ha procurato dure critiche in patria ma anche straordinari consensi. Una polarizzazione che si è allentata, quando nel 1999 gli fu attribuito il premio Nobel per la letteratura, ma che poi si è riaccesa improvvisa con la sua confessione pubblica del 2006, in coincidenza con l’uscita del suo romanzo Sbucciando la cipolla, in cui in una memorabile intervista al direttore della Frankfurter Zeitung rivelò «il passo fatale del quindicenne in uniforme», la sua adesione volontaria alle Waffen-SS.
I tedeschi si indignarono: il grande censore della nazione aveva tenuta nascosta per decenni una verità così scomoda e così infamante. Grass reagì con pacatezza mettendosi a nudo attraverso una anatomia dettagliata della sua esaltata adesione giovanile al regime nazista, offrendo un ritratto inedito di una generazione di adolescenti a cui la vita familiare era diventata stretta e la promessa millenaristica hitleriana una sorta di terra promessa. Ma soprattutto spiegò le ragioni di questa confessione narrativa: «Ho delle riserve di fondo verso le autobiografie. Molte vogliono far credere al lettore che le cose sono andate proprio così. Io al contrario volevo costruire un’opera più aperta, per questo la forma è stata così importante e mi ha richiesto tempo.»
Günter Grass è stato anzitutto un grande narratore che conosceva gli ingredienti dell’epica ma li sapeva adoperare con un senso raffinato della sperimentazione novecentesca: il montaggio, la citazione, la deformazione espressionista del reale, il senso del grottesco, la capacità visionaria, l’ironia come straniamento e come affabile leggerezza quando il peso della storia si fa insostenibile. Le sue ‘opere mondo’, per usare la felice espressione di Franco Moretti, sono state anzitutto opere ‘scritte’, in cui la visione storica si trasformava in stile e lo stile, la scrittura, la sperimentazione in visione storica. Un’abilità questa di cui diede prova in È una lunga storia (1995), un romanzo percorso da un’ambizione estrema, quella di ricostruire l’intero percorso storico della Germania a partire dall’età di Theodor Fontane, cioè dalla metà dell’Ottocento fino alla seconda guerra mondiale e da lì alla caduta del muro. Un’opera che molti hanno giudicato un fallimento, non poche le stroncature, ma fu il segnale di una svolta: la Germania usciva dalla sua atroce anomalia, era una nazione che aveva condiviso con le altre nazioni europee le aporie della prima modernità e del suo culmine ottocentesco per poi precipitare negli orrori della prima guerra mondiale e di lì al tragico esito della dittatura nazista. Quella storia Grass l’ha raccontata per frammenti, per episodi, spesso scollegati, ammucchiando un immenso deposito di eventi anche minimi, di oggetti e personaggi. Li ha fatti passare attraverso la macina di un mulino che li ha triturati spogliandoli di ogni attrattiva epica e restituendoli alla loro nuda datità fisica ed esistenziale. Un esperimento che ha scontentato molti per la sua intenzione epica disattesa dallo stile intenzionalmente antiepico, mimetico della congerie di frammenti di cui la storia si nutre.
Tornando ai suoi conti narrativi e morali con la colpa taciuta dell’adesione volontaria alle SS, ossia al romanzo che ne racconta la storia Sbucciando la cipolla, vediamo all’opera un analogo dispositivo straniante che qui dissemina il racconto di domande per spezzare il continuum diegetico: la sua resa dei conti con se stesso finisce per essere una radicale messa in questione della stessa «arte del romanzo». L’ intonazione metanarrativa di cui Grass qui come altrove nei suoi romanzi dà prova non ha quasi mai fini estetici, l’obiettivo vero è la vita e le sue colpe, che minano l’integrità del soggetto rammemorante. Lo scavo ermeneutico nel passato non è per lui un esercizio di stile ma fondamentalmente un gesto morale, che sembra interrogare a posteriori i numerosi travestimenti narrativi, a cui la sua produzione di scrittore, ossessionato, e potremmo dire con buone ragioni, dalla storia tedesca, ha dato vita, a cominciare dal celebre Tamburo di latta. Di cui in Sbucciando la cipolla si legge una sorta di profezia ex post che sigilla l’intero percorso di Grass:
«È un fatto che la letteratura vive di un bottone avanzato, di un ferro arrugginito del cavallo dell’ulano, della mortalità dell’uomo e dunque di lapidi rose dalle intemperie. Così il pellegrino in marcia verso l’arte sulla dritta via e sulle vie traverse e sullo stretto sentiero tra poesia e verità continuerà a incocciare nel Tamburo di latta; un libro il cui contenuto ristagnante ha gettato ombre prima di venire chiuso tra due copertine e di aver presto imparato a camminare».
Le ombre della memoria individuale per essere condivise e diventare memoria di una nazione hanno bisogno di miti, di figure, di narrazioni condivise: Grass ha saputo dare alla sua nazione le storie in cui rispecchiarsi e riconoscersi, ma l’ha fatto senza indulgenze mitopoietiche, con l’onestà del dubbio e la mobilità sperimentale della sua scrittura. Se la sua nazione sia preparata a raccogliere questa eredità non è ancora dato di saperlo. Ma se non ora quando?